Bruno Tognolini è uno gnomo molto serio, che come tutti gli gnomi possiede un'abilità. Abilità significa abitudine e capacità di fare certe cose per bene, a regola d'arte; nel suo caso: scrivere storie e rime. È uno gnomo perché non ha età, o meglio ha diverse età, almeno quattro: i suoi cinquantaquattro anni umani, tutti presenti e scintillanti, e che crescono ogni anno di un anno; i suoi otto anni da Bambino Fiaccola, che non cambiano mai; i suoi trecento anni di lontane stirpi sarde e valtellinesi; i suoi trentamila anni delle Ere dei Racconti Perduti. Ed è uno gnomo molto serio perché, a dispetto di questi anni lontani, prende molto sul serio le cose vicine di qui e di oggi, e certe volte si adira anche troppo e tuona anatemi.
È "fuorilegge" perché non crede nella legge del mercato, che dice che ogni cosa vale per quanto vende. Questa legge pare l'unica vincitrice nei nostri regni, ma lui è convinto che non sarà così per sempre. E nel frattempo la trasgredisce: per esempio regalando a zero lire filastrocche e testi che altrove gli pagano cari. O in altri modi. Qualche volta gli va bene, qualche altra le busca di brutto.
Conosco il giornalino, e le persone che lo fanno. Delle persone che lo fanno penso molto bene, perché combattono la mia stessa guerra. Qualche volta mi hanno chiamato, e per qualche sera ho combattuto al loro fianco: in quelle sere non le abbiamo prese. Il giornalino mi piace perché piace molto a mia figlia, che ora ha quindici anni, e che con tutti i libri che le ho letto da quando ne aveva due ora di libri ne capisce più di me. Di lei mi fido.
Io le statistiche non le incontro mai, nelle classi e nelle biblioteche dove vado a incontrare i lettori: incontro solo belle facce contente. Di loro posso dire questo: c'è interesse verso ciò che merita interesse. E un adulto che sa fare bene una cosa, che la fa con grande gusto, gli viene bene ed è ben fatta, suscita il loro interesse. Se io fossi un musicista, o un fisico, e gli mostrassi con gli occhi scintillanti una bella sambetta o un teoremino stellare, mi guarderebbero con gli stessi occhi scintillanti. Ma non basta far bene una cosa: ci vuole qualcosa di più. Occorre far bene cose morali, cose pulite. Ho sentito alla radio uno spot pubblicitario che era "fatto bene", nel suo genere, ma era così miserabile e immorale (ecco lo gnomo serio che tuona anatemi), che me lo son scritto. Dice così: "Insegno a dei ragazzini a cui non importa niente di niente. Ieri però li ho visti interessarsi a qualcosa: la mia fotocamera Samsung, vinta coi buoni Q8". Questo adulto finto-insegnante non deve stupirsi se ai suoi alunni non importa niente. Ma non "niente di niente", come lui dice: niente di ciò che lui gli offre. Quei ragazzi hanno ragione a preferire una telecamera a lui: un adulto che parla così, sia pure un pubblicitario, vale meno di una telecamera vinta coi punti del benzinaio. Per fortuna ci sono altri adulti, che sanno dare ai ragazzi cose più preziose e più morali. E che combattono contro i miserabili che diffondono queste calunnie. Gli adulti che dicono che ai ragazzi non importa niente di niente, non si rendono conto che i ragazzi sono i nostri specchi, e che quindi stanno parlando di loro stessi. Del loro essere adulti da niente di niente.
Sì: scrivere un libro ancora più bello, una storia ancora più bella, una filastrocca ancora più bella.
Ma soprattutto andare avanti nel cammino, vedere qual è la valle che viene dopo. E se scopro che la valle che viene dopo non è un libro più bello ma un viaggio, un amore, un figlio, o il silenzio che fa scoprire nuove regioni dell'anima, o cose da fare per far star meglio gli altri, allora il passo sarà quello e non un libro. Ed eccolo il segreto: la valle che viene dopo è un segreto anche per me.
