Bruno Tognolini
DOPPIO BLU
Racconto d'infanzia
Milano, TOPIPITTORI, collana Gli anni in tasca, marzo 2011




Quando il bambino era bambino,
lanciava contro l'albero un bastone come fosse una lancia,
che ancora continua a vibrare.

(Song of childhood, da Elogio dell'infanzia di Peter Handke)





  • Quarta di copertina
  • Presentazione dell'autore
  • Presentazione dell'editore
  • Commenti, riflessioni e recensioni

  • Recensione di SILVANA SOLA su "Zazie News", maggio 2011 (versione PDF)
  • Segnalazione di GIOVANNI MARIA BELLU su Facebook, 13 maggio 2011
  • Lettera di CARLA IDA SALVIATI sul blog di Topopittori, 28 giugno 2011 (versione PDF)
  • Post di DANIELA THOMAS sul blog Domodama, 30 giugno 2011
  • Recensione di DANIELA PINNA su "L'Unione Sarda", 6 luglio 2011 (PDF 729 KB)
  • Recensione di "AMARILLI NOVEL" su "www.mangialibri.com, luglio 2011




  • Il libro può essere acquistato online presso




     Alla Home Page di Bruno Tognolini



    Dalla presentazione dell'editore sulla quarta di copertina


    Che relazione c'è fra il bambino che si è stati e l'adulto che si è diventati?
    Quali dimensioni si attraversano durante la crescita? Cosa fa di noi quello che siamo?
    Chi siamo quando siamo bambini? E chi, quando diventiamo adulti?
    Un uomo e un cane su una spiaggia intrecciano dialoghi fllosofici, a proposito del tempo, dell'età, della vita.
    Intanto, dalle loro parole sorgono storie. Storie fatte di voci, bambini, grandi, notti, mattini, odori, luoghi, animali, parole...
    Storie di una Sardegna lontana, eppure vicinissima e, soprattutto, viva, in un ricordo che sa nutrire il presente con la sua forza straordinaria.
    La forza di chi non è mai venuto meno alle promesse strette allora, all'inizio, ab origine, con la bellezza e l'avventura dell'esistenza.

    "Una bellissima sassata"
    Presentazione del libro e commenti sul blog dell'editore



    Riflessioni dell'autore sulla nascita del libro

    Solito breve ammonimento. Queste riflessioni non c'entrano un bel nulla col libro, con la sua vera natura e bellezza, se mai ne ha. Sono scavi e ragionamenti sulle sue modalità di fabbricazione, sulla sua genesi negli incontri con l'editore e nel successivo forno incerto dell'autore. E come tali possono essere felicemente saltati a pie' pari, per tuffarsi nel blu.
    Ecco, è arrivato "Doppio blu". Un libricino piccolo sulla mia infanzia.
    Io non volevo, non ne avevo intenzione, non me l'aspettavo.
    Né di scrivere "cose vere", né tantomeno "cose mie": non lo faccio da almeno trent'anni.
    Ma Paolo Canton, dei Topipittori, alla Fiera "Più libri più liberi" di Roma, nel dicembre del 2010, ha buttato il seme con cautela e precisione. Abbiamo questa collana "Gli anni in tasca", mi ha detto, dove alcuni scrittori per bambini raccontano i loro anni di bambini. Ti va di scrivere?
    Alla mia prima perplessità l'editore ha controbattuto con una notizia efficace. Mi ha detto che quasi tutti gli scrittori a cui è stato proposto di raccontare i loro anni in tasca hanno detto più o meno la stessa cosa: "non so se ne ho voglia.."
    Infatti anch'io non ne avevo alcuna voglia. O così mi pareva. Nicchiavo, tentennavo ("per chi?", "a chi importa?"), ci giravo intorno guardando l'impresa da lontano, dalle sue campagne. E proprio lì ho trovato la via, l'enzima che scioglieva il grumo, e ha cominciato a correre la mano.
    L'enzima è stato una visione, un ragionamento che mi era sceso in capo, fulminandomi, in un parco bolognese nel lontano ‘96, e che avevo annotato sul quadernino nero e rosso che allora sempre mi accompagnava (e lo rimpiango, ma ci sono stagioni); una visione, una buona nuova dell'Angelo Nunzio che ci accompagna e ci aiuta a sprazzi e spruzzi a capire qualcosa del mondo. Ho seguito quel filo di visione, quel ragionamento sui ricordi, sullo sguardo di chi ricorda la sua infanzia che si incrocia con quello del bambino che lui ricorda; l'ho intrecciato con la narrazione dei miei ricordi veri e propri, tracciati a quadretti rapidi e divertiti, appassionati e veritieri; e il libro è fluito via come un bel fiume.
    Ho spedito alla fine del 2010, dopo pochi giorni i Topipittori mi hanno risposto che è piaciuto, ha convinto, e ora, per la Fiera di Bologna, il libro è qui.
    È un libricino piccolo, si legge in meno di un'ora.
    Ed è un libro per grandi.
    Ho sempre creduto di avere dubbi, incertezze nel mio essere scrittore "per bambini", vaghezze nel mettere bene a fuoco, come pare necessario e consigliato, l'età del mio lettore. Bene, due occasioni felici mi son piovute addosso, in questi mesi, per mettere un po' di luce in questi dubbi.

