Laboratorio Teatro Settimo
AB ORIGINE: LUOGHI PER DURA MADRE MEDITERRANEA
TESTI TEATRALI
I principali testi e materiali letterari elaborati nel corso
del laboratorio
a cura di Bruno Tognolini
FOSCA
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Versione
Seconda
Versione
Terza
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Dura Madre Mediterranea
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Prima versione
"LA NOTTE IN CUI MORI' MIA MADRE"
Questa prima versione, come quella di Demetra tratta da "Eva
Luna" di Allende, non pareva funzionare. Altre ne vennero a lungo
e con fatica sperimentate, prima che si tornasse a questa.
La notte in cui morì mia madre mio padre il Colonnello si chiuse
dentro con lei. Da molto tempo non si parlavano, e divisero quelle ultime
ore riposando nell'acqua quieta della seta azzurra: così lei chiamava
il suo letto. Ne approfittò per dirle tutto quello che non aveva
mai potuto dirle prima, tutto quello che si era trattenuto dal dirle, dopo
la terribile notte in cui l'aveva picchiata. Le tolse la camicia da notte
e la scrutò con attenzione, cercando qualche traccia di malattia
che potesse giustificare la sua morte e, non trovandola, seppe che aveva
semplicemente terminato la sua missione su questa terra ed era volata in
un'altra dimensione, dove il suo spirito, finalmente libero dalla zavorra
materiale, si trovava più a suo agio. Non c'era alcuna deformità
né altra cosa terribile nella sua morte. La scrutò a lungo,
perché per molto tempo non aveva avuto occasione di osservarla così
a suo agio, e durante quel tempo mia madre era cambiata, come succede a
tutti col passare degli anni. Gli sembrò bella come sempre. Era
dimagrita, e credette che fosse cresciuta, che fosse più alta, ma
poi comprese che era un effetto illusorio prodotto dal suo stesso rattrappimento.
Prima si sentiva come un gigante al suo fianco, ma stendendosi accanto
a lei nel letto notò che erano quasi della stessa statura. Aveva
il suo cespuglio di capelli ricci e ribelli che lo avevano affascinato
quando si erano sposati, raddolciti da alcune ciocche bianche che illuminavano
il suo volto addormentato. Era molto pallida, con ombre intorno agli occhi,
e notò per la prima volta che aveva certe piccole rughe molto sottili
ai lati delle labbra e sulla fronte. Sembrava una bambina. Era fredda,
ma era la donna dolce di sempre, e poté parlarle tranquillamente,
accarezzarla, dormire un momento quando il sonno vinse il dolore, senza
che il fatto irrimediabile della sua morte alterasse il loro incontro.
Finalmente si erano riconciliati.
Il Colonnello si buttò a terra gridando
senza alcun ritegno. Lacrime salate gli devastavano le guance. Capelli
strappati a manciate volavano via come fiocchi. Il suo nome segreto non
l'avrebbe mai più saputo.
Prima Versione di FOSCA
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Seconda versione
"RICHIAMI"
Questa seconda versione, verosimilmente, è frutto
dell'improvvisazione dell'attrice orientata dal regista. Non escludo vi
siano state fonti letterarie, ma le ignoro.
E' grave.
E' grave non ricordarsi le parole.
Perché se uno non si ricorda le parole,
le parole spariscono.
Via... scomparse.
E allora, se spariscono le parole,
poi spariscono anche le cose.
Si allontanano, via, e ci lasciano qui.
Qui, soli.
Senti, senti i gabbiani.
Quelli si ricordano cosa devono dire.
Si chiamano, senti come si chiamano.
Uno chiama e gli altri rispondono.
Anche le parole, sono come richiami.
Per questo bisogna ricordarle.
Non servono mica per spiegare.
Servono per chiamare qualcosa,
perché resti con noi.
E quello che noi dobbiamo fare è chiamare le cose.
Chiamarle perché vengano qui, con i loro racconti.
