Bruno Tognolini e Rita Valentino Merletti
LEGGIMI FORTE.
Accompagnare i bambini nel grande universo della lettura
Saggio, SALANI, Milano, maggio 2006, 128 pagine, € 9
Il libro può essere acquistato online presso
Alla Home Page di Bruno Tognolini
In ogni capitolo di questo libro un argomento è affrontato in tre passi. Il primo passo sono i Racconti: uno scrittore per bambini, che in questo caso scrive come lettore, narra e
commenta la sua esperienza di dieci anni di letture alla figlia. Il secondo sono le Riflessioni: una studiosa di letteratura per l'infanzia amplia quell'esperienza a termini più generali,
che riguardino tutti, e la approfondisce a livelli più rigorosi. Il terzo passo sono le Suggestioni: brani da libri, racconti e rime e saggi, proposti come esempi, divertimenti e sostegni
alle Riflessioni; e talvolta come materia prima già pronta per la lettura ai bambini.
Le presentazioni
Un bel commento nel blog di Daniela Thomas
I primi cinque capitoli miei
1. Voce. Dire, cantare.
2. Corpo. Fare, stare.
3. Oggetti. Fare, guardare.
4. Filure. Guardare, riconoscere.
5. Tempo. Quando, quanto.
I titoli dei quindici capitoli
Scheda di presentazione dell'editore
Come nasce un lettore? Esiste una ricetta in grado di suscitare nei bambini l'amore per i libri? Come tutte le pietanze più buone, anche questa ha di base pochi, essenziali ingredienti:
disponibilità e pazienza (del genitore), curiosità e attenzione (del piccolo) e tanti libri in dispensa. Ma qualche volta, il miscuglio non ha l'effetto sperato, e quello che si
vorrebbe un momento magico di condivisione di storie rischia di diventare una parentesi svogliata e irritante tra le mille attività del giorno e la tappa forzata ma necessaria del sonno.
È quello il momento in cui si è più tentati di rinunciare a favore della dieta ipertrofica della televisione; ma vale la pena fermarsi a pensare e, come suggerisce uno degli
autori, fare qualcosa insieme: se ci si annoia, ed è umano, è noia personale, inventata, di certo non propinata da altri. In questo bellissimo saggio-riflessione, un'autorevole
esperta di letteratura per l'infanzia e uno dei più importanti autori italiani di libri per ragazzi si alternano per raccontare, spiegare, suggerire come i libri possano unire profondamente
adulti e bambini, creando un rapporto esclusivo di condivisione, curiosità e complicità. La voce dell'adulto che legge ai più piccoli diventa la prima, indimenticabile canzone
dell'infanzia; successivamente, quando il bambino è in grado di scegliere e leggere autonomamente, diventa gioco e partecipazione. Ogni capitolo offre un tema, da come si legge a un bambino
a come creare l'incanto della lettura, con un'antologia di testi e un elenco di libri consigliati. Perché far nascere in un figlio l'amore per i libri è il modo migliore per
ricominciare a leggere.
Raccomandazione iniziale degli autori
Gli umani, appena nati, paiono esseri fragili e precari, in bilico sul ciglio della vita come sul crinale di una collina. Forse lo sono davvero, o forse è la nostra ansia di genitori che li
vede così. Fatto sta che, a quel punto, noi prendiamo d'istinto a chiamarli, con voci e sorrisi, perché da quel crinale si lascino scivolare verso di noi, da questa parte e non da
quella. La voce umana ha un potere grande e segreto, che assordati da molti apparecchi rischiamo di dimenticare. Prima del senso c'è il suono, prima delle parole c'è la voce. Quella
voce ha potere sulle cose: le chiama all'umanità, le rende umane. Parliamo agli animali, che non conoscono parole, parliamo a una lapide, a una pianta, a uno specchio; a una persona in coma
perché ricordi la vita umana, e vi ritorni. E a un neonato perché si fidi e vi entri. La voce echeggia come un canto di balena, in quell'oceano sconfinato e incomprensibile che
è una nuova vita, per dire tre sole sconfinate verità: io sono qui, tu sei qui, il mondo è qui. I mesi e gli anni passeranno, quella voce prenderà forma di parole,
perline di senso infilate in collane via via più fiorite e complesse: mangia, dormi, ridi, cresci, come stai? Ma sotto quella superficie variopinta, in certe ore del giorno, in certe
condizioni di luce, di emozione, di sonno, noi siamo ancora in grado di sentirlo, quel suono senza senso, quella voce senza parole, che non "vuole dire" niente, ma genera umanità. La cosa
fondamentale che questo libro dice a un genitore è dunque questa: parla a tuo figlio. Hai un potere di umana magia nella gola, unico eppure comune: perché ne sei avaro? Parla con lui,
con lei. Non negargli ciò che sai fare, che gli serve. E se non sai cosa dire, ci sono sorgenti di parole giuste, che son fatte per questo: leggi un libro.