    La prima è stata la pubblicazione, lungo un intero anno, di filastrocche "per bambini" sulla bella pagina tre de "l'Unità". Centotrenta filastrocche, più o meno un giorno sì e due no, fra il 26 marzo 2010 e il 15 marzo 2011.
    In un pomeriggio recente a Reggio Emilia, con Giuseppe Caliceti ragionavamo di fronte a un pubblico adulto di poesia. Parlavamo di questa sorprendente epifania della poesia "per bambini" in "un quotidiano nazionale". Ragionavamo sulla poesia "per". Se non è scritta per gli altri poeti – dicevamo – o per la stessa poesia, ma è scritta, con la dovuta Forza e Bellezza, per qualcuno o qualcosa, ad esempio "per bambini", sorpresa: di quel binomio è più potente il "per" che i "bambini". E a quella poesia può accadere di essere per tutti.

    La seconda occasione per capire meglio – arrivano le stagioni – "per chi" scrivo è stata proprio "Doppio blu". Per capirlo a contrario, come dicono i filosofi: per farmi scoprire che se non so sempre bene per chi scrivo, so benissimo però per chi non scrivo. Me ne sono accorto subito, alla terza riga di questo libro, e ho scritto una lettera all'editore per segnalarlo: Giovanna, Paolo, questo non è un libro per bambini. Da grande racconto ai bambini; ma se parlo di me bambino, scrivo ai grandi. Questo è un libro per grandi. Cosa faccio?
    Hanno detto che va benissimo così. Che la collana accoglie libri che possono essere letti da bambini, da ragazzi, e solo dai grandi.

    I dubbi restano. Non so a quali grandi questo libro possa interessare, e perché. Ma queste domande eccedono il mio compito, ora: lo scoprirò nei prossimi mesi. E poiché i miei libri finora hanno avuto finora la fortuna di non durare solo mesi, forse nei prossimi anni.



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    Commenti, riflessioni e recensioni


    Una bella conferma da Daniela Thomas: bambini così esistono in natura. ... questa te la devo proprio scrivere: oggi in biblioteca un bambino mi ha chiesto: "Ma cinque ratti potrebbero uccidere un gatto? E sette topi un serpente? E tra il cane e il serpente, chi vince?", e mi θ venuto da ridere tanto, e gli ho risposto che avevo appena letto un tuo libro in cui racconti che tu bambino ti ponevi le stesse domande, e lui, che ti conosce e ti ammira, ha fatto un sorriso soddisfatto e poi mi ha chiesto: "Anch'io diventerς uno scrittore per bambini? Ma tra il cane e il serpente, chi vince?"

    Una riflessione mia, nata da uno scambio di lettere con Bianca Pitzorno. Cara Bianca.

