Laboratorio Teatro Settimo
AB ORIGINE: LUOGHI PER DURA MADRE MEDITERRANEA
TESTI TEATRALI
I principali testi e materiali letterari
elaborati nel corso del
laboratorio teatrale "DURA MADRE MEDITERRANEA"
a cura di Bruno Tognolini
Indice
dei TESTI
Prima
Versione di DEMETRA
Seconda
Versione di DEMETRA
Indice
di Dura Madre Mediterranea
Indice
del Saggio
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Scrivere un testo del tutto "nuovo" e copiare del tutto
un testo altrui sono due estremi astratti (e due obiettivi insensati),
tra i quali si sgranano una quantità di sfumature. Nel teatro, come
nel disegno, queste sfumature vengono felicemente utilizzate per restituire
profondità e prospettiva al tema e ai personaggi.
Nel lavoro teatrale di "Dura Madre" la drammaturgia condivisa ha macinato felicemente testi drammatici e letterari di provenienza molteplice, come è meglio spiegato nel Saggio. Tratti da letture care agli attori, o proposti dal regista o da altri, queste materie prime venivano rimaneggiate a più riprese da attori, regista e drammaturghi.
Un testo solo, tra i molti che seguono, posso dire di avere scritto io: è il monologo di Gaia. E se in esso saltellano righe altrui che non ammetto, in molti altri saltellano righe mie che non rivendico.
Delle fonti originali e dei progressivi rimaneggiamenti, infatti,
renderò conto solo per cenni e nei casi che ricordo (non posso né
vorrei condurre ricerche più rigorose). Per ogni personaggio sceglierò
uno o pochi testi, i più significativi o gli ultimi elaborati. Ecco
l'indice.
INDICE
DEMETRA
"IO MI CHIAMO DEMETRA"
Laura Curino, che è autrice di questo fortunato
monologo, lo ha tratto a lungo e in largo da Eva Luna, di Isabel Allende.
Alla seconda versione, riambientata in Sicilia, abbiamo
lavorato insieme.
Prima versione
(... disse allora a Sheherazade: "Sorella, Allah sia con
te, raccontaci una storia che ci faccia trascorrere la notte...")
Io mi chiamo Demetra, che vuol dire terra, secondo un libro che mia madre consultò per scegliermi un nome. Sono nata nell'ultima stanza di una casa buia e sono cresciuta fra mobili antichi, libri in latino e mummie, ma questo non mi ha resa malinconica, perché sono venuta al mondo con un soffio di foresta nella memoria. Mia madre aveva trascorso l'infanzia in un'isola addormentata del mediterraneo, in mezzo al profumo delle mimose, all'odore delle cozze, sotto un cielo chiarissimo e vuoto, solcato dal rumore delle onde, che non dormono mai.
Quel paesaggio aveva lasciato in lei una traccia che in qualche modo riuscì a trasmettermi.
I monaci raccolsero mia madre quando non sapeva ancora camminare. Era arrivata sgattaiolando lungo il ponte dell'imbarcadero come un minuscolo Giona vomitato dal ventre di una balena d'acqua bassa. Mentre la lavavano, constatarono senza ombra di dubbio che era femmina, cosa che provocò una certa confusione; ma ormai c'era, e non si poteva buttarla nel mare. Così le misero un pannolino per nasconderle le vergogne, le spremettero qualche goccia di limone negli occhi, per curarle l'infezione che le impediva di aprirli, e la battezzarono col primo nome che venne loro in mente: Benedetta (Bene-detta, i nomi non sono simboli arbitrari).
Mia madre raccontava di essere figlia di un navigatore maltese che l'aveva abbandonata su una scialuppa alla deriva, ma non sapeva nulla delle sue origini, e quando chiese quale dei monaci era suo padre, le fu risposto con uno schiaffone. Mia madre crebbe senza un ruolo fisso nella severa gerarchia del monastero: doveva solo aiutare nelle faccende domestiche, assistere ai servizi religiosi, qualche lezione di lettura, aritmetica e catechismo, poi era libera di scorrazzare tra i limoni, con la mente piena dei racconti di terraferma e di miti d'oltremare. Aveva dodici anni quando conobbe l'uomo dei tonni, che affascinato dalla sua bellezza la portò con sé in cerca di oro. Nella ventresca dei tonni macellati, fra schizzi di sangue nel sole, trovarono quella volta soltanto una conchiglia, che lui le regalò. Mia madre tornò al monastero sporca di sale, di sangue, di felicità. I monaci decisero che era il momento di mandarla in città.
