SANGUEMISTO
Bruno Tognolini. Scritti sardi






SANGUEMISTO. Venti righe fra la Via Emilia e Cagliari per Giacomo Mameli
PAESANI DEL CANTO. Gratitudine per il Settembre dei Poeti a Seneghe
IDENTITÀ CULTURALE VIRALE. Contributo al libro di Giulio Angioni "Cartas de logu"

Su un'altra pagina:
DURUDURU. Una filastrocca e una lettera per il Presidente Soru
PIBERE IN SAMBENE. Discussioni sulla Sarditudine nel sito Corona de Logu



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SANGUEMISTO
Venti righe fra la Via Emilia e Cagliari per Giacomo Mameli

Giacomo Mameli, valoroso giornalista sardo, mi ha chiesto dieci righe per alcuni suoi interventi sul quotidiano "LA NUOVA SARDEGNA" dove si narra di sardi che vivono e lavorano "in continente" e dei loro rapporti con l'Isola. Ne ho scritte venti, per me di grande peso. Le trascrivo qui sotto.

La Sardegna è stata la Matria, l'Emilia la Patria. La Sardegna è la Terra, l'Emilia è la Polis. Può essere una buona ventura trovarsi figlio di due posti così diversi. A Cagliari sono nato e ho vissuto in un giardino, skilellè delle strade e poi alunno e studente di liceo e poi di medicina. Abitante, mai cittadino. Lì sì è formata l'Anima, la vita. A Bologna, dopo il DAMS, ho cominciato col mio gruppo teatrale a interloquire con le istituzioni, quartieri, comune, provincia, con grandiose e felici proposte di progetti, che man mano venivano accolte e realizzate. Lì si è formato l'Animo, la forza. Andavamo a parlare con questi assessori da cittadini qualunque, e mai mi è passato per la mente che così fosse perché lì non avevo parenti; né che potesse essere altrimenti che così. Mi stavo semplicemente formando come cittadino di una società democratica evoluta. Cosicché, quando dopo quindici anni mi è accaduto di partecipare tangenzialmente a qualche progetto sardo, e di sentir dire: tizio ha un cognato in assessorato… Bene, son caduto dalle nuvole. Ma avevo studiato e pensato, e non ho condannato: ho visto una rete antropologica che era tessuta di affetti e legami non meno che di interessi. Non era sbagliato, era solo molto diverso. E quando, altri anni dopo, nel mezzo di altre belle imprese sarde, stavolta condivise, ho visto sfrecciare gli strali delle disamistadi, della collera, dell'ingiuria personale, di nuovo sono rimasto disorientato. Ma per poco: "pibere in sambene", mi ha suggerito la filastrocca, che è sempre oracolo. Pepe nel sangue, anche nel mio.
Bene. Quando ci penso, non posso capacitarmi di questa fortuna che mi è toccata: lo splendore cupo di un sangue fortissimo e speziato, "vis a tergo", dicono i medici, forza che spinge; e "vis a fronte", forza che tira, lo splendore diamantino di un'utopia civile che gli animi si ostinano a ritenere possibile e le mani a ricostruire là dove crolla. Mischiare il sangue è ciò che deve tentare un Sangue Misto: forza e bellezza in Emilia, civiltà e dignità in Sardegna. È un sogno? Allora va bene.

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PAESANI DEL CANTO
Gratitudine per il Settembre dei Poeti

Festival di poesia "CABUDANNE DE SOS POETAS"
Seneghe, Oristano, dal 3 al 6 settembre 2009







Per Flavio e Paola Soriga.
E per Paolo Nori, Giulio Angioni, Domenico Cubeddu, Tore Cubeddu, Mario Cubeddu, Marc Porcu e la sua sposa, Antonella Chessa, Mattea Usai, Luciano Marrocu, Laura Pugno, Franco Loi, Giovanni Peresson, Alberto Urgu e tutti gli altri che non nomino, e che non se ne adombreranno.