I primi cinque capitoli miei
1 VOCE. Dire, cantare.
Quando si legge un libro a un bambino, la voce è la storia: dà corpo alla storia, la riempie, come l’acqua riempie il letto del fiume. La voce è la storia come
l’acqua è il fiume. Leggendo a mia figlia, dopo un po’ d’esperienza, la sentivo nascere e fluire dal libro, da me, fra noi, quella che chiamavo in segreto la Voce
Fiume.
È una voce che s’infiltra nella storia e scorre docile dentro di lei, gira serena nelle anse delle frasi, frulla nei gorghi delle esclamazioni, si allarga nei laghi delle descrizioni,
spumeggia nelle rapide dei dialoghi: insomma, è un bel fiume che va.
E attenzione, non sto parlando di "leggere bene", di dizione corretta e interpretazione brillante: io non ne ero e non ne sono capace. Son stato addirittura balbuziente, e spesso mi accade ancora
d’incespicare: passetti di danza, oramai, che mia figlia dall’inizio ha sempre accolto – almeno così m’immagino – come una buffa natura di quel fiume. No, la
Voce Fiume non ha niente a che fare con la buona dizione. La Voce Fiume è una voce personale, che può ben essere nasale, piatta, chioccia, colorita da cantate dialettali, da erre
mosce e vizi e vezzi di pronuncia. Ma è la voce nostra, quella che c’è toccata in sorte, unica e irripetibile. Che già da sola per quel bambino è la voce migliore
del mondo, quella che l’ha chiamato nell’umano: ma che ora ha raddoppiato la sua forza, perché ha trovato l’accordo armonioso con la voce scritta e zitta di quel libro.
Qualche altra sera questo, però, non accadeva. Qualcosa girava storto, non so cosa: si rallentava, si cominciava a faticare, ci si scuoteva, si riprendeva lena… Ma non c’era
niente da fare: in breve s’era già dentro la Voce Pietraia.
Lì il testo diventa di colpo un’arida landa, dove tutto sembra opporsi al cammino: la voce s’impiglia in creste di frasi irte, inciampa in ciottoli sporgenti di parole, scivola
in buche di esclamazioni impronunziabili, si trascina, zoppica, stenta, diventa afona e piatta.
Che la lettura fosse Fiume o Pietraia dipendeva forse dal libro, forse dalla voce, ma forse ancor più da come i due si incontravano. Era importante lo stile dell’autore, il vigore
della storia, e magari una buona traduzione; ma era importante anche l’umore del lettore, il grado d’accoglienza quella sera, la disposizione a lasciarsi andare alla corrente del testo.
Ho sperimentato più volte che un piccolo sforzo, certe sere, un atto consapevole di resa, di abbandono all’andamento delle frasi, senza più opporre resistenza o peso, poteva far
ritrovare nella Pietraia il rivolo d’acqua d’una frase più sciolta, che magari a seguirlo ingrossava, diveniva ruscello: e alla fine ecco il Fiume che torna.
Altre volte invece no, non c’era traccia di bel flusso scivolante per pagine e pagine. E allora arrancavo fino alla tappa abituale della sera, e concludevo irritato col libro, con
l’autore, con me stesso, e se non stavo attento anche con l’incolpevole ascoltatrice. La quale si suppone dividesse con me la fatica di quella Pietraia: ma non è affatto detto.
Certe storie son così ben costruite, o certe sere l’ascoltatrice era così avida, che contro ogni aspettativa, sul bordo a gran fatica conquistato di un’irta Pietraia,
aveva il coraggio di uscirsene col solito: "Ancora!"