Durante il viaggio mia madre pianse tutte le sue lacrime, così che non glie ne rimase neppure una per le tristezze future. Quello che videro i suoi occhi attraversando quella terra, dove nei secoli erano passate mille genti diverse, lasciandosi dietro colori di occhi, canti, e innumerabili forme di ferocia, le fece perdere per sempre la facoltà di stupirsi. Imparò la pazienza, e cominciò a costruire quel patrimonio di leggende che fu poi il suo destino.
Quando arrivò alla casa, che sorgeva decrepita ma ancora splendida, non la spaventarono le statue deformi del giardino, ma l'aspetto terribile della padrona che le venne incontro con un grembiule da macellaio, sporco di sangue. Ma non poté fare a meno di notare che era bella come una vergine bizantina.
"Come ti chiami?" - "Beatrice". "Quando sei nata?" - "L'anno della cometa". Già allora mia madre suppliva con circonlocuzioni poetiche alle informazioni che le mancavano. Aveva sentito dire che l'anno della cometa era stato un tempo di terrore e di tregenda. Si credeva che quando la sua coda di fuoco si fosse avvicinata al pianeta, il calore avrebbe arso ogni forma di vita. Taluni si erano suicidati per non morire bruciati; altri avrebbero preferito stordirsi in abboffate, ubriacature e fornicazioni dell'ultima ora. Era stata sedotta all'idea di nascere nel tempo della coda di Satana. Per il momento la padrona le fece legare la sua, di coda di fuoco, ben stretta dietro la nuca.
Il padrone era morto da molto tempo. La padrona aveva consumato quasi tutte le sue sostanze nel tentativo di trovare un rimedio all'oscura malattia che costringeva il suo giovane figlio a vivere rinchiuso nella sua stanza.
Quando tutti i tentativi di curarlo si rivelarono inutili, decise di trovare da sola il rimedio, e dedicò a questo la sua vita. Arrivarono nella casa tutti i libri del mondo, impiantò un laboratorio, e come spesso quando si ricerca non riuscì nel suo scopo, ma ottenne risultati in una branca del tutto laterale: scoprì un sistema per conservare i morti. Come tutte le grandi invenzioni, il metodo era di una semplicità ammirevole, e permetteva di conservare le salme dei morti in odore di santità, in attesa della beatificazione, senza quell'aspetto di uva passa che avrebbe fatto desistere gli eventuali fedeli dall'adorarli. Mia madre trascorse lì il periodo più felice della sua vita. Aveva il compito di comporre le salme, sbloccare le articolazioni, spolverare le mummie e i libri della biblioteca.
Di radio in casa ce n'era una sola, ma era nella camera del malato, e anche i giornali finivano subito lì. Ma di libri ce n'erano tanti, sistemati dalla padrona secondo un ordine imperscrutabile: le tragedie di Shakespeare stavano vicine al capitale, le massime di Confucio si affiancavano alla vita delle foche, le mappe di antichi navigatori riposavano vicino a romanzi gotici, ai libri araldici di famiglia, e alle poesie indiane. Non osò mai chiederli in prestito, e così li prendeva di nascosto, li leggeva di notte, e il giorno dopo li rimetteva a posto. Qui il suo tesoro personale di racconti, nato nel monastero con le sacre scritture e coi racconti del mare e della terra, cresciuto durante il viaggio con i fatti piccoli e grandi degli umani, quel patrimonio maturò.