Grazie per questo Settembre dei Poeti.

Mi avete dato ancora l'occasione di benedire la mia fortuna, la sorte generosa che mi ha reso capace, dopo tutti questi anni, di essere lì passivo, accogliente, presente, capace di abitare le lingue e i racconti che mi arrivavano nelle giornate, e le terre dell'anima in cui questi racconti portavano, perfetto paesano di ogni canto e ogni terra.

La sorte generosa e immeritata di esser nato e aver vissuto sardo per abbastanza anni, e figlio e nipote di sardi da tanti più anni, tanti da poter cogliere ogni cosa e ogni ombra di ogni cosa nel canto di Giulio Angioni, che con voce magnifica enumerava ed evocava i suoi Tempus. E i Tempi scorrevano davanti ai nostri occhi come pazienti graffiti rupestri, in un cantone di muri di pietra reso tempio dal sole del tramonto, e dal momento. Quella voce che accarezza e impreca e sorride e irride e abbraccia, ora parla in una lingua che comprendo. Non tutte le parole, di certo, ma tutta la lingua. Perché parla per essere compresa e per comprendere. Non proclama, non esilia, non taglia fuori con lingua di falce, ma come un canto deve fare comprende, prende-con, ci prende tutti con sé nell'abbraccio del canto. Un manuale di versioni greche su cui sgobbavo nel liceo Dettori di Cagliari, quaranta anni fa, recava il titolo allora per me enigmatico "KTEMA ES AIEI", che significa "possesso per sempre". Capivo naturalmente la lettera di quella locuzione, perché ero un bravo studente del classico, ma non lo spirito profondo, perché non ne avevo gli anni. Giulio Angioni, con la voce che parla dai millenni, mi ha fatto comprendere oggi cosa voleva dire. Tempus. È bellissimo: quarant'anni per capirlo! Esiste dunque il tempo e noi, anche noi angeli asini tardivi, abbiamo speranza. Mi ha fatto comprendere di averlo ormai in me quel "Ktema es aiei", quel possesso per sempre, quel "mio" della lingua e del canto, quel "mio" dell'Isola che nessun custode di purezze culturali, nessun esattore di "cixiri" potrà mai oramai portarmi via.

E via, in un'altra piazza, in un'altra terra dell'anima, che illumina altre benedizioni della sorte.

La sorte generosa e immeritata di aver vissuto tanti altri anni in quell'altra terra cara ed eroica che è l'Emilia, più che matrigna matria, acquisita e avidamente requisita. Di avervi conosciuto e amato e seguito come discepolo incantato uomini a cui non posso pensare di accostarmi ("men whom one cannot hope / to emulate—but there is no competition...", dice nostro padre Eliot nei Quattro Quartetti). E fra essi, per esempio, Gianni Celati, e i Narratori delle Pianure che lo hanno seguito, col loro canto vivo e vacillante che spalancava ai miei occhi paesaggi di comprensione del nostro occidente, di quell'oltremare, di quelle pianure madri di ricchezza e civiltà dove ero migrato. Bene, quel canto ha trovato lì a Seneghe rima e ripresa ("torrada") nella voce di Paolo Nori, che, la mano levata come ogni rapsodo o griot, salmodiava il diario di Settembre nelle magnifiche onde vocali - seconda patria, seconda lingua - dell'Emilia. Un vacillare dicendo a ogni passo, un'incertezza di poter dire il mondo, che combatte con la bellezza e l'esattezza di doverlo dire, e il risultato di questo duello è una prosodia fluente e zoppetta e potente che spalanca il mondo con la vita umana al centro. Dio è nei dettagli, diceva Gabriella Caramore citando Paolo De Benedetti nella serata di sabato. Paolo Nori, con le sue sorridenti cadute, le sue interiezioni dubbiose ("… per dire…"), mi ha rivelato che anche l'uomo è nei dettagli. E non poteva essere altrimenti, "a pensarci bene", come direbbe lui (bisogna sempre "pensarci bene", vero Paolo? È nostro compito sorridente e commovente). Dettagli, interiezioni dubbiose, piccoli smarrimenti marginali: da quei brevi varchi si vede la vita umana nostra tutta intera, la sua complessità viva e scalciante, la sua verità frastornante, inafferrabile, a meno di non saper zoppicare. Si vede l'alba che è difficile trovare dentro l'imbrunire. Si apre e poi si richiude subito in un sorriso la forza indomabile e bella degli sfigati, che è nelle crepe, nelle ombre, nei dettagli e nei tartagli. E che da sempre serve a tutti per guarire il mondo.