    Grazie per le cose che mi hai scritto su DOPPIO BLU.
    Come accade, quelle cose son state spunto di riflessioni che covavano, che attendevano un innesco, e che hanno preso la ruzzola srotolando una tiritera che eccede la necessaria parsimonia di una lettera. E che ti prego quindi di leggere a lotti, se vuoi e quando vuoi, e senza alcun bisogno di risposta. Credo anzi che, essendo ormai scaturite alla luce, come altre volte ho fatto le metterò nel sito, nella pagina di DOPPIO BLU, citando della tua lettera, se ne ho il permesso, solo le frasi che leggi di seguito virgolettate.
    Tre riflessioni, dunque.

    La prima è storica, canonica, addirittura sulla letteratura.
    Sì, puoi immaginare, temevo anch'io, nello scrivere questo libro, quello che tu paventi: l'esposizione personale, la stesura in piazza di panni privati più o meno sporchi. Insomma, l'anima in mutande. Mi auguravo però che avvenisse, a scongiurare quel rischio, il miracolo, la trasmutazione alchemica, operata dalla letteratura (quando si degna), che rende pubblico il privato, universale il particulare. Tanti anni fa, quando facevo teatro, vedendo spettacoli sperimentali a batteria, belli e brutti, coi compagni di gruppo eravamo giunti a una conclusione che ancora ricordo nelle esatte parole: "Ci sono alcuni che paiono parlare delle loro ciabatte e stanno parlando del mondo; e altri che pur intonando alate narrazioni del mondo, stanno parlando in realtà delle loro ciabatte".
    Stando ai pochi riscontri che ho avuto finora, forse me la sono scampata: i lettori paiono cogliere e apprezzare di quel libro la riflessione sul tempo, sulla memoria e lo sguardo all'infanzia, la mia e la loro e quella di tutti, piuttosto che le mere notizie della mia povera e stupida vita.
    Una notizia, un riscontro di lettura, però, mi ha un po' adombrato, mi ha posto problemi. Un'amica bibliotecaria mi ha scritto:
    "Fa riflettere, fa riflettere fin troppo! Il confronto è inevitabile e quindi l’ho finito con un senso di delusione, di rammarico e di tristezza perché la bambina che ero non incrocia lo sguardo della donna che sono".
    Ahi!
    Mi chiedevo già, scrivendo, se fosse cosa leale, generosa nei riguardi del lettore, proporre uno scenario interiore che appare risolto, compiuto, quasi appagato; mi chiedevo se fosse del tutto sincero, se fosse davvero così. Avrebbe ragione di chiedermelo, di chiedermi conto di verità e coerenza, chi vi si confrontasse, vi si specchiasse traendone, come questa amica, conclusioni di rammarico, di delusione di se medesimo nel paragone. E non so bene cosa risponderei. Forse così: io non sono affatto appagato. È ancora ben desta la bestia prodiga e avara di vita e più vita, che vuole ancora e vuole. Ma se con verità posso dire che quell'anima ancora vuole, con altrettanta verità posso dire che questa vita finora ha avuto. Ha avuto molto, o abbastanza per scrivere, qui e ora, quelle cose senza mentire.
    Finora
    , appunto...
    Perché niente è mai risolto, mai compiuto. Potrei cadere anch'io, domani stesso, nel più irrimediabile dei rimpianti, nella più affranta indigenza di senso e di vita. Ma allora? Forse questo "finora" non è stato colto? Non è stato letto o non è stato scritto?
    Le buone narrazioni sono tali se includono, non se escludono. Se accolgono, anche per misteriosi percorsi, il maggior numero possibile di casi, di vicende di vite, nel loro specchio. Non son sicuro che sia buona narrazione una storia esemplare, risolta, pur mirabilmente ma risolta, che possa parere ad alcuni, pochi o molti, come una città murata, che beati i cittadini che la abitano ma io sono fuori.
    Se dunque DOPPIO BLU offre agli occhi del lettore questo senso di compiutezza, di stato di grazia di chi narra, e non sa raccontare nelle ombre delle sue pieghe la caducità, la provvisorietà di questa compiutezza, l'imminenza dietro l'angolo del disordine, della miseria che potrebbe cogliere quel narratore come ognuno di noi dall'oggi al domani: allora quella storia forse non è veramente ben scritta.
    Ci penserò.