Mia madre ignorò quasi tutto degli sconvolgimenti, delle catastrofi e dei progressi della sua epoca, ma sapeva tutto della rivoluzione degli studenti. La notte in cui scoppiò, il figlio della padrona scappò come accadeva da qualche tempo: mia madre se n'era accorta, perché stava sveglia a leggere. Quando i suoi compagni, guardandosi alle spalle, lo riportarono sulla porta di casa, dicendo: sta morendo, la padrona disse soltanto: "Portatemelo quando sarà morto". Per la prima volta nella sua vita mia madre disobbedì a un ordine, e prese l'iniziativa. Trascinò il corpo nell'ultima stanza della casa, perché le dispiaceva che quel giovane grande e forte all'apparenza, finisse anche lui fra i santi imbalsamati della madre. Fu tutto inutile: il ragazzo cominciò ad agonizzare, lucido e silenzioso, senza lagnarsi una sola volta.
Beatrice notò che il ragazzo, dimenticando il panico di fronte alla morte, reagiva con entusiasmo quando lei gli massaggiava il corpo gli applicava cataplasmi. Quest'inattesa erezione riuscì a commuovere il suo cuore di vergine matura e quando lui la prese per un braccio e la guardò supplichevole, lei capì che era giunto il momento di dare un senso al suo nome e dargli un po' di beatitudine. Inoltre pensò che se durante i suoi trenta e più anni non aveva mai provato il piacere, perché pensava che fosse cosa per protagonisti del cinema, poteva ben provarlo adesso e offrirne al ragazzo, che sarebbe forse partito più contento per l'altro mondo.
Ho conosciuto così a fondo mia madre, da poter immaginare la cerimonia che segue: mia madre non aveva falsi pudori e rispondeva sempre esattamente a tutte le mie domande, ma quando parlava di quell'incontro, le mancavano le parole e si perdeva nei ricordi.
Si tolse la camicia di cotone, la sottana e le mutande di tela, si sciolse i capelli e vestita del suo più bell'ornamento, montò sopra al moribondo, con grande attenzione, per non disturbarne l'agonia. Non sapeva bene come fare, ma supplì all'esperienza con la buona volontà. Sussurrandogli parole inventate sul momento e asciugandogli il sudore, scivolò fino al punto preciso e cominciò a muoversi con discrezione, come una sposa abituata a fare l'amore con un marito vecchio. Quando lui la rovesciò per abbracciarla, con la premura imposta dalla vicinanza della morte, il breve piacere che provarono entrambi fece tremare le ombre negli angoli.
Così fui concepita io, sul letto di morte di mio padre.
Comunque mio padre non morì, contrariamente ad ogni logica cominciò
a migliorare, gli calò la febbre, gli si normalizzò il respiro,
e chiese da mangiare. Mia madre capì che senza volerlo aveva scoperto
il rimedio alla sua malattia e continuò a somministrarglielo con
tenerezza ed entusiasmo, tutte le volte che lui glielo richiese, finché
non si fu completamente ristabilito. E poi ancora per anni, e nacque Esteban,
e nacque Fosca, e nacque Gea. E mia madre morì, e mio padre partì.
Io ho ereditato da mio padre il destino bizzarro di avere un compito nella
vita, e da mia madre la vita.
Prima Versione di DEMETRA
Indice di Dura Madre Mediterranea
Indice dei TESTI
Indice del SAGGIO
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Seconda versione
(... disse allora a Sheherazade: "Sorella, Allah sia con
te, raccontaci una storia che ci faccia trascorrere la notte...")
Io mi chiamo Demetra, che vuol dire terra, secondo un libro che mia madre
consultò per scegliermi un nome. Sono nata nell'ultima stanza di
una casa buia e sono cresciuta fra mobili antichi, libri in latino e mummie,
ma questo non mi ha resa malinconica, perché sono venuta al mondo
con un soffio di foresta nella memoria. Mia madre aveva trascorso l'infanzia
in un'isola addormentata del mediterraneo, in mezzo al profumo delle mimose,
all'odore delle cozze, sotto un cielo chiarissimo e vuoto, solcato dal
rumore delle onde, che non dormono mai.
Quel paesaggio aveva lasciato in lei una traccia che in qualche modo riuscì a trasmettermi.
