Riflessioni sull'allenamento di un rimatore, forse utili alle insegnanti
d'italiano.
di Bruno Tognolini
Ho nuotato fino alla riga
"... Ho nuotato fino alla riga" era il titolo della bellissima
opera 1, in cui
l'insegnante Elisabeth Bing narrava il suo laboratorio di scrittura con
bambini muti, violenti, apatici, e insomma caratteriali. "...E je nageai
jusqu'à la page", nell'originale francese, dove il gioco di
parole era fra "page" e "plage": ben reso in italiano con "riva/riga".
Ed ecco che la lingua generosa ci aiuta ancora: il gioco può essere
portato avanti in italiano, dove il francese non può arrivare più:
ho nuotato fino alla riva... fino alla riga... fino alla rima.
In quel libro la riga, cioè la scrittura, era una riva da raggiungere
a costo di strenue fatiche, e magari per salvarsi. Il titolo nasce da un
bellissimo lapsus "scritto" da François, il primo dei bambini con
cui la Bing riesce, impegnando tecniche e seduzione, a "ristabilire
l'accordo profondo tra quel sangue nero che colava dalla penna e il rosso
sangue delle vene". Anche la rima ristabilisce accordi, armonie, stringe
belle sorellanze. Diciamolo in rima, anzi, con una filastrocca che ho scritto
per "La Melevisione".
Apro la bocca e dico la rima
Ride il silenzio che c'era prima
Un filo brilla fra le parole
Mare con mondo, luna con sole
Un filo piccolo che tiene insieme
Fiore con fiume, sole con seme
E ora vicine le cose lontane
Come le perle di belle collane
Danzano in tondo, perché se tu vuoi
Mondo fa rima con Noi
Non è vero che "Mondo fa rima con Noi", o perlomeno non di sua
spontanea inclinazione: bisogna arrivarci ("se tu vuoi", premette infatti
la filastrocca). Anche alla rima, quindi, come alla riga scritta e ad altre
armonie, bisogna arrivare nuotando, e talvolta controcorrente.
Non basta, per esempio, che due parole facciano rima per far poesia:
come non basta che due bocche facciano contatto per far baci. Questa, anzi,
è una delle correnti contro cui bisogna nuotare: le brutte rime,
le rime senza poesia, i baci senza amore. Ha sempre spopolato, nelle storie
e nella realtà, la macchietta del tizio che butta manciate di rime
cialtrone improvvisate, e degli altri compiacenti che gli dicono: "Come
sei poeta!". Purtroppo questo accade - e non dovrebbe - anche in molti
libri per l'infanzia, che sono mero esercizio di omofonia meccanica a servizio
del senso.
Che si può dire di queste rime brutte? Non fanno male, come
del resto i baci senza amore: ma disincantano, fanno venire il disamore,
per la rima e per i libri in generale. Chissà perché certi
adulti sentono di dover parlare così con i bambini, perfino sui
libri. Come quelle vecchie zie che non hanno avuto figli, e infliggono
ai nipotini una penosa lallazione fuori tempo, una lingua bamboleggiante,
rimbambita, babbea, e tutte le altre parole cugine che vogliono dire "far
ba-ba" con la bocca senza dir niente. Perché anche il senso, detto
in rime disamorate, perde forza: fra suono e senso infatti, nella rima,
c'è un legame a filo doppio.
La rima non è zappa, ma bacchetta di rabdomante
Il suono e il senso sono due bambini che giocano, o due grandi che si
baciano, o due mani che applaudono: se giocano e si baciano bene, chi può
dire chi gioca con chi, e chi sta baciando chi? Se le mani applaudono bene,
chi può distinguere il suono dell'una sull'altra da quello dell'altra
sull'una? Così suono e senso dovrebbero fare, nelle poesie in rima:
giocare a turno, in equilibrio, chi scappa poi acchiappa e viceversa. Si
vede subito se l'uno o l'altro comanda troppo: quando comanda il senso,
le rime sono accucciate in fondo al verso miserelle, prevedibili e piatte;
quando comanda il suono il senso è sciocco e scivola senza incidere,
talvolta giustificandosi col nonsense, coperchio che tutto copre,
ma non serve e l'effetto povero permane: un sorriso per la bizzarrìa,
poi tutto scordato...
Le rime non sono zappe per aprire solchi al senso, ma neanche aria
pura fra i denti: sono bacchette magiche, verghette da radbomante per trovare
zampilli di sorprese. Io cerco una rima per dire ciò che voglio
dire io; se sono fiero e robusto zappatore tanto faccio finché
ne trovo una, e la piazzo lì a cuccia in coda verso; ma se invece
sono mago rabdomante, più debole e furbo, trovo rime che dicono
quasi ciò che volevo dire io, o dicono meglio ciò
che volevo dire io, o dicono addirittura tutt'altro, che è
meglio di quanto volevo dire io.