Ma fosse Fiume o Pietraia, la voce diceva altre cose, che in nessun libro – o forse in tutti – erano scritte. Confusa infine nel sonno, in un fondo segreto e lontano che viene prima e
dopo le parole, la voce è nenia, rosario, preghiera, riepilogo e riconferma del mondo. E ultimo conforto e commiato, paterno ed umano, sulle porte mai sicure della notte.
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2 CORPO. Fare, stare.
Un adulto che legge un bel libro ha l’impressione di disincarnarsi, di perdere corporeità: si dice che "non è più lì". E invece il suo corpo, ben presente e
pesante, continua a narrare la storia di quella lettura. Che stia seduto da solo in casa o in un bus affollato, sdraiato in un ospedale o su un’amaca in riva al mare, quella storia è
sempre un dialogo frontale, a due personaggi: lui e il libro, che si fronteggiano ostinati. Per un adulto che legge a un bambino la storia dei corpi è diversa, è narrata a tre voci:
due corpi e un libro, con tutte le reciproche diverse posizioni.
Con mia figlia, come quasi sempre accade, dapprima fu il pieno contatto, un corpo a corpo che a stento ammetteva fisicamente il libro: lei piccolissima in braccio, schiena contro il mio petto, e il
libro nelle mani del papà, che con un solo gesto lo reggeva e lo offriva – schermo di meraviglia davanti a entrambi – perché lei potesse vedere le figure, che riempivano
trionfanti gran parte di quelle antiche letture.
Poi, nella seconda era, eccoci entrambi seduti per terra – il regno inferiore dei bambini dove alcuni adulti meritevoli sono ammessi – e il libro squadernato davanti. Ora non eravamo
più abbracciati, col libro intrecciato fra noi: un cammino di separazione era partito. Ma eravamo pur sempre laterali l’un l’altro, fianco a fianco, e il libro era ancora
frontale, ancora un mondo unico davanti a tutti e due.
Passano i mesi, la figlia cresce: non c’è più tanto bisogno di stare abbracciati. Anche le storie crescono nei libri, sopravanzano le figure: non c’è più
tanto bisogno di guardare. Il cammino di separazione progredisce: io seduto, vicino al letto, il libro poggiato sul comodino, il più possibile vicino a lei. Ma lei non lo guarda più,
guarda altrove. Non siamo più laterali, fianco a fianco, a fronteggiare il libro, ma frontali, l’una davanti all’altro, e il libro è scivolato in mezzo a noi: non
più schermo di proiezione ma confine, che come tutti i confini separa ed unisce.
Passano altri anni, si aprono altre ere. Per caso, per gioco, dovendo cambiare il letto, mia figlia ne scelse uno alto, più o meno ad altezza del mio petto, con sotto un irresistibile
recesso dove annidare magazzini di giocattoli e tane d’avventura. Confesso che, come altre volte di fronte a mutamenti repentini nelle abitudini della paternità, ho patito un momento
di sconcerto: ora come leggiamo? Dopo avere tentato un impervio sgabello alto, tipo quelli dei bar, su cui mi appollaiavo per tentare di restare all’altezza del suo viso, mi sono arreso a una
più comoda sedia al capezzale. Ma lei non mi vedeva quasi più: più grande, più sola, ma sempre con me, ascoltando la mia voce che restava – quella sì
– vicina e presente, guardava il muro e altre cose che dirò, e le figure e gli scenari d’aria pura che il teatro invisibile della voce le spalancava davanti.
Ora mia figlia è grande, ha quindici anni, ha un letto ancora più alto a casa mia, su cui s’arrampica con una scala; e sotto cui sta un piccolo divano, dove io talvolta ancora
siedo e leggo. Non la vedo, e tendo a leggere forte perché temo che mi senta anche poco. È lassù, per conto suo. È il cammino dei figli, così dev’essere.
Questa è la storia di quel distacco naturale, raccontata dai corpi che leggono e ascoltano, dalle loro posizioni e distanze. Però il libro, e la voce che lo legge, ancora son tesi fra
noi come una lunga fune di cordata.
