Secondo anno, Bologna, 1 agosto
1992
LE ANTIGONI DELLA TERRA
PIAZZA MAGGIORE
testo di Bruno Tognolini
e Marco Baliani
INDICE
Il testo per Piazza Maggiore è stato scritto
da Marco Baliani e da me: in parte scegliendo e riadattando frammenti delle
più diverse origini (brani letterari scelti da attori e drammaturghi
per le dieci piazze, frammenti dall'Antigone dello scorso anno, un brano
scritto per noi da un medico, e così via), e in parte con scritture
originali. Lo hanno letto con cura, e arricchito, Gigi Dall'Aglio e Renato
Carpinteri, i due attori che hanno dato voce a Edipo e Tiresia. L'apparato
delle didascalie è veloce e funzionale, come è d'uso per
testi nati come supporto di memoria per un processo teatrale più
largo di loro. Con candore neofita, Marco ed io eravamo convinti che il
finale del dialogo di Edipo e Tiresia avrebbe fatto saltare la Piazza.
Non è accaduto. Solo per tangentopoli, dovevano passare ancora diversi
anni.
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Primo Quadro: LA
CITTA'
Ogni gruppo converge in Piazza Maggiore dalla sua ultima piazzetta,
e si ferma tra la folla nel suo sito prefissato. Lì assume la posizione
"EPITAFFIO" (foto di gruppo), e la tiene finché tutti
siano arrivati dalle piazze. A quel punto tutti cominciano a ripetere il
frammento della poesia di Padre Turoldo, sfasati a canone, due volte.
A un segnale (il primo cambio di luci), i DIECI ARALDI delle piazzette
scalano di corsa la collina suonando le "troccole", e disponendosi
in cerchio a diverse altezze, rivolti verso il pubblico. Lì cominciano
a dire i brani di "informazione" sulle 10 stragi che avevano
recitato in ogni piazza. Parlano insieme e con effetto "cacofonico",
ma un ANGELO MICROFONISTA corre intorno dall'uno all'altro, avvicinando
il microfono che porta celato sulla punta d'un'ala, e cogliendo brani brevi
e casuali dei loro racconti.
Al segnale sonoro delle troccole i gruppi si dirigono lentamente verso
la collina, abbandonando dove stanno le loro insegne (ruota, carri, etc.:
tranne uno dei due alberi, che viene portato alle falde della collina),
e circondano la base della terra con una fila continua. Quando gli ARALDI
e le loro troccole tacciono, tutti i cento attori salgono sulla collina
e parte la prima danza ("SLOW MOTION").
Al termine della SLOW MOTION i cento attori si dividono in due gruppi ed
occupano i siti del CORO, in basso sui due crinali che guardano Palazzo
Re Enzo e San Petronio; il gruppo delle DONNE DELLA TERRA è mescolato
al semicoro di Re Enzo, e il piano alto della collina è sgombro.
Salgono i TEDOFORI con le loro fiaccole, e prendono posto sulle due "Acropoli"
che si ergono nei lati verso Palazzo D'Accursio e il Pavaglione. Salgono
e prendono il centro della collina anche l'ANGELO MICROFONISTA e l'ARALDO,
che annuncia Edipo.
ARALDO
Cittadini, ascoltate!
Vi narraremo la storia di re Edipo, dell'indovino Tiresia, e della peste.
Quest'uomo, che qui vedete in cima alla sua rocca, è Edipo, re di
Tebe.
Nasconde un segreto, un crimine che lui stesso ignora: da esso è
nata una catena di mali, un morbo che ha contagiato di peste la città.
Ora Edipo si guarda intorno, sgomento. E' un buon re, e vorrebbe sanare
il suo stato.
Ascoltate cosa ha da dire.
I CORNI eseguono il Tema di Edipo, che sale la collina ed occupa la
sua Acropoli.
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Secondo Quadro:
EDIPO E TIRESIA
Edipo parla. I due SEMICORI, seduti nelle loro posizioni sui
due versanti, lo guardano.
EDIPO
Mi guardo intorno dall'alba al tramonto. Guardo le torri, le mura, le case:
i vicoli che si perdono nella campagna. Non passa giorno che bande di briganti
non vadano in giro a saccheggiare, impuniti, protetti dalla paura dei molti.
Io non so quanti morti, quanti uomini schiacciati come mosche abbiano visto
ormai questi miei occhi.