E ancora in altri mondi, in altre piazze con altri canti di poeti, che hanno schiuso tutti almeno uno spiraglio per ammettermi nelle loro terre.

Le terre allucinate e luminose, dorate e visionarie di Laura Pugno, gli idoli fantasmagorici dell'anima interna proiettati fuori dalla caverna in alta definizione immaginaria. Sono film dell'avventura della mente le sue poesie, fioriture lussureggianti che a stento nascondono dietro la fantasmagoria la salute gioiosa del canto, la fiducia di esserci appieno, in piedi in quel posto. Posti a cui appartengo, come i videogame meditativi, le "graphic adventure" serene e mistiche dove ho vissuto lunghe ore delle mie notti, fino a sentirmi alla fine paesano anche di lì.

E all'altro capo della luce, catabasi buia di quell'anabasi d'oro, le altre terre da cui ritorna il canto di Milo De Angelis, grondante della tenebra che vi regna. Noi siamo come il Kubilai Kahn, abitiamo la capitale dell'Impero della nostra anima e ben poco ci muoviamo da lì. Ma sappiamo che l'impero è sconfinato, e così noi inviamo Marco Polo perché torni e ci dica come sono le buie terre dei bordi. Le tenebre. Possiamo stupirci se torna parlando lingue oscure? Non si può parlare dei mondi di laggiù con la lingua di qui. La lingua dell'anima non può essere basic english: è fatta di sogni estratti dalla tenebre con procedimenti vietati, e disseccati per il lungo sui fogli. Il Kahn può dire, se vuole, se è vile: terre dove si parli codesta lingua, dove le città del senso fioriscano in tali incongrue architetture, non mi appartengono; non esistono nemmeno. Io ho potuto gettare, grazie a Marco Polo, uno sguardo breve e stordito, impaurito e affascinato anche lì. Non è un caso che Milo De Angelis non sorridesse mai: forse chi è tornato da quei posti non sorride. Forse sì, di altri sorrisi più fondi. Ma è andato laggiù per me e gli devo il mio ascolto, e incolmabile gratitudine per le ferite del viaggio.

Solo la mia ultima serata di festival, sabato sera, a fronte di quel sorriso sparito, il sorriso giulivo d'amore di Franco Loi e il ghigno agrodolce di odio di Andrea Portas mi hanno rinchiuso fuori. Mi son parsi simmetricamente, specularmente falsi, "teatrali" (che io usi questi due aggettivi come sinonimi dopo anni di DAMS e di teatro militante è un segno che dovrò leggere), come due maschere greche simmetriche con bocca all'insù e all'ingiù sul timpano di un teatro di provincia. So bene che non lo erano, che erano veri canti potenti di vite, resi veri dal sangue copioso di quelle due vite. So che la "falsità" era nei miei occhi, come in quelli del migrante che nulla riconosce della terra novissima in cui l'ha sbattuto il mare e tutta falsa, tutta "teatro", per sgomenta difesa, la dice. Non ero pronto, non ero al posto giusto, nel tempo giusto, non ho potuto entrare ed abitare da paesano quei due canti diversi ridenti d'amore e di odio e di Dio. Sono stato straniero, somaro e tardivo. Bene di nuovo: questo di nuovo vuol dire che c'è ancora da fare parecchio, che ci sono mondi davanti, e c'è futuro.