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3 OGGETTI. Fare, guardare.
Ho letto che il libro, per i bambini molto piccoli, è un oggetto, un giocattolo fra gli altri, e come tale dev’essere trattato. Esiste quindi una bella editoria di libri-giocattolo,
costruiti per essere letti con i cinque sensi, prima che l’orecchio, nella lettura condivisa ad alta voce, e poi l’occhio, nella lettura muta e solitaria, prendano il sopravvento.
Quanto a me, non ho chiara memoria di quell’era di letture fatte a mano, di quei libri "centro di attività" pieni di specchietti e superfici ruvide e sonagli. Partirò allora da
un’era successiva, quando il libro era già libro nelle mani del papà che lo leggeva, e proprio per questo le mani della figlia che ascoltava erano libere di prendere altri
oggetti.
E cosa prendevano queste mani? Prendevano e governavano oggetti diversi, a seconda dell’ora e dell’età. Nelle ore di lettura in pigiama, dopo cena e già a letto,
prendevano e muovevano i peluche, la ciurma di varia fauna che, rinnovandosi periodicamente, prestava servizio notturno sotto le lenzuola (la figlia li chiamava "la mia gente"); ma di loro, e del
gioco e del teatro, parleremo più avanti. Nelle ore che precedevano il pigiama, dopo cena ma seduti sul parquet, le mani della figlia ascoltatrice muovevano altri oggetti: oggetti di teatro
per gioco, quando era più piccola (pupazzi e personaggi, accessori e scenografie: i suoi giocattoli), e oggetti di lavoro per gioco quando era più grande. Intrecciava infatti,
ascoltandomi leggere, braccialetti di tenui fili colorati; intrecciava segmenti di spaghi più grossi , plastificati e variopinti, per farne ciondoli o portachiavi per i grandi; e infine,
ancora più tardi, intrecciava coi ferri la maglia.
L’arte dell’intreccio, della trama e dell’ordito, affratella forse il testo (che letteralmente significa "intreccio") a millenni di perizia femminile. Forse c’è una
segreta imitazione, un gioco di specchi fra questi due simmetrici telai, che tessono l’uno fili colorati fra le dita, l’altro fili narrativi nelle orecchie. O forse la lettura ad alta
voce, più semplicemente, ben s’accompagna coi lavori pazienti delle mani, come dimostra il lettore che leggeva romanzi laici nelle fabbriche di sigari cubani, o testi sacri nelle
operose officine dei monaci.
Ma gli oggetti che venivano coinvolti nelle nostre letture non erano solo da prendere e muovere: erano anche da guardare e non toccare, o da tenere lì e basta.
Il primo caso è quello delle macchie pallide e informi sul muro contiguo al lettino della figlia, o degli scuri arabeschi nella testiera di radica del "lettone" dei genitori, su cui si
posavano gli occhi dell’ascoltatrice. Potevano essere figure compiute, mature, solo da riconoscere come quelle delle nuvole: due uccelli sul muro, uno con ricca cresta e uno senza; e la scena
complessa, inscritta nei nodi del legno di quella testiera, d’un cinghiale cavalcato da una fanciulla con gli occhi atterriti. Oppure potevano essere figure indifferenziate, germinali, pronte
a evolvere verso questa o quell’altra forma in obbedienza al racconto del libro: profili di creature, mostri, laghi, luoghi, mappe.
Io poi avevo un mio oggetto speciale, né da toccare né da guardare: doveva solo stare lì, a propiziare la lettura. Un talismano. Era un ninnolo di mia figlia, un coniglietto
libraio ambulante di pasta di gesso, calzato e vestito, in piedi col libro aperto fra le mani accanto alla sua bancarella, su cui posavano sette librini chiusi, che alludevano a mille. Leggeva lui,
e offriva a tutti, quella sua minima ma infinita biblioteca. E io per anni non ero del tutto contento di leggere senza di lui.
San Coniglietto Libraio, che ancora ci guida. E chi è senza santi, e senza amuleti, rida.
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4 FIGURE. Guardare, riconoscere.