Eppure ovunque, la città è silenziosa, e immobile.
La malattia si sparge veloce, insegue, afferra i corpi, li infetta: i raggiunti
dal morbo vengono presi da dimenticanza, di sè e degli altri. La
malattia costringe gli abitanti ad una solitudine da assenti, rompe le
associazioni usuali, orazioni, banchetti, sorellanze: a nulla servono torri
o piazze o navi, se dentro insieme non vi abitano gli uomini.
Molti pensano che l'epidemia si fermi da sola e che loro saranno, con le
loro famiglie, risparmiati. Di conseguenza non si sentono obbligati a far
nulla.
Per loro la peste è una spiacevole visitatrice, che se ne andrà
com'è venuta. Spaventati ma non disperati, non è ancor giunto
per loro il momento in cui la peste appare come la forma stessa della loro
vita, camminando accanto ai lamenti come se questi fossero il naturale
linguaggio degli uomini.
Almeno adesso la situazione è chiara: il flagello riguarda tutti.
La morte ha fatto il nido in tutti i nostri orologi: continuano a fermarsi,
ad ogni rombo. Ed ogni volta la città sussulta, e il sole trema
in cielo: è sempre orribile, come la prima volta.
Ma più del rombo mi sgomenta il silenzio in cui esso, per molti,
si è mutato.
Vedo i miei cittadini provare la sofferenza di tutti i prigionieri, di
tutti gli esiliati, che è vivere con una memoria che non serve a
nulla.
Ci mettiamo allora a nutrire il nostro male di segni sconcertanti, a cui
aggrapparci: una rugiada all'alba, un volo d'uccelli, tre colline. E l'albero
prediletto, che nel centro ricomponga un paesaggio da guardare, e guardando
chiamare nostro, terra, casa.
Ma l'albero a cui siete abbracciati, laggiù, è spoglio, le
sue radici recise, e tutte le foglie, il popolo, il popolo intero è
malato.
Io sono il re di un popolo malato. Voi piangete voi stessi, e i vostri
cari: io, re e governante, piango voi, me, e lo stato.
Io devo sapere a che punto è il contagio, fin dove ha morso nel
cuore del paese.
Da governante ho mandato a chiamare un uomo saggio, un uomo che sa molto,
e che può e deve parlare. E' Tiresia, conoscete il suo nome.
A lui ho chiesto di narrare apertamente la natura del male, le sue forme
e le sue fonti, lo stato di diffusione e le difese.
Questa peste è un'assassina cieca, e occorre intera la chiaroveggenza
del regno, per stanarla.
I CORNI intonano il TEMA DI TIRESIA, e l'Indovino appare sulla sua Acropoli.
Parte il contrasto. Tutti gli attori del CORO, seduti nei due versanti,
ruotano il busto guardando ora l'uno ora l'altro dei due contrastanti.
Il CORO interverrà con due battute, dette da cinque CORIFEI: i due
SEMICORI si alzano, fanno qualche passo verso l'interlocutore "lanciando"
il loro CORIFEO, che corre per un breve tratto, si ferma davanti all'ANGELO
MICROFONISTA, e parla.
Di tanto in tanto, alcune tra le dodici DONNE DELLA TERRA si alzano, raccolgono
terra nei grembiali, e la accumulano su un piccolo tumulo su cui siederà
alla fine ANTIGONE VECCHIA.
Subito dopo il tema eseguito dai CORNI, Tiresia risponde: e parte il dialogo.
TIRESIA
Io so cos'è la peste. Conosco la malattia che ha fatto il nido nel
corpo della nostra città. I corpi non hanno coscienza della malattia,
ma sentimento del male, difesa e memoria.
Intendi: la difesa viene disposta in questo modo. Se un ente estraneo al
corpo ha superato le sue frontiere ed è penetrato all'interno, e
lì ha fatto il nido, portando malattia, occorre innanzitutto che
il corpo scorga, e riconosca come straniero questo ente. La prima azione
è dunque un riconoscimento. Fatto ciò, se il corpo è
sano, appresta ed invia anticorpi, potenti forze che assalgono l'agente
di malattia e lo distruggono.
Il corpo ricorderà questa battaglia: ogni volta che quel nemico
tornerà, sarà già pronto. E' questa la memoria del
male che i corpi degli uomini hanno edificato nel corso di migliaia di
anni, al costo di migliaia di morti.