C'è futuro e presente da dire, ci sono uomini adatti a dirlo, che hanno guadagnato con dura fatica la necessaria maestria per dirlo. E ci sono paesi a Settembre in cui ci si incontra tre giorni, come in un raduno orfico o celtico o nuragico o maori, per dirlo insieme.

Questa è un lettera di ringraziamento a voi tutti, per avermi chiamato e accolto in quel Settembre.
Vi abbraccio.


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IDENTITÀ CULTURALE VIRALE
Contributo al libro di Giulio Angioni "Cartas de logu. Scrittori sardi allo specchio"
Cagliari, CUEC, 2007




Una terra dove leggere e scrivere


Non mi sono mai sentito sardo finché non sono andato via dalla Sardegna, a 25 anni, nel 1976, per studiare al DAMS di Bologna.
I motivi per cui ho lasciato l'isola sono i soliti, quelli di tutti. Ma c'è un passaggio che è stato importante capire, la rivelazione di un sillogismo, uno scatto di quella cultura personale che vive del ritmo cardiaco leggere-scrivere.
Ho sempre studiato volentieri, da ragazzo, con curiosità e devozione per i grandi fatti e uomini e opere che leggevo sui libri al Liceo Classico Dettori di Cagliari. Non uno di questi fatti e uomini e opere avevano luogo o relazione con la terra che mi vedevo intorno. Concludevo pertanto, come molti, che niente di importante era mai successo lì, che le cose degne d'esser scritte capitavano altrove. Lì era un posto dove si legge, aggiungevo di mio, non dove si scrive, o qualcosa sarebbe pur rimasto scritto. E altrove dunque dovevo andare se volevo scrivere, scrivere cose degne d'esser scritte.
Covavo in me questo sillogismo in forme tutt'altro che consapevoli, ovviamente. Ma quando ho trovato casa a Bologna in centro, un derelitto sottoscala da studenti ma all'interno delle Mura del Mille, ho detto fra me: ecco, hic manebimus optime, qui è il mondo.
Quello, come ho anticipato, è stato il momento in cui ho cominciato a sentirmi sardo. E per paradossale reazione a ricusare, allontanare con rigore intellettuale e morale un po' stizzito (un po' sardo?) questa identità, e sentirmi profondamente italiano. Com'è andata?


Voi sardi siete speciali


È andata che i sardi erano molto quotati, nei giri intellettuali "damsini" creativi trasversalisti movimentisti etc.: ma solo se un po' etnici, ruspanti e sirboni. Era il periodo dei Canzonieri, della santificazione della musica e della poesia e della cultura popolare e regionale. "Sei sardo? Ah, voi sardi siete speciali!".
Speciali in cosa? In Piazza Verdi, nel Collettivo Musicisti, il mio amico di vita di sempre e di stanza di allora, Gianfranco Cabiddu, faceva amicizia con Guccini e Lolli, e io no. Loro erano attratti dalle launeddas, non fisiche ma culturali, che lui in qualche modo portava con sé ed esibiva; io amavo e sapevo a memoria centinaia di endecasillabi danteschi.
Io sono un sardo speciale in italiano: non interessa più?
Dunque cos'era quella fregatura? Non era lì il mondo? Ero venuto lì per essere al centro di tutto, e mi indicavano come sante ed eccellenti le periferie remote da cui ero partito?
Allora un orgoglio, un puntiglio e un appetito sono scattati in me, su tre fronti.