La rima è tamburo nascosto
Nei miei "incontri con l'autore" nelle scuole racconto sempre - qualcuno
l'avrà sentita - la mia storia di tamburino in una banda musicale
e teatrale di strada, nei primi anni '80. Come si può raccontarli
ai bambini (e si può), racconto i dubbi, i conflitti tra quanto
mi divertivo e quanto sentivo di star perdendo tempo sulla via della costruzione
di un vero lavoro: trentaquattro anni, laureato al DAMS, cosa avrei fatto
da grande, il tamburino? Per quattro anni ho suonato e suonato, con questo
bivio davanti a me: tamburino o scrittore?
Qui faccio un salto avanti di quindici anni: ora sono scrittore, e
tra l'altro scrittore di filastrocche, ed ecco che per esempio ne dico
una. Dico il rap di introduzione al CD-rom "Rimelandia" 3.
Questo brano, che non può essere descritto, è un bel pezzo
e detto bene ha sempre il suo effetto: i bambini ammutoliscono pian piano,
e alla fine tirano il respiro, sorridono, quasi sempre applaudono. Io allora
sferro l'affondo: secondo voi quel tamburo, che il mondo voleva farmi
gettar via, io l'ho buttato? Tutti, ovviamente, rispondono subito "noooo".
E cosa ne ho fatto? Alcuni dicono: l'hai tenuto per ricordo - il che è
anche vero. Ma altri giungono precisi al segno: lo usi come ritmo...
È così, niente si perde, e tutto si trasforma: quel tamburo
- dico ai bambini - io l'ho nascosto nelle rime, è lì invisibile
tra un verso e l'altro, fra una riga e l'altra di ogni filastrocca, che
batte inarrestabile e radioso come una domenica mattina con la banda.
Leggere
E come si impara a suonare il tamburo delle rime? Così come si
impara a fare tutte le altre cose: nascendoci e facendo. Poeti filastrocchieri
(musicisti, calciatori, scienziati, imbecilli...) prima si nasce e poi si
diventa. E gli esercizi per diventarlo, almeno quelli che ho fatto e faccio
io, sono semplici, tre: LEGGERE, SENTIRE, DIRE tantissime rime.
Leggere: perché a scrivere si impara leggendo. Condizione necessaria
ma non sufficiente, naturalmente: leggere serve ma non basta. Che altro
serve? Posso dire che altro è servito a me: costruire.
Quando avevo otto anni, l'età dell'oro, amavo fare soprattutto
due cose: leggere e costruire. Leggere libri di storie fantastiche
ambientate in posti lontanissimi, immergendomi in un'altra realtà,
come tanti bambini hanno fatto e fanno; e costruire ogni sorta di
oggetti e meccanismi, giocattoli e marchingegni, con tutto ciò che
mi trovavo sottomano 4.
Bene: dopo anni mi son trovato a desiderare di fare lo scrittore. E
dopo altri anni, a farlo. Ma ci son voluti altri anni ancora per capire
quale filo legava quel bambino a quello scrittore: leggere + costruire
= scrivere. Le due cose che amavo fare erano infine diventate una.
Se amo leggere, voglio sempre altre storie da leggere; se amo costruire,
posso farmi da me tutti i giocattoli che voglio; ed ecco che scatta il
salto: le storie nuove, come i giocattoli... me le faccio da me. Terzo
respiro: scrivere.
Sentire
Ma leggere non basta, per imparare a scrivere le rime: occorre - o a
me è occorso, o è servito - sentire, sentirne dire
tante. E mi correggo ancora, perché non sto descrivendo un tragitto
premeditato di formazione, ma raccontando un'esperienza vissuta nel tempo:
soltanto adesso so che mi serviva, allora sapevo solo che mi
piaceva. Possedevo, venticinque anni fa, un vecchio cofanetto 5
di piccoli dischi di vinile più volume, che offriva la classica
antologia scolastica italiana da Iacopone a Ungaretti, letta dai migliori
attori di allora. Dai dischi avevo tratto audiocassette, che avevo aggiunto
ad altre di Carmelo Bene, rubate con zelo da collezionista da radio, TV
e addirittura da spettacoli dal vivo: Salomé, Amleto, Macbeth, ma
anche Dino Campana, Dante, Leopardi. Mi piaceva ascoltarle beato col walkman
sul Ford Transit, nelle lunghe tournée della Banda. E i colleghi
musicisti, che mi guardavano con sospetto, non capivano che non era la
mania di un secchione coatto: quelle audizioni mi piacevano da matti, mi
piaceva alternarle a David Bowie, Brian Eno, Laurie Anderson, e ben di
peggio.
Oggi, dopo venticinque anni, ascolto con eguale piacere, la sera lavando
i piatti, l'Orlando Furioso 6
letto (male) da Albertazzi, (passabilmente) da Sbragia, e (benissimo) dal
grande Foà; e altre edizioni su CD audio, fonicamente assai più
pregevoli delle rauche cassette di allora, come la splendida antologia
personale di Gassman 7
e della sua ciurma. Non è il caso qui di dilungarsi sui panegirici
di queste rime scritte da grandi e dette da grandi, perché non interessano.
