Bruno Tognolini
ATTACCHINO
Un racconto illustrato da GIANNI DE CONNO
CARLO GALLUCCI EDITORE, novembre 2013
Formato: 24,5 x 33,5 cm. Cartonato. Foliazione: 46 pagg. Isbn: 9788861456129. Prezzo: 22 €.



 PRESENTAZIONI
  • Due quarte di copertina
  • Un racconto lontano negli anni
  • Gianni De Conno



  •  RECENSIONI
  • Segnalazione su L'UNITÀ del 02/12/13
  • Segnalazione su Tuttolibri/LA STAMPA del 07/12/13 (qui la pagina intera)
  • Recensione sul blog LIBRI E MARMELLATA del 09/12/13
  • Segnalazione su La lettura/CORRIERE DELLA SERA del 22/12/13
  • Segnalazione su Popotus/L'AVVENIRE del 04/02/14



  •  ANTEPRIMA
  • LA VERSIONE E-BOOK DA SFOGLIARE (prime 5 pagine)
  •      E altre quattro tavole:
  • Tavola 4: "Ma dove sei? Come potrò chiamarti?"
  • Tavola 7: "Nel salone degli attacchini del comune"
  • Tavola 9: "Quella giornata fecero cose straordinarie"
  • Tavola 13: "Guardando incantati sui muri"



  • Qui la copertina intera, con bio autori, prezzo etc.


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    Due quarte di copertina

    Ecco quella ufficiale, pubblicata nel libro. No, no, no... Non possono continuare a dirgli di no a tutto!
    Il ragazzino, avvilito dalle rinunce, scappa di casa. E ora è lì, perduto chissà dove nella grande città.
    Il padre non si dà pace, guarda dalla finestra nella notte. Come posso trovarti? Dove sei?
    Trovarlo forse non può, ma può cospargere la città di tracce, frecce segrete per orientare i suoi passi verso casa, briciole di Pollicino.
    E che briciole saranno, se il padre è un attacchino?

    Ed eccone un'altra possibile, meno piana e accattivante, che infatti propongo solo qui nel sito. Un attacchino, per trovare e ricondurre a casa suo figlio fuggiasco, trasfigura la città, le cambia la faccia. E non lo fa introducendo elementi nuovi ed estranei, ma smontando e ricombinando, con la sua arte-mestiere, i materiali visivi propri del suo arredo urbano.
    Non dovrebbe fare così ogni genitore, con la realtà? Col mondo umano da consegnare ai figli?
    Non un mondo troppo reale, così com'è e basta; non un mondo troppo fiabesco, come non sarà mai: ma un mondo diverso possibile, una realtà risognata di bel nuovo, smontando con le mani della critica e ricombinando con quelle dell'utopia la città data, la vita com'è. Rifatta nuova coi suoi stessi pezzi.

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    Un racconto lontano negli anni


    I libri hanno pazienza

    Quando un piccolo lettore mi porta da firmare un mio libro che mi pare ecceda la sua età, non manco mai di scrivergli nella dedica: "Non preoccuparti se ti fermi e lo lasci lì. I libri hanno pazienza...".
    Hanno pazienza, lunga e a volta infinita. Stanno lì attendere di essere letti, e prima ancora, di essere pubblicati, e prima ancora, di essere scritti. Sanno attendere a lungo, talvolta per sempre.
    I due romanzi Lilim del tramonto e Lunamoonda hanno atteso per dieci anni ciascuno, da quando ho steso la sinossi e il primo capitolo a quando li ho ripresi in mano e scritti per intero. Altri libri che ho immaginato (Borges direbbe "presagito"), dovranno probabilmente aspettare per sempre d'essere scritti. Questo racconto, scritto nel 1994, ha atteso d'essere pubblicato per vent'anni.


    Tre racconti sulla pubblicità

    Eccolo qua, presentato in un'antica pagina di questo sito, fra i "Tre racconti sulla pubblicità" scritti per l'agenzia pubblicitaria di un amico, che quell'anno voleva affrontare in modo diverso l'annuale campagna di auto-promozione.
    Io non amo la pubblicità, al contrario. Per fortuna non è questo il luogo di parlarne, così posso risparmiare al lettore e a me stesso un'incresciosa antistorica catilinaria. Ma ero affezionato a quell'amico, orgoglioso del compito, ansioso di misurarmi in ogni impresa: così mi son cimentato nella ricerca alchemica di ciò che c'è di buono nella pubblicità. Di potenzialmente buono. Di redimibile. Ho articolato questa ricerca nei tre racconti linkati qui sopra. Son stati pubblicati in uno strano fascicolo con legatura a spirale, di cui credo sia rimasta una copia solo a me.
    L'ATTACCHINO era il più riuscito dei tre. Lo tenevo d'occhio, era una forma di vita latente in attesa quieta, accucciata in una plaga lontana di questo sito, la tana dei Racconti d'occasione. È arrivata la sua stagione e l'ho svegliato.


