Prima edizione Giunti, 2005 |
Edizione Edelvives, Saragozza, 2009 |
Edizione Boyut, Istambul, 2010 |
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Alla Home Page di Bruno Tognolini
Viveva, in un'isola piena di luce chiamata Sardegna, una bambina dal cuore lucente chiamata Nietta. Era piccola e bella, scura di pelle, nera di pelo, piena di pepe.
La sua vita era serena, fatta di giorni sugosi come ciliege. Una ciliegia dopo l'altra veniva autunno, passava inverno, tornava primavera. Lei correva se era giorno, dormiva se era stanca, era felice se qualcuno raccontava, e non aveva paura mai di nulla.
Ma un giorno la mamma di Nietta si ammalò, e tutti a casa furono zitti all'improvviso. Nessuno lanciava più gridi, nessuno narrava più storie, e soprattutto nessuno diceva quando la mamma sarebbe uscita dalla stanza.
Nietta ebbe paura. E se la mamma fosse morta? Quando? Stanotte?
Ohi ohi, no! Doveva mangiare ancora tanto pane, la sua cara mamma, pane e ciliege dei giorni, con lei abbracciata!
Decise di fare qualcosa.
Aveva sentito una storia, una volta, dove un giovane si metteva per via in cerca del Fiore Domani, che serve per far nascere ogni giorno il giorno dopo.
Decise di trovare questo fiore per metterlo nella stanza della mamma, in un bicchiere, così che per lei venisse domani, e poi domani ancora, fino a tutte le ciliege dei giorni.
Nel pomeriggio pieno di sole Nietta partì. Prese un viottolo fresco, che sgattaiolava fuori paese senza sembrare, e in un attimo fu nella campagna.
Una bambina si trova davanti a una situazione triste: la malattia della madre, la paura della sua morte. Ha però una grande forza dentro: la speranza. Chiede aiuto a tutto il mondo e l'ottiene. La sua tenacia è premiata e la mamma è salva. Una metafora sulla vita e sulla morte, dunque, è l'essenza della tua fiaba: perché questa scelta? Pensi che sia importante mettere i bambini anche davanti a problemi reali come questo, sebbene usando un linguaggio delicato per dire le cose e trasformando la realtà in un mondo fiabesco?
Le storie, e tra esse soprattutto le fiabe, sono attrezzi di comprensione della vita. Forse, prima ancora che di comprensione, di "avvistamento". Servono per distinguere la vita, percepirne la forma e nominarla. Come quando guardiamo una congerie incomprensibile di cose, un letto di foglie, le macchie sul muro, le nuvole: non distinguiamo niente, distogliamo lo sguardo. Se però continuiamo a guardare, a un certo punto ci vediamo un animale, e questo in qualche modo ci tranquillizza. "Ecco - diciamo - è un coniglio, è un cammello". Quell'animale è la "storia" che rende, prima ancora che comprensibile, visibile e poi nominabile quel caos. Il negativo della vita si presenta a grandi e bambini in forme caotiche e insensate, incomprensibili e talora inaffrontabili. Le storie - e le loro avanguardie, le fiabe - danno una forma e dei nomi a questo caos. La vita, con le sue gioie e i suoi mali, acquista forma specchiandosi sullo specchio delle storie. Perciò le prime storie, le fiabe, per specchiare e rendere visibili le prime campate della vita, devono essere specchi lindi e scintillanti.
Zio Mondo è un inno alla natura: la campagna con gli alberi di mirto, la luce, il sole , il cielo, gli insetti...È un modo per far apprezzare ai bambini aspetti del mondo che per molti sono sconosciuti? Per fare riscoprire un pezzo di mondo che tutti, oggi, stiamo dimenticando, trascurando, trattando male? Una scelta dovuta al fatto che gli elementi della natura sono più congeniali ai bambini?
Forse è anche così. Un'altra funzione primaria ed eterna delle storie è quella di far balenare "altrove" meravigliosi, regni lontanissimi e stupendi, perché nasca in ciascuno il desiderio di mettersi per via, coi piedi o con lo spirito. E niente di strano che, se una volta gli altrove delle storie erano i regni d'oltremare, le isole sconosciute, le foci del Nilo, oggi siano le campagne e i fiumi e il cielo magari appena fuori città. Per molti bambini che vivono nelle città, e che magari ne analizzano i destini ecologici sui libri di scuola, questi mondi sono regni remoti e fiabeschi. E allora eccoli specchiati nella fiaba come orizzonti di viaggio e d'avventura.
Il mondo è positivo, accoglie Nietta e la protegge: i "pezzi" di mondo sono tutti zii e zie, danno serenità e aiutano; è un modo per rassicurare i bambini di oggi?