Mah! Chi lo sa. Gli orientali hanno un bel modo di dire, un bel pensiero di qualche saggio zen: nell'applauso, chi può dire qual è il rumore che la mano destra fa sulla sinistra, e la sinistra sulla destra? Io ho scelto la poesia perché nella mente, o in qualche altra profondità del corpo, le parole più belle da scrivere si formavano con questo bum-bum di tamburo: il ritmo, la rima, gli accenti, il canto della lingua. Ma non so se sia il tamburo che suona e dispone le parole in versi, o al contrario le parole che nascono e fanno suono di tamburo. Non so se nasca prima in me il Suono o il Senso. E non so, fra la poesie e me, chi ha scelto chi. Io so che prima di diventare scrittore suonavo la chitarra e cantavo, e ho fatto a lungo il tamburino in una banda teatrale di strada. Poi ho voluto e dovuto smettere, e ora sono molto felice di quello che faccio. Ma se rinasco, faccio il musicista.
Prima per caso, e poi per intenzione. Per caso quando il mio gruppo teatrale, non riuscendo a trovare pubblico fra i grandi, ha deciso di far teatro per ragazzi. Mi son trovato allora a scrivere storie per i bambini, ed è stato come se si aprisse una diga: le belle storie, un po' schiacciate e avvilite nel teatro per i grandi che avevo fatto fin lì, hanno preso a zampillare e fluire come acqua di fiume, e non si sono ancora fermate. E ora scrivo per i bambini con intenzione: perché parlare a loro è raccontare il mondo di prima mano, dall'inizio, quando è ancora stupefacente e nuovo, quando tutte le storie sono ancora da dire, intere e scintillanti. Raccontare ai grandi è diverso: occorre sempre un po' disfare, prima di fare, scrostare la vernice vecchia per dipingere un quadro nuovo. Molti scrittori per grandi sono bravissimi scrostatori: però poi quando è il momento di raccontare, hanno speso tutto quello che avevano, forse, e diventano muti, ci lasciano lì scrostati, poveri noi. Far questo coi bambini, che croste non ne hanno, è impossibile o criminale. Vorrebbe dire graffiargli la pelle. E invece bisogna vestirla, la loro tenera e fragile pelle, di belle storie che li proteggano nel mondo. Belle storie, non croste. Ma forse son solo un po' pigro, tutto lì: mi piace dipingere il nuovo, non scrostare il vecchio.
Quando me lo chiedono negli incontri coi bambini dico sempre: non lo so. E aggiungo: non lo devo sapere. E mi spiego con un ragionamento. Se alla parola "ispirazione" aggiungiamo una "n" diventa "inspirazione", che è uno dei due tempi del respiro. Se noi inspiriamo pensandoci, ragionando su ciò che facciamo, calcolando per esempio quanta aria ci serve, quando basta, a che punto dobbiamo fermarci per cominciare a espirare, e poi quando non abbiamo più aria e dobbiamo di nuovo inspirare, e così via, c'è caso che moriamo soffocati. L'inspirazione è un atto involontario, si fa senza pensare. Così è l'ispirazione. Se io dovessi pensare, mettendomi a scrivere, a "dove trovare l'ispirazione", forse mi impantanerei su quel problema. Io invece mi siedo e scrivo. La scrittura fluisce coi pensieri, è fatta di essi; l'esperienza del mestiere pensa a rallentarli, sceglierli, modellarli, colorarli; i ricordi delle storie che ho visto e letto, o delle cose che mi sono accadute, danno le loro pennellate, aggiungono colori del quadro. Io mi siedo e scrivo perché è il mio mestiere, e forse l'ispirazione è tutta lì: inspiro, respiro, non ci penso, e la storia cresce.