Perché non ci lascino soli.
Dài, Fosca.
Chiama.
Chiama i fratelli perché è ora di mangiare.
Chiama il tuo nome.
Fosca.
Chiama le cose,
perché non ci lascino soli,
perché rimangano con noi,
fino alla fine.
Prima Versione di FOSCA
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Terza versione
"E' GRAVE NON RICORDARE"
Questa terza versione è stata da me proposta ad attrice
e regista, ma senza esito.
Fosca. Fosca. Fosca.
I nomi non sono simboli arbitrari.
Questo fumo, questa nebbia, quest'aria opaca,
dove io abito,
questa giornata che non si rischiara mai.
E questi anni nebbiosi, dove io ho corso a capofitto, come una sonnambula,
come un'unica giornata, così fosca.
Questi anni con poche parole, faticose.
Le parole sono così difficili da prendere, e da tenere strette nelle
mani. Attenta Fosca, ascolta. Io ascolto, io capisco, io conservo le parole,
poi io le cerco, per ricordare, per dire, ma se le cerco non le vedo più,
non le prendo più, si sono nascoste nella nebbia, nella fatica.
Tutte le volte è una fatica. Per dire buongiorno è una fatica,
per dire come stai è una fatica, per dire A, albero, B, buio, C,
casa, D, deserto, E, erba... E' grave non ricordare.
Angeli, milioni di angeli che sbattono le ali, e la nebbia scompare, io
li ho sognati. Li ho sognati tante volte, tutte le volte che ho sognato,
uno... l'ho visto.
Parlava, e i suoi occhi guardavano da un'altra parte, vicini ai miei, ma
sempre un po' più in là, la guancia, i capelli, il naso.
Forse un filo di paglia sul colletto.
Parlava, e sembrava che non aspettasse mai una risposta, che non volesse
dirmi niente, che non volesse farmi capire, che non volesse nemmeno parlare
veramente. Che stesse solamente respirando.
Ma nelle sue parole c'era il sole, e la nebbia scompare, e all'improvviso
le cose sono lì, chiare spaccate: A, alberi! B, buio! C, case! Deserti,
erba! Ingegno... curiosità... affetto, affetto.
In quei giorni nemmeno io dormivo mai, anch'io ero sveglia. Le parole dell'angelo
mi facevano ricordare di tutto, tutte le cose che avevo visto, che m'erano
capitate, me le ricordavo, come se finalmente fossero mie le mie notti,
le mie feste, i pianti, le cene, le nuvole, i gatti, i fiumi, le stanze
e il firmamento. Angelo della memoria, resta qui.
Angeli e corvi portano la sventura. Quell'angelo parlava troppo in fretta,
non aspettava nessuna risposta, e quando ebbe finito se ne andò.
Con quella carezza di conforto, di sconforto, se ne andò.
Ed io dimenticai di nuovo tutto, tornò la nebbia, le parole scapparono,
ognuna diventò di nuovo una fatica, e ora io dormo.
Quell'angelo non ritornò mai più, ma io l'aspetto, come aspetto
il Colonnello... e anche di più.
Perché è grave vivere così come nel sonno.
E' grave dimenticare le parole.
Perché se noi dimentichiamo le parole, le parole spariscono,
si allontanano via, nella nebbia.
E allora, se spariscono le parole,
spariscono anche le cose.
Si allontanano anche loro nella nebbia, e ci lasciano soli.
Le parole non sono simboli arbitrari, ma sono i nomi delle cose.
Ed i nomi sono fatti per chiamare,
per chiamare le cose,
perché vengano qui, con i loro racconti,
perché non vadano via,
e non ci lascino soli nella nebbia.
Dài, Fosca.
Chiama.
Chiama i fratelli perché è ora di mangiare.
Chiama il tuo nome.
Fosca.
Chiama le cose,
perché rimangano con noi,
fino alla fine.
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FOSCA
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