In Sardegna, come in altre terre del Sud d'Italia, non è ancora scomparso del tutto l'uso di chiamare ogni adulto Zio o Zia: Zio Marras, Zia Mariangela, Zio Lilliccu. È forse un modo di generare fra gli uomini, o magari scaramanticamente augurare, una parentela espansa, non troppo vincolante (non fratello e sorella: zio e zia) ma solidale e fidata, che premunisca contro l'estraneità, la solitudine davanti ai mali del vivere. Io credo che questo imparentarsi col mondo sia un gioco a due, reciproco e speculare, come quelli che fanno le bambine battendo le mani una di fronte all'altra. Nietta trova zii dappertutto perché lei si sente nipotina di tutto. Forse perché ha avuto genitori e parenti e vicini e maestre che le hanno insegnato, con l'esempio, così. È solo una fiaba, d'accordo, iperbolica ed esemplare: forse non esiste un mondo "zio" degli uomini; ma credo che i bambini "nipotini" possano essere ancora tanti.
Lo scarabeo, la coccinella, la farfalla, la cavalletta, la civetta, si chiamano in un modo molto particolare: Babballòti, Babbaiòla, Maripòsa, Pibitzìri, Cuccumèo... sono nomi che "suonano", che hanno dentro un ritmo musicale, che ricordano i ritmi delle tue filastrocche. Perché li hai scelti? Sono nomi di tua invenzione o, anche in questo caso, la Sardegna è stata la tua fonte di ispirazione, con i ricordi della tua infanzia?
Una fonte, ma non di ispirazione: di parole. Quelle sono precise parole sarde (campidanesi), che designano precisi animali. E sono cariche per me di bel suono come le parole della "Mammalingua" d'infanzia sanno essere, perché da bambino le usavo nei giochi, negli improperi agli amici, nei canti delle conte. Ma non solo per questo: hanno un bel suono perché le genti, quando plasmano le lingue, inventano per i loro animali i nomi più belli, corposi e sonori. Forse proprio perché li dicono ai bambini. "Babballòtti" (scarabeo) e "Babbaiòla" (coccinella), coi loro battenti "ba-ba", sono nomi da sillabazione infantile, che sanno di scherzo e solletico per mettere paura giocosa evocando gli insetti. "Mariposa" (farfalla) è spagnolo castigliano puro e lindo. "Pibitzìri" (cavalletta) è suono analogico e sinestetico, che fa vedere e sentire le zampe stecchite e scattanti. E "Cuccumèo" (civetta) riproduce tale e quale il verso arcano di quell'uccello, come echeggia nelle aule delle notti. Con cinque nomi così, che non ho inventato ma ricordato, ci vuole poco altro per una bella storia.
Zio mondo è intriso di poesia, è una poesia tradotta in storia: i giorni scorrono come tante ciliegie sugose; il cielo è intontito di luce , al tramonto si lava la faccia con le arance e all'alba diventa del colore del fico d'India maturo a metà; la notte ha uno scialle nero...Immagini molto belle, metafore per bambini fruibili immediatamente da loro. Perché hai scelto questo tipo di linguaggio? Pensi che sia il modo più efficace per comunicare con i bambini molto piccoli che saranno i destinatari del tuo libro e /o credi che sia importante per loro cominciare a gustare il linguaggio poetico per poterlo gradualmente apprezzare e amare nel corso degli anni ?
Entrambe le cose. Le metafore poetiche fanno bene ai piccoli e ai grandi. Queste metafore a te sono piaciute perché pensi che piaceranno ai bambini? O piacciono proprio a te, qui e ora? O entrambe le cose? E ai bambini piacciono qui e ora, o servono "per potere apprezzare" in futuro il linguaggio poetico? Forse entrambe le cose: se accade la prima, possiamo sperare nella seconda.
Le metafore poetiche mature sono quelle che si possono bere con facilità e al tempo stesso con piacere, che scivolano in gola fluide e al tempo stesso buone. Fuori di metafora, potremmo dire che il loro scarto ("metà-fero" = portare altrove, portare oltre) dovrebbe giungere al tempo stesso sorprendente e familiare.
Se io dico che il sole al tramonto "infiamma il cielo come un incendio ", la metafora, troppe volte sentita, non mi sorprende neanche un po', tanto che passo dritto senza scarti, senza quasi notarla. Se scrivo che il tramonto "insanguina il cielo come un lurido macello", lo scarto mi sorprende fin troppo, mi impressiona, mi fa inciampare e forse perdo il passo. Per i bambini il cielo che si lava la faccia con le arance ha un doppio scarto ("il cielo che si lava la faccia" e "lavarsi la faccia con le arance"), che sorprende due volte; ma sono due sorprese divertenti, non violente, non invasive, che mi fanno scartare verso altre regioni di senso sorprendenti, ma in qualche modo familiari.