    Che senso ha riesumare testi scritti vent'anni prima?

    Alcune opere non vengono pubblicate non perché non valgano, ma perché il loro autore non è noto. E viceversa: altre opere vengono pubblicate non perché valgano, ma perché il loro autore è noto. Alcune mie opere aurorali non hanno trovato la stagione propizia per una pubblicazione vera e propria. Io stesso non l'ho cercata: li sentivo come cimenti degli inizi, che avevano già del resto fioriture minori. Ora però la stagione è matura, e anche le vecchie oepre vengono pubblicate.
    Se ciò accada perché l'autore è noto, o perché valgono, lo sapranno i lettori.
    Che effetto fa riesumare testi scritti vent'anni prima?

    Fa un effetto molto comune, umano e condiviso: l'effetto del tempo che passa. Come guardare le proprie foto da giovani: forse le scritture son davvero estensioni corporee.
    Le conclusioni del confronto col passato in questo caso sono sincere e semplici: io non saprei più scrivere oggi cose così. Ma scrivo altre cose che allora non avrei saputo.
    Bilanci? Meglio o peggio? Ognuno nella vita tragga i suoi: quanto all'arte, i lettori lo diranno. Su una villa signorile nei colli bolognesi leggevo sempre, nelle mie passeggiate, questo bel motto: "Vàssene il tempo e il tuo valor misura"...
    E allora, se sopra ci chiedevamo "che senso ha", possiamo dire: far fiorire testi nati da virtù passate e forse perdute, che oggi non sarebbero più in grado di generare forme simili, non ha forse ancora più senso? Non è un atto di salvifica parsimonia, di anti-entropia?

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    Gianni De Conno
    Bella sfida per un illustratore

    Questo poi è un racconto speciale: una storia che non solo contiene in sé un fiume visivo, ma che narra propriamente di visione e figurazione. Un attacchino, per trovare e ricondurre a casa suo figlio, trasfigura la città, ne cambia la superficie visiva. E non lo fa introducendo elementi figurali nuovi ed estranei al suo arredo urbano, ma frantumando e ricombinando, con la sua arte-mestiere, quelli abituali e quotidiani. Proprio quelli che fanno della città, secondo alcuni, un inferno di stimolazione visiva continua a unico e ossessivo scopo commerciale: la pubblicità.
    Trasformare la città in un unico affresco, un colossale collage, usando la sua medesima tavolozza?
    Non era forse una bella sfida per un illustratore?


    Uno scrittore asino d'arte

    Con la lusinga di questa sfida speravo di attrarre nell'impresa qualche grande illustratore dei miei sogni. Per esempio Gianni De Conno.
    E perché lui? Perché mi piace, lo apprezzo e lo comprendo.
    La mia cultura e la mia sensibilità son di matrice letteraria, e in seconda battuta musicale (seconda, ma come la battuta delle mani nell'applauso). Antiche e irredente lacune mi rendono, temo ormai per sempre, un fiero asino in tutto ciò che è arte e figurazione. Come si dice degli alunni, "mi mancano le basi". Ho sostenuto lunghe e affettuosissime dissertazioni con Antonella Abbatiello sulla forza e leggibilità delle forme, quando siano ricondotte alla loro essenza figurale archetipica, o ad altre dimensioni concettuali. Qualcosa scorgo, ogni tanto, qualche barlume: ho compreso e apprezzato le visioni di Antonella nei nostri due amati Maremè e Farfalla; ho faticato di più sul nostro Alfabeto delle fiabe, le cui tavole, che estasiavano gli esperti Topipittori, permangono per me asino d'arte, se non mute, abbastanza indecifrabili.
    Comprendo e amo, invece, l'illustrazione di tipo "realistico" (si chiama così?). Quella che, per intenderci, rispecchiando e rispettando le forme del mondo come le vede il mio occhio, col governo delle luci, la pasta dell'aria, la sceneggiatura degli atti, la postura dei corpi, le direzioni degli sguardi, i dettagli dei dintorni, e altro d'impalpabile che a me sfugge, narra e disegna l'emozione di chi guarda.
    Ecco: nell'ambito di questo stile di figurazione, mi incantava il realismo onirico di Gianni De Conno.