Ma attento: tutto ciò avviene quando il corpo è sano. Se
il corpo è debole, provato da altre battaglie, il riconoscimento
e la memoria non basteranno più. Gli anticorpi e gli agenti del
male combatteranno a forze pari, in equilibrio come sopra una bilancia.
Se la bilancia pende dalla parte del male, si avrà la morte. Se
invece indugia nell'equilibrio, si avrà convivenza con la malattia,
stato di male continuo, e non mortale.
E' questa abitudine al male, il peggiore dei mali. Ciò che un tempo
pareva abominio, diviene natura, come la pioggia che occorre sopportare.
Questo è il momento delle medicine. I corpi non sono soli, nella
lotta: sul piatto della bilancia può esser posto un rimedio che
rompa l'equilibrio, che aiuti il corpo a riguadagnare la sua casa.
E infine intendi: né riconoscimento né memoria, né
forza né debolezza del corpo ha mai effetto su quel male micidiale
che è il tumore.
La cellula del tumore è carne nostra, non può essere riconosciuta
come straniera, e il corpo non l'assale. E' una cellula che smette di obbedire
ai compiti per cui era stata istituita, e che sviluppa in forma immane
una sola capacità: riprodurre se stessa. Si riproduce alla velocità
del sogno, utilizzando tutte le forze che possiede, e via via tutte quelle
che l'intero corpo produce per la sua stessa vita.
Il corpo allora vive al solo scopo di nutrire questo nuovo se stesso assassino,
e infine muore, svuotato di energia.
Tu ed io abbiamo veduto tante guerre: ma sappi che nessuna è mai
stata pari, in orrore, a queste spietate che abbiamo sotto gli occhi.
EDIPO
Tutto questo lo vedo da me, ognuno può constatare l'assalto della
malattia.
Ma ora, qui, davanti alle rovine delle mura, davanti ai lutti che reclamano
sempre nuove lacrime ai funerali, identiche cerimonie, tragiche pantomime
di pagliacci davanti a cataste di morti: no, davanti a questo, Tiresia,
le parole devono suonare chiare alle orecchie.
Qui è in gioco la salvezza dello Stato, la mia e la tua e quella
di tutti.
Dì quello che vedi e che sai. Esiste ancora medicina che possa guarirci?
C'è una via di purificazione dal contagio?
Rispondi.
TIRESIA
Io so qual'è la medicina che tu cerchi, e so dove si trova.
Il suo nome è verità.
La sua dimora non è nella cosa in sé, ma nello sguardo, sotto
gli occhi di tutti.
Prestami ascolto. Un giorno un cammelliere, per sfuggire a una banda di
predoni, si gettò in un pozzo. Ma alla superficie dell'acqua un
altro pericolo lo attendeva: la gola aperta di un mostro. L'uomo allora
si aggrappò a un arbusto che l'umidità aveva generato tra
le pietre: ma vennnero fuori due grossi topi, e incominciarono a rosicchiargli
i rami tra le dita.
Tutto gli sembrava perduto, non c'era via di scampo. In quel momento il
cammelliere guardò l'arbusto che stringeva nella mano, e vide che
era una pianta di fragole, e che portava, vicinissimi a sè, alcuni
frutti. Allungò il braccio, li colse, e li mangiò.
La verità è sotto i nostri occhi, evidente come una fragola
rossa. E' sul ciglio del baratro. Non sorge repentina, è già
lì da tempo. Devo dirti altro?
CORO
PRIMO CORIFEO
Di cosa andate parlando, lassù? Le vostre parole ci indicano a dito
una verità grande e vuota come il cielo.
Guardateci, quaggiù. Abbiamo condotto quest'albero dalle contrade
più lontane, e le nostre braccia non ancora per molto riusciranno
a sostenerlo.
Si racconta che una volta un albero come questo, senza radici, fu piantato
in una terra, resa fertile dalla memoria dei numerosi che si ostinarono
a cercare il vero; e che l'albero d'improvviso germogliò.
Sappiamo che questa è solo una storia, e che questo è un
albero secco: ma oggi noi non abbiamo altro. Per questo siamo qui.
SECONDO CORIFEO
Se non ci è dato di sapere la verità, dateci la certezza
di cercarla, ovunque essa si trovi.