Sono metafore "per bambini"? E per i grandi cosa servono: metafore forti, violente? E perché?
Nietta dà 500 dei suoi giorni in cambio del fiore di domani. Ha un significato particolare questo scambio o è soltanto un espediente narrativo?
Di nuovo, entrambe le cose, e anzi: altre ancora. Ha un significato magico e scaramantico ("cinquecento catenelle d'oro", "cinquecento cavalieri", etc.). Ha un significato iperbolico (cinquecento = "molti"; "ti do molti giorni della mia vita"). Ed è un ingranaggio (non un espediente) narrativo e fiabesco: ti do giorni in cambio di giorni, tanti in cambio di tanti. Baratto, rinuncia, generosità poi premiata dalla Fata-Strega Zia-Madrina Notte.
Ma tutto questo lo dico adesso, perché me lo chiedi: non lo sapevo affatto, naturalmente, quando le mani l'hanno scritto. Gli gnometti che mi dettano non sono professori.
Tu hai molta esperienza nel campo dell'infanzia: hai scritto per bambini tantissime storie e filastrocche, testi per la televisione e per il teatro. Quando ti proponi di scrivere per i bambini più piccoli, quali sono le cose a cui presti maggiore attenzione? Il linguaggio da usare? I contenuti? Il contesto in cui ambientare la storia (più o meno fiabesco, più o meno realistico)?
Il tono di voce. Pare strano parlare di tono di voce quando si scrive. Ma la parola scritta, specie nel rivolgersi alla prima infanzia, deve avere una voce umana nascosta dentro, invisibile. E il tono di questa voce deve suonare al tempo stesso semplice e denso, elementare e cosmico, come quello dei salmi di chiesa, dei canti degli uccelli, dei nomi dei mesi; come quello dei vecchi, che narrano cose così remote, eppure così concrete, che non penserebbero mai di poterle dire in altri modi che così.
Questo tono non è facile trovarlo, oggi, proprio perché noi non siamo più vecchi che narrano "come si è sempre fatto", e sappiamo bene invece che tutto si può dire in mille modi. Io non so dirvi come si trova questo tono "giusto", o non c'è abbastanza posto qui per dirlo: ma posso dire che una volta trovato, il linguaggio, se è ben temperato, a quel punto vi si accorda da sé; e che contenuti e contesti di ambientazione a quel punto contano poco: si può parlare di un assassino o di un cerbiatto, che agiscono nel bosco delle fate o in un centro commerciale. Del resto le fiabe, che a noi paiono stendersi su contesti arcani e remoti (regni, castelli, locande), quando sono state inventate si riferivano a contesti, nomi e posti, per loro vicini e reali quanto per noi un centro commerciale.
Dài qualche suggerimento a genitori e insegnanti su come suscitare nei bambini il gusto per la lettura.
E come faccio, in tre righe, quando son stati scritti interi libri sull'argomento?
(Uno anzi lo sto scrivendo io stesso, insieme a qualcuno che non vi dico perché è una sorpresa).
In tre righe posso solo azzardare tre slogan: leggere a voce alta, leggere presto, leggere bene.
LEGGERE A VOCE ALTA: questo atto contagia l'amore della lettura col potere della voce umana che racconta, potere che è sepolto in strati antichi della coscienza, e che oggi purtroppo è poco usato. LEGGERE PRESTO: questo contagio avverrà tanto più facilmente quanto più forte è il potere della voce materna, o parentale, e quindi nei primissimi anni e addirittura mesi di vita. LEGGERE BENE: non con perizia professionale, ma con piacere personale. Leggere libri che piacciano anche al lettore significa consegnare "quei libri" accesi e rinforzati da "quel piacere". Il ricordo del libro potrà sbiadire, ma il ricordo del piacere resterà. E se tutto funziona il bambino, per soddisfarlo, cercherà altri libri.
Agli insegnanti poi aggiungerei: LEGGERE VOLENTIERI. Non costringere i bambini a leggere un libro controvoglia. La lettura dev'essere un piacere, distinta da altri cammini di conoscenza che invece sono dovere e compito. Si può addirittura consigliare ai bambini di abbandonare i libri che non trovano attraenti (naturalmente dopo averci provato sul serio almeno un po'). Ma al tempo stesso occorre assicurargli, sulla propria parola d'onore, che da qualche parte esiste un libro che li sta cercando; un libro che troveranno bellissimo e li farà sognare. Quindi lascino pure a metà un libro che non piace, ma non smettano mai di cercare e aspettare quello che piacerà.
Perché esiste. E dopo quello ne esiste un altro, e poi un altro...
Questa pagina è stata creata il 22 aprile 2005, e aggiornata l'ultima volta il 14 luglio 2011
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