    Carlo Gallucci merita una lode

    Carlo Gallucci, a questo punto, merita una sincera benché partigiana lode: mi ha "accontentato".
    Beninteso, non era un sacrificio: con De Conno gli stavo proponendo una delle poche star internazionali fra gli illustratori italiani. Ma l'ha fatto, rinunciando all'orgogliosa facoltà dell'editore di scegliere la "mano giusta" per il libro. Chiedendosi con me se la mano giusta fosse quella, curioso come me di cosa sarebbe diventata la rutilante città creata dal mio Attacchino sotto lo sguardo onirico e remoto di De Conno, Gallucci ha accolto l'idea.
    Ho scritto io a Gianni, era giusto che in prima voce gli dicessi quello che era, prima che un progetto editoriale di Carlo Gallucci, un mio antico sogno. Gli ho spedito il racconto. Gli è piaciuto, ha accettato, ci siamo messi al lavoro. Entrambi, perché un lavoro, nonostante avessi finito di scrivere vent'anni prima, è stato chiesto anche a me.
    Pittore ti voglio parlare

    Qui lo racconterò in breve, perché nel dettaglio – con esempi, illustrazioni, stralci di e-mail e dialoghi al telefono, etc. – andrà ad arricchire la masterclass "PITTORE TI VOGLIO PARLARE", che tratta appunto del rapporto fra scrittore e illustratore, narrato nell'esperienza di tre casi: Pia Valentinis (Mamma Lingua), Antonella Abbatiello (Maremè e Farfalla), Gek Tessaro (Manifesti); e ora appunto quattro: Gianni De Conno.
    Ho cominciato io questo lavoro, sceneggiando provvisoriamente il racconto. Dividendolo cioè in blocchetti che, per quantità di testo e unità d'azione e luogo e senso, potessero essere associati ciascuno a una tavola.
    È seguita la definizione con l'editore del formato e del numero di tavole. E poiché erano meno di quelle previste dalla mia partitura, è seguito l'accorpamento di un bel numero di blocchetti di testo.


    Backstage

    Qui De Conno mi ha posto il problema.
    Una parte centrale del testo, che non si troverà nel libro perché non c'è più (e qui si può leggere quindi come documento filologico raro!), recitava così:

    Giovanni guardò.
    C'era Disneyland, coi mondi avventurosi, castelli e giungle, oceani e tombe, gli eroi giganti, i canyon finti, i personaggi che lui ben conosceva della terra del mare e dello spazio.
    E lui, Giovanni Colla, in mezzo a loro.
    Si riconobbe in un bambino sorridente che guardava con le mani sulla nuca. E pensò al pic-colo scalcinato Luna Park vicino a casa, dove pure non gli davano mai il permesso d'andare.
    C'era un parco d'alta montagna, con orsi e cervi e castori, e torrenti sonori, e cime d'alberi che ondeggiavano nel vento.
    E lui, Giovanni Colla, che mirava contento coi binocoli professionali, vestito da sopravvivenza in luoghi ostili. E pensò a quante volte aveva chiesto di passare mezza domenica nella pineta a venti chilometri da casa: e niente.
    C'era uno stadio mundiàl di chissà che città, con una partita in corso, primo tempo.
    E Giovanni, che oramai aveva capito, si cercò e si trovò tra i giocatori. Ma, cosa ancora più strana, negli spalti gremiti chissà come riuscì a vedere fra la folla... la sua mamma! Proprio lei che non s'era mai sognata di schiodarsi per andare a vederlo giocare. E invece ora era lì, con la faccia commossa agitata, che faceva il tifo per lui.
    Guardava rapito quei muri con gli altri passanti. Rapito più degli altri, si direbbe, visto che ormai aveva capito quell'affresco: erano i sogni suoi, i suoi desideri mancati, mai e mai diventati realtà.
    E ora guardali lì, incollati dipinti sui muri della sua città.
    C'era la volta che voleva andare in gita con la scuola: ed ecco un pullman che viaggia nel paesaggio.
    C'era quel film d'amore in TV che l'aveva commosso: ed ecco lui con l'amica Simona sotto il cielo al tramonto.
    C'erano tutti i suoi amici e i suoi compagni in bellissime situazioni avventurose.

    C'era anche qualche buffa imperfezione, dettagli estranei che spuntavano qua e là: un collo di bottiglia in cielo, un culo di salame in mare, qualche pezzo di parola sparso intorno.
    Ma tranne quelli, non c'era scritto niente!