I monaci raccolsero mia madre quando non sapeva ancora camminare. Era arrivata sgattaiolando lungo il ponte dell'imbarcadero come un minuscolo Giona vomitato dal ventre di una balena d'acqua bassa. Mentre la lavavano, constatarono senza ombra di dubbio che era femmina, cosa che provocò una certa confusione; ma ormai c'era, e non si poteva buttarla nel mare. Così le misero un pannolino per nasconderle le vergogne, le spremettero qualche goccia di limone negli occhi, per curarle l'infezione che le impediva di aprirli, e la battezzarono col primo nome che venne loro in mente: Benedetta (Bene-detta, i nomi non sono simboli arbitrari).
Mia madre raccontava di essere figlia di un navigatore maltese che l'aveva abbandonata su una scialuppa alla deriva, ma non sapeva nulla delle sue origini, e quando chiese quale dei monaci era suo padre, le fu risposto con uno schiaffone. Mia madre crebbe senza un ruolo fisso nella severa gerarchia del monastero: doveva solo aiutare nelle faccende domestiche, assistere ai servizi religiosi, qualche lezione di lettura, aritmetica e catechismo, poi era libera di scorrazzare tra i limoni, con la mente piena dei racconti di terraferma e di miti d'oltremare. Aveva dodici anni quando conobbe l'uomo dei tonni, che affascinato dalla sua bellezza la portò con sè in cerca di oro. Nella ventresca dei tonni macellati, fra schizzi di sangue nel sole, trovarono quella volta soltanto una conchiglia di madreperla, che lui le regalò. Mia madre tornò al monastero sporca di sale, di sangue, di felicità. I monaci decisero che era il momento di mandarla in città.
Durante il viaggio mia madre pianse tutte le sue lacrime, così che non glie ne rimase nessuna per le tristezze future. Quello che videro i suoi occhi non la stupì, perché chi attraversa le terre, dove nei secoli erano passate mille genti diverse, lasciandosi dietro colori di occhi, canzoni, e innumerabili forme di ferocia, chi attraversa quelle terre perde per sempre la facoltà di stupirsi. Imparò la pazienza, e cominciò a costruire quel patrimonio di leggende che fu poi il suo destino.
Quando arrivò alla casa, che sorgeva decrepita ma ancora splendida, non la spaventarono le statue deformi del giardino, ma l'aspetto terribile della padrona che le venne incontro con un grembiule da macellaio, sporco di sangue. Ma non potè fare a meno di notare che era bella come una vergine bizantina.
"Come ti chiami?" - "Benedetta". "Quando sei nata?" - "L'anno della cometa". Già allora mia madre suppliva con circonlocuzioni poetiche alle informazioni che le mancavano. Aveva sentito dire che l'anno della cometa era stato un tempo di terrore e di tregenda. Si credeva che quando la sua coda di fuoco si fosse avvicinata al pianeta, il calore avrebbe arso ogni forma di vita. Per paura di morire bruciati alcuni preferirono darsi la morte da soli; altri finirono i loro giorni in abboffate, ubriacature e fornicazioni dell'ultima ora. Mia madre era stata sedotta all'idea di nascere nel tempo della coda di Satana. Per il momento la padrona le fece legare la sua, di coda di fuoco, ben stretta dietro la nuca.
Il padrone era morto da molto tempo. La padrona aveva consumato quasi tutte le sue sostanze nel tentativo di trovare un rimedio all'oscura malattia che costringeva il suo giovane figlio a vivere rinchiuso nella sua stanza.
Quando tutti i tentativi di curarlo si rivelarono inutili, decise di trovare da sola il rimedio, e dedicò a questo la sua vita. Arrivarono nella casa tutti i libri del mondo, impiantò un laboratorio, e come spesso quando si ricerca non riuscì nel suo scopo, ma ottenne risultati in una branca del tutto laterale: scoprì un sistema per conservare i morti. Come tutte le grandi invenzioni, il metodo era di una semplicità ammirevole, e permetteva di conservare le salme dei morti in odore di santità, in attesa della beatificazione, senza quell'aspetto di mela rinsecchita, di uva passa che avrebbe fatto desistere gli eventuali fedeli dall'adorarli. Mia madre trascorse lì il periodo più felice della sua vita. Imparò a comporre le salme, sbloccare le articolazioni, e rifinirle con un po' di belletto perché assumessero un colorito più naturale.