Sì, la poesia è linguaggio dell'anima, e come tale è lingua segreta, lingua magica, che si parla con voce speciale e si sente con orecchie speciali. Come ogni lingua magica è difficile da parlare, e anche da ascoltare. Non si riesce a parlarla sempre, a comando ogni volta che si vuole. Io, se in una filastrocca riesco a imbroccare due o tre versi di vera lingua magica su dieci, sono già contento: fanno magica tutta la tiritera. E sì, è vero: la poesia racchiude e rivela sensazioni segrete, emozioni profonde. Perché? Per due motivi: perché le va a cercare laggiù e lontano in me stesso, dove le cose sono profonde; e perché laggiù e lontano in me stesso ci sono molti uomini, io non sono più solo io ma siamo molti, e quello che riporto da laggiù appartiene a molti. La poesia è per me un cannocchiale, una rupe alta, un bel balcone sull'anima, da cui posso guardare lontano e vedere un paesaggio più largo. La poesia è uno strumento di conoscenza: prima ancora che "per dire" qualcosa agli altri, serve "per scoprire", per vedere, per sapere qualcosa per me. Qualcosa che non saprei in nessun altro modo. Qualcosa che non si vede da nessun altro balcone.
I segreti professionali del poeta son quelli che si imparano con la pratica in ogni professione. Come in ogni professione, saperli usare non vuol dire saperli descrivere, né saperli insegnare. E addirittura non vuol dire saperli. I migliori segreti, in certi casi, son quelli che restano segreti anche per chi li custodisce. Io so comporre ottave di buona fattura, formate da endecasillabi abbastanza variati: ma un giorno che mi hanno chiesto se accentuassi prevalentemente l'ultima sillaba o la penultima, la terza o la sesta, ho risposto tranquillo con che non ne ho la minima idea. Non lo so dire, ma lo so fare. Ciò premesso, di qualche trucco, a forza di applicarlo inconsapevolmente, alla fine son diventato consapevole anch'io. Per esempio, la regola "dulcis in fundo / venenum in cauda": riservare un capitombolo di senso alla fine della poesia. La poesia dev'essere una fionda, non quelle a elastico, le frombole che si ruotano sopra la testa: ti porta in giro e in giro coi versi, ma alla fine - se è fatta bene - ti molla e ti lancia lontano. Quindi uno dei miei trucchi può esser questo: nel comporre una poesia, pensare per primo il verso di fionda, piazzarlo alla fine, farlo precedere da un verso di sgancio, e poi da una serie di versi di rotazione. Chiaro? No? Bene, infatti è un segreto.
I bambini sono la loro anima, non c'è distanza né separazione fra loro e lei. Gli adolescenti hanno cominciato a staccarsi dalla loro anima, la scoprono, la sfidano, la guardano stupefatti, non ci capiscono niente, fanno a pugni e a baci con lei. Gli adulti hanno un po' preso le misure alla loro anima, o sono convinti di averlo fatto, e giocano con lei: a scacchi se va bene, a mosca cieca se va male. La poesia, come abbiamo detto, è una lingua magica che può servire a parlare con la propria anima. Gli adolescenti sono impegnati ogni giorno in un duro corpo a corpo con la propria anima: è naturale che ne facciano uso. Per parlamentare con lei.
Come un padre che guardi compiaciuto e amoroso una riga di figli, non so scegliere: uno mi piace perché è dolce e coccolone; uno perché è scatenato e inarrestabile; uno perché è lento ma determinato; uno perché è vulcanico e volubile... Fra i libri in versi, per esempio, amo molto "La sera che la sera non venne"; ma ci sono certe filastrocche scritte per la Melevisione, e ancora mai pubblicate, che sono lingua magica pura dall'inizio alla fine; fra i libri in prosa son molto legato a "Lilim del tramonto", che è la mia narrazione più lunga: ma se poi penso a quella più corta, "Zio Mondo", mi viene in mente che nelle botti piccole sta un vino molto buono...