Noi siamo smarriti, confusi. La peste ci atterrisce. Ci chiudiamo nelle
case, a finestre sprangate. C'è della gente che, dalla paura, perde
persino la memoria.
Si potrebbero disegnare nuove mappe, indicando le strade e le piazze coi
nomi dei morti caduti, strage dopo strage, giorno dopo giorno. Noi siamo
pietre, e la peste è l'architetto.
TERZO CORIFEO
Ci stanno facendo credere che questa è la realtà, ma io tengo
forte le mia dita incrociate e mi riempio di pizzicotti per svegliarmi
da questo incubo, che non ha mai fine.
La mia speranza è quest'albero sradicato. E' secco, ma è
quello che ho. Deve fiorire.
Tocca a te, Edipo, mostrarci che è ancora possibile. Che anche la
terra non è secca, che le fondamenta delle mura sono pronte ad accogliere
i nostri morti pacificati, lucenti, freschi e lavati con quella verità
che ora solo tu devi cercare.
Cosa farai? Parla!
O crederemo a quello che si dice, che qui viveva un demonio costruttore
di enigmi, e che fuggì spaventato da un uomo più diabolico
di lui...
EDIPO
No! Il nostro mondo non può essere un inferno.
Voglio una sguardo lucido e profondo, che porti alla luce tutto il futuro
che è rimasto nascosto nei segni, negli atti e nelle opere del nostro
passato.
C'è un tempo in cui non succede altro che morire, e poi arriva un
giorno che dura da solo dodici anni. Un giorno in cui finalmente nutrirsi
di ciò che diventiamo: e diventare.
Tiresia, rivela ciò che sai!
Fai della verità un racconto chiaro, che spieghi la peste, che nutra
la terra, che riveli le cause di ogni male.
TIRESIA
Io parlo con i morti al pomeriggio, quando per tutti c'è troppo
caldo per capire.
Mi portano sempre la stessa notizia, mi leggono sempre lo stesso giornale.
Vuoi sapere qual'è la verita?
Sempre quella: sono morti per mano di assassini.
E gli assassini vivono impuniti.
E i cadaveri giacciono insepolti.
E da questo nasce la peste.
Ed è vero, ed è mille volte vero per ognuno dei mille che
non parla.
Vedi dove sei giunto? Non ti basta?
Quello che senti arrivare è il tuo destino.
EDIPO
Non t'immischiare nel mio destino, veggente. Non ti ho chiesto di farmi
le carte, ti ho comandato di purificare la città.
Tu parli di delitti: che delitti? Se si tratta soltanto di delitti, si
ricerchino allora gli assassini.
Chiunque di voi sappia chi ha ucciso, io ordino che riveli ogni cosa a
me. Se ha paura, sollevi dall'accusa se stesso: non soffrirà alcun
altro danno, potrà andarsene indenne dal paese. Se qualcuno poi
sa che l'assassino è un altro, o di un altro paese, non taccia:
gli darò una ricompensa, e vi aggiungerò la mia gratitudine.
Ma se voi tacerete, se qualcuno, temendo per una persona cara o per se
stesso, tenterà di eludere il bando, sappia da me cosa farò
in tal caso: ordino che nessuno in questa terra, su cui ho dominio e trono,
accolga mai quest'uomo, chiunque sia, né gli rivolga parola, né
lo renda partecipe di preghiere o sacrifici agli dei, né gli offra
acque lustrali. Ma tutti lo caccino dalle loro case, poiché è
lui che contamina lo stato.
CORO
QUARTO CORIFEO
No! Non abbiamo più pazienza per gli editti. Non vogliamo più
sentire proclami regali, leggi speciali, bandi che non bandiscono che l'aria,
la nostra aria, e risparmiano la peste.
Abbiamo sopportate mostruose cose tra noi dicendole insopportabili, scrutando
sorrisi di condiscendenza sul volto dei nostri assassini.
Ora non è più tempo. Le nostre braccia sono stanche, l'albero
è più pesante ogni momento.
QUINTO CORIFEO
Io chiedo che come prevede la legge vengano nominati i colpevoli.
Che la verità da tutti conosciuta venga risolta senza enigmi, e
per intero.
Tu sai, Cieco.
Quindi parla per noi.
Parla dell'amore che bisogna strappare e mangiare.
Comanda che tempo non c'è, che per sempre tutto se non si vince
ritornerà.
Dì come li hanno uccisi e i nomi dei nemici.