    La seconda considerazione è di corollario alla prima, ma molto più svelta e figurata. Tu hai detto che temeresti, nello scrivere una storia come questa, il rischio è di "offrirsi agli altri scorticato". Bene, io ricordo, dai miei remoti studi di anatomia, gli uomini scorticati degli atlanti: erano uomini archetipo, umanità, senza più alcun tratto individuale. Forse, davvero, proprio e solo da scorticati non siamo più noi ma tutti gli uomini. Forse è proprio la pelle, quella che erigiamo a difesa, che ci beffa: al tempo stesso ci fa noi e ci espone...

    La terza è una riflessione di sorpresa e conferma a un tempo. Le intenzione dell'autore sono davvero un accidente tra gli altri, e non il maggiore, nella lettura di un libro. Tu apprezzi la mia abilità di correre sul filo della commozione, "di solo un capello al di qua dello scoppiare in lacrime". Pensa che io, pur consapevole di questo tasto patetico, ero convinto che lo smorzasse, e addirittura di gran lunga prevalesse, un sorriso, anzi proprio il riso, la risata che alla lunga degli anni stempera e ridimensiona le traversie. Il ghigno ski-lellè, il rictus sardonicus di autoirrisione allo specchio, la risata dei filosofi che forse, se siamo fortunati, ci salverà.

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    I primi due capitoli più tredici righe
    Al mare col cane
     
    È un bel pomeriggio di maggio, sto seduto sulla spiaggia col mio cane. Tutti e due guardiamo il mare.
    – Cosa guardi? – chiede lui.
    – Il mare.
    – E cosa vedi?
    – Non cominciare. Il mare.
    Guarda a destra, a sinistra, fa una mossa come per alzarsi, ma è troppo pigro. Torna a guardare il mare. Tace per un po', poi ricomincia.
    – E come lo vedi? Di che colore è?
    – È blu.
    – Sei sicuro?
    – Be', se proprio vuoi la scansione, prima verde acqua, poi turchese, poi azzurro, poi blu. Anzi: blu oltremare. Lo chiamano così proprio perché è lontano, perché è oltre.
    – Bravo, sempre pronto a cercare la mamma delle parole.
    – E tu sempre pronto a fare il cane presuntuoso.
    – Non è blu.
    – Ecco, infatti. Dài, vai avanti, tanto ormai sei partito. Di che colore è?
    – Non ha colore.
    – Non ha colore. Avanti.
    – Prendi la tua bottiglietta e valla a riempire di mare.
    Lo guardo con un sospiro. Ma proprio a me doveva toccare un cane filosofo? Tiro fuori dalla tasca dello zaino la bottiglietta dell'acqua minerale ormai vuota, che tenevo per buttarla nel differenziato. Tanto lo so che alla fine ci divertiamo tutti e due. Mi avvicino al bagnasciuga e, attento ma anche contento nel gioco di non bagnarmi le scarpe, sporgo la mano nell'onda che viene e la riempio a metà. Torno e siedo.
    – Allora, di che colore è il mare che hai preso?
    – Non ha colore, hai ragione, è trasparente.
    – E quello che abbiamo davanti? Il mare grande?
    – È blu.
    – È lo stesso mare?
    – Lo stesso. E allora? La smetti subito o vuoi che cerchi un bastoncino?
    – No, per favore, il bastoncino no.
    – A allora smettila.
    Tace, forse un po' offeso, forse no.
    Guardo il mare. Azzurro, blu, trasparente, azzurro, trasparente.
    Trasparente.