Vale il discorso fatto sopra per l'ispirazione. "M'innamoravo di tutto", cantava De Andrè: ispirazione da tutti e da tutto, ma non so come e dove. Tutti gli autori che ho letto mi hanno dato qualcosa, ma ho potuto usarlo solo quando mi sono dimenticato da dove veniva, e l'ho sentito mio. Posso dire però che in gioventù ho praticato con gusto e profitto l'imitazione. L'imitazione, diceva un mio professore del DAMS, non è la copia: l'imitazione serve per imparare. Avevo dei "periodi", come i pittori; o forse meglio come i chitarristi in erba, che suonano "alla Jimy Hendrix" o "alla Carlos Santana"; c'è stato il periodo in cui scrivevo "alla Pavese", poi "alla Vittorini", poi "alla Celati", poi "alla Borges". E infine, digeriti tutti questi chitarristi, "alla Tognolini". Alla domanda del libro, autore e poesia preferiti, invece, non so proprio rispondere: non appena ne penso uno, me ne viene in mente un altro e poi un altro. No, i bei libri letti vogliono proprio stare in Compagnia.
Sì, eccome. La scorsa edizione del Festival di Gavoi - un festival letterario che si tiene da due anni nei primi di luglio in Sardegna, e che ha anche una parte per ragazzi - ho chiesto ai bambini gavoesi di raccontarmi un po' dei loro "segreti e bugie". Mi sono arrivati cento testi che raccontavano segreti e bugie di ogni tipo: balle, calunnie, omissioni, fesserie, bugie dolorose, verità nascoste. Ne ho scelto dieci e li ho presi come soggetto per dieci racconti, che prima o poi finirò e cercherò di pubblicare. In uno, per esempio, si racconta il segreto penoso di una bambina di nome Mariuccia, eretto per celare una colpa: dieci euro rubati alla mamma. Questo segreto, crescendo in un ambiente di famiglia forse un po' troppo perfetto, pian piano divenne pesante, come una pietra che cresce nel cuore, come una strega che pietrifica e immobilizza. Quella bambina, che nel suore si sentiva una statua, vedeva ogni giorno passando per via la statua vera di una bambina come lei, messa a monumento davanti alla biblioteca del paese. Un giorno il vento soffiò un seme di parietaria fra le labbra di quella statua. E mesi dopo un cespuglio spuntò, fiorì, frondeggiò dalla bocca della bambina di pietra, rigoglioso, verso l'alto, come un fumetto, come un discorso muto, come un invito. Finché un giorno Mariuccia, passando di lì...
No, non vi dico come finisce. Forse un giorno lo leggerete da qualche parte. Altrimenti resterà un segreto, fra me Mariuccia Pianta.
Sto lavorando a molte cose, sto lavorando per capire quante cose, e per difendermi da troppe cose, anche se sono bellissime cose. Vedi, oltre i copioni della Melevisione, che scrivo ogni giorno ma che per quest'anno ho quasi finito, tutti mi chiedono di scrivere di tutto: filastrocche per un progetto di educazione alimentare, racconti per un libro collettivo no-profit per una centro di bambini di strada in Brasile, progetti per un Festival in Sardegna, giudizi per un Premio di Poesia a Milano, interviste per una rivista Fuorilegge... E io, che sono uno scrittore, sono felice e scrivo tutto. Però poi mi accorgo che non mi resta il tempo per scrivere ciò che vorrei. Allora le mie storie segrete che ho nel cassetto, o nel PC, o in testa, una sui Mostri, una sugli Angeli Custodi, una sui Segreti e Bugie, una sulle Scale che Portano Su, una sugli Sbagliotti... tutte queste storie, che si prendono a spintoni per venire alla luce, dovranno aspettare che io compia prima un lavoro difficile, un'opera difficile: un'Opera al Nero, un Vuoto. Un po' di Vuoto dove queste storie possano azzardarsi a farsi avanti. Speriamo che tutti gli amici che mi chiedano scritture mi aiutino, perché io non sono proprio bravo a dire di no.