TIRESIA
Io so i nomi dei nemici.
Io so i nomi dei responsabili di questa che viene chiamata peste.
Io so i nomi dei responsabili della prima strage, e di tutte le altre stragi
dopo quella, in cui trovarono morte uomini presi dal mazzo alla rinfusa.
Io so quando e perché questa sciagura ci ha colti. L'ho vista nascere,
crescere, mutare denti e aspetto, tentare forme nuove e peggiori, fino
a questa matura e possente della peste.
Io so i nomi dei responsabili di questo.
E so perché questo sapere non germoglia.
Io dico che senza saperlo voi tutti tenete i rapporti più stretti
con le abitudini più turpi.
Il vostro piccolo potere quotidiano vi rende ciechi.
Voi vedete, ma non vi accorgete più in quale sciagura vi trovate,
come vivete, insieme a chi abitate.
Ma se un giorno un brandello di verità venisse ripetuto nei templi,
nelle assemblee, nelle piazze davanti a tutti come ora: allora sentite
qual'è la profezia.
La verità diventerà catastrofe, inarrestabile risalirà
la china fino ad altezze vietate, a nomi impronunciabili.
In quel momento roderà le fondamenta dello stato.
E cadrà il re.
Esplode il suono delle troccole, e tutto il CORO occupa l'intera collina,
eseguendo la "DANZA DELLA TERRA". Alla fine si blocca in una
posizione di attesa, guardando Edipo, che riprende la parola per la sua
ultima battuta.
EDIPO
Hai parlato, indovino, e ti ho sentito.
Hai parlato per mio ordine, e ho ascoltato.
Ora ascoltate voi.
Due strade rimangono a un uomo, e a un re che governa il suo stato, a questo
punto.
La prima è la strada del re.
Non crederò una sola parola di quanto abbiamo sentito.
Ritorcerò l'accusa sull'accusatore.
Mi stupirò, con formule rituali, che tutto salti fuori proprio adesso.
Denuncerò un complotto, contro di me e il mio regno.
Denuncerò questo cieco ciarlatore, ordinerò alle mie guardie
di sorvegliare i giudici, i templi, le piazze: ovunque possa annidarsi
uno che indaghi, quello sarà nemico dello stato.
Il regno vivrà nella peste, ma vivrà.
La seconda è la strada dell'uomo.
E' quella che io comunque prenderò.
Crederò alla verità del veggente, che ha visto ed ha parlato,
come deve.
Da lì m'incamminerò, e andrò avanti, senza fermarmi
più davanti a nulla.
I vostri morti avranno sepoltura. Faremo i nomi dei loro assassini. La
terra fresca della verità coprirà finalmente i loro corpi.
Poi si leverà il vento, e il contagio della peste svanirà.
Ma avete sentito l'indovino.
Noi scopriremo insieme cose atroci.
Se Edipo apre l'istruttoria contro Edipo, se è lo stato che smaschera
lo stato, non è Edipo, è lo stato che crolla.
O quella parte di stato che fu sua. Che non è poca, vi assicuro,
non è poca.
Io sono pronto.
Voi siete pronti a questo?
Lo stato verrà guarito, e crollerà.
O gli sarà amputata parte grande del corpo.
Credete che la parte restante sia capace, ora, di ricreare un nuovo corpo?
Credete che questo corpo sarà sano?
Avete le pietre, gli uomini, il progetto, necessari a riedificare una città?
Li avete ORA?
La domanda cade in un lungo silenzio, il CORO è impietrito. Esplode
improvviso il fragore delle TROCCOLE: il CORO si scuote e riprende, più
violenta, la DANZA DELLA TERRA, fino a bloccarsi nell'ultima posizione
"accucciata".
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Terzo Quadro: ANTIGONE
Otto lentissimi colpi di un tamburo di legno scandiscono il tempo,
mentre tre seguipersona cercano ANTIGONE VECCHIA tra la folla, sul sagrato
di San Petronio. Le DONNE DELLA TERRA si levano dal CORO, attraversano
la collina, discendono, aprono la folla, le vanno incontro. Intanto tutti
i cento attori si stendono sulla terra, per tutta la superficie della collina:
è il TAPPETO DEI MORTI.