Per immaginare la mente ha bisogno di immagini. E come accade in altri casi, quando il bisogno cresce oltre un dato segno, la creatura si alza e va in cerca. Quel bisogno che spingeva mia figlia a
cercare nelle macchie sul muro le forme visibili di ciò che le orecchie sentivano, e la mente formava nel vuoto, veniva soddisfatto, a intervalli, dalle figure del libro.
Appunto: a che intervalli? Chi orchestrava questa alternanza di lettura e visione?
Tutti sanno che la cadenza delle illustrazioni diminuisce gradualmente con l’età, dal pieno degli "albi" per i piccolissimi fino al vuoto dei libri per gli adulti (fatte salve le
"graphic novel", che ora vanno di moda). Io poi più o meno sapevo, stante il mestiere, che all’interno di questa regola, a determinare quantità e qualità
dell’illustrazione, giocano per ogni editore scelte di stile (più ricco, più sobrio, più "appealing", più classico, più di tendenza…), e limiti di
budget (gli illustratori più bravi o più noti sono anche i più cari).
Ma queste conoscenze professionali erano del tutto estranee a quelle ore, dove le figure arrivavano per noi quando dovevano arrivare, come la pioggia o il sole, a interrompere e arricchire la
lettura. Appunto: interrompere o arricchire?
Qualche volta solo a interrompere, e talvolta gravemente.
Quando arrivava la figura io tacevo e porgevo il libro aperto; mia figlia, che sapeva già il perché di quel silenzio, si voltava e guardava. Figure povere o sciatte, o che per altri
indecifrabili motivi non parevano aggiungere niente a ciò che lei già sapeva della storia, ottenevano lo sguardo distratto che meritavano, e l’esortazione a riprendere il
cammino al più presto. Illustrazioni al contrario troppo dense, o che mia figlia recepiva come tali (per esempio, ahimè, Lizbeth Zwerger), ottenevano lo stesso risultato: le mettevano
un’autentica paura, chiedeva di passare avanti in fretta e di non tornarci più. Nei casi più estremi (Il Mago Nasone) abbiamo dovuto abbandonare il libro.
Qualche altra volta ero io che decidevo di saltare a piè pari una figura e tirare diritto: o perché la giudicassi, a mio arbitrio, banale e trascurabile; o perché – e qui
l’arbitrio tracimava in dispotismo – non mi andava di interrompere un passaggio che io trovavo avvincente.
Qualche altra volta, al contrario, le figure piacevano tanto da ottenere chiamate di bis. Mia figlia chiedeva esplicitamente di tornarci (come per una figura dei Mumin, di Tove Larrsen)
anche in altri passaggi del libro, che pure avevano le proprie illustrazioni: ma lei voleva tornare indietro, per rivedere gli stessi personaggi anche in quella, che le era piaciuta.
Io guardavo, in quelle occasioni, lei che guardava. Si apriva allora uno di quegli istanti benedetti in cui un genitore trae il fiato, si riconforta nel suo cammino incerto: guarda il figlio,
intento in qualche cosa, e lo sente crescere. A me pareva di sentirli, quei "clic" segreti fra l’immagine e l’immaginazione, che combaciano come specchi paralleli, d’intuire gli
incrementi e i compimenti, l’apertura di sentieri di senso dove prima non c’erano, che portavano altrove, e da lì ovunque. E senza certezze d’analisi, che non sono il mio
campo, mi compiacevo dei nutrimenti che da quei compimenti dovevano certamente conseguire. E dicevo fra me: frondeggia, mente bambina, perché c’è spazio e tempo e senso.
Perché per fortuna c’è cibo. Quel compiacimento assomigliava, e forse non per caso, a quell’atavico conforto creaturale che provavo vedendola mangiare.
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5 TEMPO. Quando, quanto.
"Romanzi, avventure, parole e figure / Le ore azzurre delle letture / Tu senza orologio le misurerai / I libri non finiscono mai". Così cantava una canzone della Melevisione, di cui scrissi
il testo.
E così è per certi lettori adulti, che possono leggere senza orologio a piacimento, per un intero pomeriggio d’estate, per tutta una notte insonne, o per altre simili piccole
eternità. Ma così non era per mia figlia, cui un preciso orologio paterno scandiva quando leggere, quanto leggere, e talvolta come ignorare il suo stesso rintocco.