Orgoglio culturale


Primo fronte: orgoglio culturale, di cultura personale, familiare, nazionale, insomma mia, che diceva così: io non farò il sirbone ruspante (tranne qualche veniale scivolata per motivi di donne) per far bella figura con voi, io sono uno del Dettori con otto in italiano, mio nonno Ciccitto Sotgiu era maestro, nuorese comanchero rinnegato che girava a cavallo la sua stessa Barbagia per ficcare l'italiano nella testa pidocchiosa dei pitzinnos, mentre lui componeva muttos in nuorese per Nonna Rosella, maestra, e io li ho letti ed erano pure belli. E questo nonno dal letto d'ospedale mi aveva chiamato a sé, quando alle medie con un tema avevo vinto una borsa di studio di poche lire, per dirmi: "Sono orgoglioso di te, nipote mio!". In italiano il tema, in italiano l'encomio, in italiano bello e nobile tutto il mio mondo interiore, la mamma lingua che nel cuor mi sta, come in un sirventese del trecento, pieno di forza e di soavità. Perché mai dovrei fare il sirbone?


Puntiglio morale


Secondo fronte: puntiglio morale. Gianfranco Cabiddu ed io suonavamo con le chitarre e cantavamo, non muttos e ballus ma Simon & Garfunkel: "Homeward bound I wish I was…", "I watch behind the rain-drenched streets / to England where my hart lies…" E io dicevo a me stesso, e non solo: finché lo canto in inglese, passi, son canti di migranti sconosciuti per terre loro dove io non sono andato né tornato; ma perché mai dovrei cantare veramente la nostalgia per la mia terra, da cui sono veramente andato via?
Sono andato via per girarmi e cantare quant'era bella? Se era così bella, stavo lì.
Sono voluto, non dovuto andare via: che cosa canto?
Questa reazione salutare di rigetto per una nostalgia che sentivo allora puerile e incoerente ha impiegato vent'anni a calare, sfumare e sparire. Solo ora, che forse sono immune, mi consento un puro e terso sentimento del "nostos". Ora posso anche tornare – di tanto in tanto. Ora che ho imparato a cantare, in versi e in prosa.
Non canto di tornare: torno per cantare.


Buon appetito culturale


Terzo fronte: il buon appetito. A Bologna Bengodi ho trovato, per mia buona ventura, esattamente ciò che cercavo. Pane per i miei denti, quei denti e quelle mascelle – si badi bene – che una buona scuola e cultura familiare sarda mi avevano cresciuto potenti.
Erano anni di ingenuo e benedetto pantagruelismo culturale. Posso anche sentirmi sirbone cantadore di muttos, purché la stessa sera io sia sottile dicitore di stilnovo; e altre sere declamatore coi maggianti della Val d'Era, e ballerino di giga e manfrone dell'Appennino Emiliano, e imitatore di cuntu siciliano; e inventore di feste e fiere teatrali in stile medievale studiato al DAMS o mutuato dai catalani Comediants; e drammaturgo di un cupo e ascetico gruppo di teatro barbiano e grotowskiano; e via mangiando. Per trent'anni ho mangiato questo ed altro. Allora, se "what you eat you are", cosa sono diventato?
L'identità sarda?


Il lussureggiamento degli ibridi


Io mi chiamo Tognolini, cognome "continentale". Mio nonno Iginio Tognolini e mia nonna Giulia Albisetti sono calati dalle Alpi di Valtellina da ragazzi, all'inizio del novecento, al seguito dei pasticceri svizzeri Clavot. Il loro figlio, mio papà Angelo, seconda generazione, era già cagliaritano fatto e finito. Io sono la terza.
Nell'altro ramo c'era nonno Ciccitto Sotgiu, come detto maestro nuorese, nonna Rosella Porcu, maestra gavoese, tra i loro figli mia mamma Fanny maestra, Zia Nietta maestra, Zio Romano maestro. Una stirpe dai nomi stranieri, maestri figli di maestri, cresciuti a madrelingua italiana, che ha insegnato l'italiano – babbo linguaggio, lingua di patria non di matria – ai bambini di mezza Isola, promuovendone la benedetta evoluzione culturale o – a seconda dei punti di vista – macchiandosi di genocidio culturale. L'ibridazione è florida è abbondante, come si vede: fra identità sarde e continentali, e sarde e sarde. Quell'ibridazione, quell'eterozigosi che, a detta dei genetisti, "porta al fenomeno del lussureggiamento o vigore dei meticci, che mostrano un'eccellenza di performance".
Bello il " lussureggiamento". Mia mamma è nata a Santu Lussurgiu: c'entra qualcosa?