Mentre i CORNI eseguono il TEMA DI ANTIGONE, il gruppo delle DONNE guida
e sostiene la vecchia che sale lentamente la collina, offrendole la terra
nei grembiali perché la sparga sui morti. Poi cadono a loro volta
e ANTIGONE, camminando sui morti, raggiunge da sola il suo sito, sul bordo
della collina che guarda Palazzo Re Enzo, vicino al tumulo che le stesse
DONNE DELLA TERRA avevano costruito per lei dall'inizio. Lì parla.
ANTIGONE VECCHIA
Negli anni della mia vita, le vittime innocenti
hanno coperto di corpi i continenti.
E potrei farvi piangere, saprei farvi gridare,
ma non serve al difficile lavoro che abbiamo da fare.
Non è di vinti, non è di vincitori:
è solo lavoro nostro trasformare
questa terra devastata
in giardino di nomi e di memoria.
Io, Antigone, quando ero ragazza principessa,
ho trasgredito la legge dello stato.
Il re vietava di seppellire mio fratello,
Polinice, che fosse lasciato in pasto ai cani.
Andai di notte nel campo di battaglia,
e sparsi sul quel corpo derelitto
il mio primo pugno di terra.
Soltanto questo: e poi fui messa a morte.
Ma il mio compito ormai era stato scritto,
incancellabile sulla terra, e nessun re,
nessun re mi poteva più fermare.
Sono morta e rinata molte volte, da quei giorni lontani.
Ho camminato i sette angoli del mondo.
Sono stata dovunque ci sia un morto insepolto,
e dovunque ci sia un re che dice: sia dato ai cani.
Dovunque di quel morire non sia detta
intera la verità.
Gridiamo: "amore!",
gridiamo forte: "amore!",
che risuoni come un tuono nelle orecchie!
C'è un ragazzo, un candido morto appassionato,
che vive dentro quel grido.
Ho camminato le terre del mondo: ancora mali,
antichi mali, moltitudine di mali sconfinata.
Morti incessanti che galleggiano sui fiumi.
Mi apparivano tutti in trasparenza.
Non c'era oblio, non c'era lapide o menzogna
che potesse nasconderli ai miei occhi.
Loro, qui con noi,
qui,
che sognano, che guardano qui,
che aspettano.
Hanno pazienza, i morti.
Questo non è tempo dei vivi,
questo è il tempo del tempo,
eternità del tempo.
Tempo dei morti in cammino per tutte le strade,
per i sentieri dei campi, per i deserti.
Ognuno a cercare una casa, un familiare, un amico,
ognuno a cercare la bandiera
in cui aveva creduto.
I morti non sono morti,
e i vivi non sono vivi.
Non ci sono che uccisi e assassini.
Non un metro solo di terra
che non porti l'impronta di una vittima,
la sagoma nera di uno caduto sotto la clava
o schiacciato come un cane sull'asfalto,
e le montagne sono pietrificate,
e la polvere è cenere, dovunque.
Che non si alzi il vento,
che non si alzi il vento, uomini!
Perchè avrete nella gola la cenere
dei vostri uccisi.
Quarto quadro: IL
GIARDINO DEI NOMI
Lentamente, dai morti immobili si leva un canto, un bordone d'una
sola nota, che inizia bassissimo e prende forza. Venti donne (il gruppo
delle CANTANTI) si levano al centro della collina, si dispongono in cerchio
fronte al pubblico, e intonano un potente canto a voci spiegate (il "CANTO
BULGARO").
E lentissimi, allora, tutti i cento attori si alzano e scendono alla base
della collina. Lì ciascuno prende un rametto, su cui è confitta
una foglia di carta, che reca il nome di un morto (i duecento morti delle
cinque stragi ripetuti in cinquemila foglie). Tornano sulla collina e piantano
il loro ramo, ripetendo l'azione più volte, e senza mai interrompere
il bordone.
Solo le donne CANTANTI stanno ferme al centro, continuando il CANTO BULGARO.
Venti attori sollevano l'Albero Secco, che giaceva dall'inizio alla base
della collina: lo trasportano per tutta la terra, e lo piantano nel sito
di ANTIGONE VECCHIA (che intanto, accompagnata da una DONNA DELLA TERRA,
è uscita).
Gli altri attori scendono tra gli spettatori, porgendo loro altri rami.
Le donne CANTANTI escono, mentre un VIOLINO intona la melodia del CANTO
FINALE. II pubblico invade la scena.
Parte prima: LE DIECI PIAZZE
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