    1 . Le arie

    Quando il bambino era un bambino piccolissimo, forse tre anni, nei mattini qualche volta era già sveglio alle prime luci.
    Il lettino era accosto all'angolo, coi piedi rivolti alla porta. La parete correva alla sua destra; a sinistra, laggiù nel buio, il lettone con papà e mamma ancora nel sonno; e lì di fronte, lontana, la porta aperta. Per quella porta, dal resto indistinto della casa che il giorno invadeva, giungeva la luce. Una luce che in quel riquadro cresceva pianissimo, riempiendolo, tracimandolo, espandendosi fino a farsi intero cielo.
    Il tempo passava. E chi lo sa come passava, e quanto tempo. Chi mai potrà conoscerle le veglie meditabonde dei bambini: queste vigilie che generano il mondo.
    Il bambino era un bambino pensieroso: se si svegliava non strillava per fare e avere e dire e dare e cominciare il giorno. Stava lì quieto e guardava la luce.
    "Le Arie". Fra sé la chiamava così.
    Fra sé? C'era già un sé dove chiamare fra sé le cose? In quel remoto passato leggendario, di forma di vita, di scimmia, di stupido topo?
    "Le Arie"…
    Questo è il primissimo ricordo che il bambino ha di quando era bambino. Della sua vita che cominciava, o che lui cominciava a sentire. Si potrebbe pensare infatti che fossero solo sentori, e nel ricordarli in seguito ricordi di sentori, di pure percezioni: luce, suoni, odori, mutamenti del mondo e del corpo. Ma così non è. Erano sì forme nuovissime e sorprendenti, ma lui… le chiamava.
    Dava loro dei nomi. "Le Arie". Ogni bambino che nasce è Adamo il Nomenclatore.
    "Chiama le cose – avrebbe scritto decadi dopo il suo maestro Celati – perché restino con te fino all'ultimo".
    Il bambino chiamava così la luce del giorno. Ed è quel nome che avrebbe ricordato, negli anni a venire. Solo dopo, evocate dal nome, le immagini vaghe.
    Queste Arie erano infatti, il bambino lo ricorda a nominarle, masse di luce chiara in movimento, che lui guardava assorto, indifferente, fiducioso. Come una specie di opalescente nuvolaglia, sfocata e abbagliante. E si muovevano le Arie, lente, di qua, di là, in volute sonnolente e luminose. Per questo forse, per il loro muoversi piano in masse e matasse, il bambino le nominava fra sé al plurale.
    Si muovevano? O si muovevano i suoi occhi? O il sangue nelle palpebre degli occhi? Chi lo sa.
    Il bambino guardava nell'alba abbagliato e sereno, senza attesa di nulla e senza paura.
    Venire al mondo è venire all'alba e venire all'aria, farla venire con dolore nei polmoni e poi, a ferita rimarginata, venire a lei, incamminarsi in lei. Venire dalle Acque nelle Arie.
    E mirarle calmo e assorto nell'alba era albedo, alfabeto, presagio e progetto del mondo.
    Le Arie. Ecco il mondo.
    Lì, lo vede baluginare.
    Lì andrà.
    Fra poco si sveglieranno i genitori, verrà il giorno affollato di cose da fare, e di nessuna di queste cose, mangiare, giocare, sporcarsi ed esser lavato, essere baciato e accarezzato, piangere, ridere, andare, di nessuna di tutte queste cose di quel tempo nessun ricordo resterà.
    Solo Le Arie, solo quelle vigilie e imminenze di luce.
    Bianco, azzurro, blu, celeste.
    La notte è l'Urna e il mattino è l'Arca.
    Azzurro, celeste.


    Al mare col cane

    – Allora è blu il mare?
    – No, cane palloso, è blu quando lo vedo da lontano e trasparente quando lo vedo da vicino.
    – Sbagliato, non è così.
    – Ah no? E allora com'è, sentiamo.
    – È blu quando ne vedi molto, e trasparente quando ne vedi poco.
    – Bella scoperta!
    – E intanto tu avevi detto un'altra cosa.
    – Senti, non esagerare. Stai al tuo posto nella scala biologica.
    – E sarebbe?
    – Canis Canis, Pallosus. E hai di fronte un Homo Sapiens.
    – Gnomo Insipiens.
    – Presuntuoso!
    – Balosso!

    (...)




    Questa immagine, del tutto arbitraria, è una mia suggestione che non appare nel libro.



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    Questa pagina è stata creata il 26 marzo 2011, e aggiornata l'ultima volta il 12 luglio 2011


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