Un esempio: migrazioni di costrutti poetici


A parte gli scherzi. Ecco un caso congetturale di questa ibridazione culturale, l'unico che mi è capitato di osservare. Bello a dirsi, naturalmente, narrativo più che scientifico.
Mia Zia Nietta ci canticchiava sempre, da bambini, un brano di ballu che diceva così (lo scrivo come lo sentivo, non conosco l'ortografia sarda):


Mancari chi bellettu ti'nde diasa
Bella nun sese – no – bella nun sese
Bella nun sese – no – bella nun sese...

Dopo molti anni, in un poemetto in ottave intitolato "La sera che la sera non venne", mi son trovato a scrivere questa ottava che chiudeva così:
Ma se non passa più quel lungo giorno,
allora non passa più mese né anno...
E se non gira il tempo tutto intorno,
allora non torna più il mio compleanno...
E io non cresco più? Senza ritorno
le stagioni sorelle se ne vanno?
Mai più inverno, mai più la primavera?
Per sempre estate, sì, per sempre sera.

Dopo altri anni ancora, di uno scongiuro contro l'Argia sentito in un CD di Tomasella Calvisi, cantadora fonnesa, mi son rimasti in mente questi versi:
Dammi sa manu e pesa pesa pesa
Dammi sa manu e pesa Serafina
Ca tue sese sa nostra ‘ighina
Ca tue sese – no – ca tue sese...

A quel punto me ne sono accorto. Guardate che meraviglia:
"Bella nun sese – no – bella nun sese…"
"Per sempre estate, sì, per sempre sera…"
"Ca tue sese – no – ca tue sese…"

Endecasllabi perfetti, calibrati come altalene a bilico: cinque sillabe di qua, fulcro al centro (una sillaba: "no" o "sì"), cinque sillabe di là. Ecco perché suonava così bene, la coda di quell'ottava.
Per uno di questi scambi fra culture, di queste migrazioni di costrutti genici poetici che qui per bel racconto ho rintracciato, quanti milioni di altri non si può e non bisogna rintracciare? Quanti di questi scambi invisibili di forme stanno alla base di una identità?


Identità virale


C'è un modo sardo di essere italiano.
Un modo Sotgiu di esser Tognolini.
C'è un canto sardo sepolto così in fondo, nella più pura lingua italiana, che non se ne vede traccia, e non si direbbe che forse è anche grazie a lui che quella lingua canta così bene.
Sepolto in fondo, come un fiume carsico: non c'è bisogno che faccia affioramenti con fiori o foruncoli di parole in limba, da Camilleri in poi, incastonate nel bell'italiano.
Invisibile, imprendibile come Pinocchio, che fugge per sempre ai bordi del campo visivo: stiamo sempre per scorgerla, questa identità, era lì un attimo fa, ma poi ti giri…
Un'identità culturale e linguistica, creativa e poetica sarda: potente, meticcia e nascosta. Tanto più potente quanto più nascosta.
Forse è questa l'unica forma che l'identità sarda può prendere, per sfuggire alle Scilla e Cariddi della cancellazione a opera del mercato culturale globale, da un lato, e della mummificazione a opera dei cultori della tradizione dell'altro.
Un'identità che agisce nel buio più remoto dei mitocondri della cultura individuale, come stringhe-battorine di RNA, e da lì genera forme.
Un'identità culturale virale.

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Questa pagina è stata creata il 19 settembre 2009


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