    Sulla parte che qui si legge in rosso De Conno, in una mail del 3 aprile 2013, mi diceva così.
    Una mia personale considerazione su questi tre paragrafi: sono molto descritti, con situazioni e luoghi, con nomi e riferimenti precisi. Questo potrebbe creare un'incongruenza tra il testo e le illustrazioni, considerando che probabilmente non farò esattamente i luoghi citati (vedi Disneyland) né i personaggi, ma qualcosa che ricordi le sensazioni di quei luoghi (o almeno ci proverò).

    Conosco e approvo la baldanza di libertà degli illustratori, che non si sentono tenuti a disegnare pedissequamente tutto ciò che dice il testo (secondo me, però, nemmeno sempre e per forza tutt'altro...). Ma Gianni aveva ragione: c'era davvero il rischio che, delle tante cose e casi e luoghi che il testo indicava al lettore, il lettore non ne vedesse neanche una.
    Ci ho pensato, ripensato, e infine ho risolto: ho tagliato via in un colpo solo quel profluvio di visioni scritte, contando che altre visioni figurate le avrebbero sostituite degnamente.
    Il testo si è rattrappito così.

    Giovanni guardò.
    Quei muri erano tappezzati dei suoi sogni, dei suoi desideri.
    Quei desideri che non si avveravano mai.
    Anzi, più grandi! Più ricchi e splendidi di quanto lui li avesse sognati.
    C'erano stadi, boschi, cinema, luna park.
    C'erano amici, amori, gite, avventure, vittorie.
    E c'era lui, Giovanni Colla, nei suoi sogni. Finalmente lì, dentro di loro.

    C'era anche qualche buffa imperfezione, dettagli estranei che spuntavano qua e là: un collo di bottiglia in cielo, un culo di salame in mare, qualche pezzo di parola sparso intorno.
    Ma tranne quelli, non c'era scritto niente!

    Un taglio di ben 1400 battute! Di cui mi consolavo dicendomi che questa edizione "illustrata" del racconto non cancellerà del tutto la sua versione "letteraria", che sopravvive nei miei cassetti e qui nel sito, fra i Racconti d'Occasione. Una convinta necessaria amputazione, che delle visioni di Giovanni salvava uno scarno elenco di luoghi ("stadi, boschi, cinema, luna park") e di atti ("amici, amori, gite, avventure, vittorie"), rinunciando ai prodighi esempi.
    Non sapevo se De Conno avrebbe mostrato o no, nelle sue tavole, qualcosa di quei luoghi e di quegli atti, nel testo ormai solo elencati: era compito e lavoro suo.
    Io ciò che potevo fare l'avevo fatto, sfrondando quelle descrizioni dai troppi dettagli. Ma non potevo cambiarne il contenuto. Giovanni sognava quelle cose, non altre, bisognava dirlo: sognava "stadi, boschi, cinema, luna park", non (per esempio) "soldi, griffe, cellulari e ragazze", quella sarebbe stata un'altra storia!
    Ma alle corte, avevo capito il nocciolo pragmatico del problema: quando si lavora con un illustratore, soprattutto con uno di rango, meno dettagli visivi sono nel testo, minore è il rischio di stridore e divergenza con le immagini.


    Qualcosa di più della somma dei due

    E qui basta, o eccederò le misure di questo sito, il suo compito di presentare i nuovi libri, e sconfinerò nelle argomentazioni della "lectio" di cui sopra. Sarà quella l'occasione in cui analizzare profusamente, e con esempi, come De Conno abbia operato: se e come abbia mostrato con le immagini le cose che avevano rinunciato a dire le parole. O se abbia mostrato, forse meglio, non tanto quelle cose, quanto altre che risarciscono e arricchiscono in altri modi più misteriosi ciò che dal testo manca. E soprattutto – poiché ciò che in un testo manca, se non nelle note dei filologi, non è mai esistito – se abbia mostrato altre cose che espandono e arricchiscono ciò che nel testo c'è.
    È questo il compito e il mistero del lavoro concertato fra artisti – regista e sceneggiatore, compositore e librettista, autore e illustratore: due linee di linguaggio, due fili del discorso che proprio perché autonomi e irriducibili, possono talora stridere o annullarsi a vicenda: ma talaltra, quando funziona, possono intrecciarsi in armonia, generando un misterioso e nuovo Corpo Terzo (così lo chiamavamo nel teatro, trentacinque anni fa), che è sempre qualcosa di più della somma dei due.
    Questo spero che l'ATTACCHINO sia. Io ormai, con lo sguardo d'autore imbambolato, non posso più dirlo, né è mio compito: lo diranno, nei loro modi, i lettori.



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    Questa pagina è stata creata il 13 novembre 2013 e aggiornata l'ultima volta il 10 febbraio 2014


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