Dire
Interesserebbe, invece, chiedersi perché l'esercizio dell'ascolto
vocale della poesia, specie quella in rima e metro, sia piacevole e
poi utile per l'accostamento alla rima. Ma discutere questo aspetto
non è mio compito, e forse è bene che io me ne astenga. Forse,
semplicemente, le prassi del calcio guardato, parlato, e
fatto sono altrettanto importanti per il training di un calciatore;
ascoltare musica è altrettanto importante, nella formazione di un
musicista, che leggerla ed eseguirla. La persistenza di una forte componente
orale e musicale nella poesia letteraria è cosa nota: la poesia
si ascolta, oltre che leggerla, perché è fatta anche per
questo. E così, come chi ascolta musica prima o poi incomincia a
canticchiare, e magari a cantare, la poesia, a forza di leggerla e ascoltarla,
si finisce per dirla.
Qui devo confessare un'altro vizio da secchione: so a
memoria tutto il primo canto della Divina Commedia, larghi stralci del
Conte Ugolino, di Ulisse, il Contrasto di Cielo D'Alcamo, larga parte dei
Sepolcri, e insomma avrei una mezz'oretta di autonomia nella recitazione
di versi. Peccato che nessuno mi voglia mai stare a sentire. Ma a parte
gli scherzi, non è "per gli altri", non è in funzione di
spettacolo che ho imparato (si badi bene, da grande, a trent'anni)
questi brani a memoria: è ancora solo per piacere, per il mio piacere
di dirli, di scandirli a mezza voce tra me e me, magari lungo un tragitto
a piedi noioso.
Ho nuotato fino alla riga
Sia pur tracciata frettolosamente, la mia rotta d'accostamento alla rima è dunque questa:
a) senso innato, ed esercitato fisicamente, del ritmo musicale (il tamburo);
b) gusto innato, ed educato nella scuola e poi nell'esercizio personale,
della lettura e della letteratura (leggere);
c) scoperta copernicana della breccia tra leggere e scrivere (leggere
+ costruire = scrivere);
d) gusto innato, ed educato fuori da ogni scuola, dell'ascolto della
poesia recitata (ascoltare);
e) gusto innato, ed educato nell'esercizio personale, della memoria
e dell'esecuzione vocale dei versi (dire).
Così, dalla riga, ho nuotato fino alla rima. Non so se sia un tragitto esportabile, o confrontabile, o anche solo utile a chi insegna italiano nelle scuole. Ma escludendo il punto 3 (non tutti dobbiamo diventare scrittori, come dicono sempre gli scrittori), mi sento di consigliare caldamente gli altri punti alla scuola. Il gusto innato, come dice la parola, non può essere richiesto né insegnato a chicchessia. Ma tutte le altre forme di esercizio possono essere molto utili 8: per rivelare chi quel gusto innato (forse un giorno talento) lo possiede in forme latenti e restie; e per mostrare compiutamente a tutti gli altri le ricchezze che abbondano in quella riva: se poi questi nuotatori, una volta che le hanno ben viste, continueranno a trovarle mute e piatte, si volgeranno e nuoteranno altrove. Il mare è grande e pieno di rive magnifiche, degne d'approdo.
NOTE
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1 E.Bing, "... ho notato fino alla riga", Milano, Feltrinelli, 1977
2 M.Cecchi, B.Tognolini, I.Carioli, M.Forti,
V.Cembalo, "La Melevisione", RAI3, puntata "Tonio di legno" del 16/11/2000.
3 B.Tognolini e R.Piumini,
"Rimelandia", libro + CD-rom, Milano, Mondadori, 1997.
4 Volevo costruirmi una
nave? Per prima cosa ruotavo lo sguardo intorno: lo sguardo inventivo del
bambino che indaga il territorio in cerca di vecchi chiodi, ferri, legnetti,
spago, carta, e qualsiasi materiale il mondo amico in gran copia gli offra.
Dico "sguardo inventivo" perché il campo di ciò che il bambino
cerca è circoscritto da ciò che vuol fare, ma ciò
che vuol fare può essere ri-allargato da ciò che trova. Esattamente
come accade per la rima: cerco la rima per ciò che voglio dire,
ma a seconda della rima che trovo ciò che voglio dire cambia, e
sempre in meglio.
5 "Le pagine d'oro della
poesia italiana", libro + 26 dischi, Milano, Selezione del Reader's Digest,
1968.
6"Orlando Furioso",
booklet + 5 CD audio, nella collana "Antologia Sonora" diretta da N.De
Stefani, ERI/Fonit Cetra, 1997.
7 "Antologia personale
di Vittorio Gassman", libro + 4 CD audio, Roma, Luca Sossella Editore,
2000.