Quando leggere. C’era un tempo fisso, rituale, da dopo cena fino al sonno, e un tempo speciale, che poteva aprirsi, secondo le occasioni, in varie ore della giornata.
Il tempo rituale era diviso in due momenti: il dopocena sul parquet, e poi il letto. Nel primo il libro si contendeva le serate con puzzle, lego, chitarra, e altre cose di dominio paterno (alla
mamma, che aveva retto la giornata, spettava dopo cena qualche ora per conto suo); l’ultimo atto della sera, a letto prima di spegnere, era sempre consacrato alla lettura. L’idea che
guidava la rinuncia alla TV dopo cena era semplice: facciamo qualcosa noi. Se ci annoiamo – e capitava – è noia nostra.
Il tempo speciale poteva aprirsi a qualsiasi ora, con un bel gusto di lusso e trasgressione, in giornate di festa o malattie, quando mia figlia stava con me, che lavoro a casa.
In questo tempo straordinario, alla luce del giorno, la bambina era più riottosa ad accettare il rintocco dell’altro orologio, quello che scandiva quanto leggere. "Basta,
perché devo lavorare". "Basta, perché mi sta venendo sonno: dormo un po’, perché poi devo lavorare". Lei andava in bestia: il lavoro, intuìto come forza maggiore,
poteva anche passare, ma che mi venisse il sonno anche alla luce del sole…
Di notte un aiuto prezioso talvolta lo davano i libri. Quelle magnifiche chiuse di capitolo in cui il protagonista (primo fra tutti, Frodo del Signore degli Anelli), in un bivacco, stremato
d’avventure, proprio nell’ultima riga sprofondava nel sonno; allora la fatale sequenza di chiudere il libro, dare il bacio e spegnere la luce, era accolta in assorto silenzio. Come
qualcosa che accade ancora dentro il libro. E forse era così.
La bandierina della tappa del giorno era comunque piantata, ove possibile, alla fine di capitoli, di paragrafi, di capoversi, o in mancanza di questi nei punti risolutivi di qualche situazione.
Quando si avvicinava l’ora (col passare degli anni le nove e mezza, poi le dieci, poi le dieci e mezza), l’occhio esplorava le pagine avanti in cerca di queste brecce. E mi son sempre
chiesto se chi scrive (o edita) libri per bambini non predisponga a bella posta "pezzature" (capitoli, paragrafi) adeguate a una tappa media di lettura, con tanto di begli svincoli d’uscita.
Da autore che scrive non mi è mai passato per la testa, né credo mi passerà; da papà che legge, queste stazioni di fermata con svincoli le avrei apprezzate.
Addolcirebbero il compito di consolare la piccola ribellione di ogni sera, con la sua mesta marsigliese: "Ancora!"…
"No, è ora di spegnere". L’orologio del papà – così dev’essere – prevaleva su quello della figlia. Il guaio era quando l’orologio del libro
prevaleva su quello del papà. Certi libri, o certi passaggi in certi libri, erano così belli e soggioganti che, arrivata la fine del capitolo, ammiccava l’inizio
dell’altro come un malefico Paese dei Balocchi. E il lettore, irto di scrupoli paterni per l’indomani, il sonno, la scuola, la mamma che sporge la testa, il brutto esempio di flessione
delle regole, dopo una breve lotta si arrendeva: "Solo un pezzetto, eh?"
Non l’ho mai vista, ma penso che la figlia, nel girarsi verso il muro, sorridesse.
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Titoli dei quindici capitoli
1. VOCE. Dire, cantare.
2. CORPO. Fare, stare.
3. OGGETTI. Fare, guardare.
4. FIGURE. Guardare, riconoscere.
5. TEMPO. Quando, quanto.
6. LUOGO. Dove.
7. INCANTO. Gioire, contagiare.
8. FATICA. Penare, rinunciare.
9. TEATRO. Fare, giocare.
10. MEMORIA. Sapere, rammentare.
11. RACCONTO. Conquistare, trasformare.
12. VIAGGIO. Camminare, saltare, fermarsi.
13. SCELTE. Tracciare la rotta.
14. LIBRI. I nostri libri.
15. COME ANDÒ A FINIRE.
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Questa pagina è stata il 17 ottobre 2011.
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