Di radio in casa ce n'era una sola, ma era nella camera del malato, e anche i giornali finivano subito lì. Ma di libri ce n'erano tanti, sistemati dalla padrona in una grande biblioteca secondo un ordine imperscrutabile: così che le tragedie di Shakespeare stavano vicine al Capitale, le massime di Confucio si affiancavano alla vita delle foche, le mappe di antichi navigatori riposavano vicino a romanzi gotici, ai libri araldici di famiglia, e alle poesie indiane. Non osò mai chiederli in prestito, la sera li prendeva di nascosto, li leggeva di notte, e il giorno dopo li rimetteva a posto. Qui il suo tesoro personale di racconti, nato nel monastero con le sacre scritture e coi racconti del mare e della terra, cresciuto durante il viaggio con i fatti piccoli e grandi degli umani, quel patrimonio maturò.
Mia madre ignorò quasi tutto degli sconvolgimenti, delle catastrofi e dei progressi della sua epoca, ma sapeva tutto della rivoluzione degli studenti. La notte in cui scoppiò, il figlio della padrona scappò come accadeva da qualche tempo: mia madre se n'era accorta, perché stava sveglia a leggere. La padrona dovette cercarlo per tutte le carceri del paese, e quando tornò era come pazza, anche perché nel frattempo era cambiato il governo, e quello nuovo per dimostrare che sarebbe cambiato tutto (che poi non cambiò niente, solo più studenti nelle galere), emanò una legge secondo la quale tutti i cadaveri dovevano essere seppelliti dopo regolare funerale. Così mia madre si trovò costretta a scavare un cimitero dietro la casa, perché avevano provato a restituire le mummie, ma di molti, intellettuali, artisti, non si trovò più chi li volesse indietro. La padrona, quando vide seppellire la sua ultima mummia, la preferita, si offuscò del tutto, e da quel momento mia madre cominciò a chiamarla Anna, ché se la chiamava padrona non rispondeva più.
Quando i suoi compagni, guardandosi alle spalle, riportarono il ragazzo sulla porta di casa, dicendo: sta morendo, la padrona rispose soltanto: "Va bene, portatemelo quando sarà morto". Per la prima volta nella sua vita mia madre disobbedì a un ordine, e prese l'iniziativa. Trascinò il corpo nell'ultima stanza della casa, perché le dispiaceva che quel giovane grande e forte all'apparenza, finisse anche lui fra i santi imbalsamati della madre. Fu tutto inutile: il ragazzo cominciò ad agonizzare, lucido e silenzioso, senza lagnarsi una sola volta.
Benedetta notò che il ragazzo reagiva con entusiasmo quando lei gli massaggiava il corpo, gli applicava cataplasmi. Quest'inattesa erezione riuscì a commuovere il suo cuore di vergine matura e quando lui la prese per un braccio e la guardò supplichevole, lei capì che era giunto il momento di dare un senso al suo nome e di benedirlo a modo suo. Inoltre pensò che se durante i suoi trenta e più anni non aveva mai provato il piacere, perché pensava che fosse cosa per protagonisti del cinema, poteva ben provarlo adesso e offrirne al ragazzo, che sarebbe forse partito più contento per l'altro mondo.
Io la conosco mia madre, e posso immaginare ogni cosa della scena che seguì: mia madre non aveva falsi pudori e rispondeva sempre esattamente a tutte le domande che le facevamo, ma quando parlava di quell'incontro, le mancavano le parole e si perdeva nei ricordi.
Si tolse la camicia di cotone, la sottana e le mutande di tela, si sciolse i capelli e vestita del suo più bell'ornamento, montò sopra al moribondo, con grande attenzione, per non disturbarne l'agonia. Non sapeva bene come fare, ma supplì all'esperienza con la buona volontà. Sussurrandogli parole inventate sul momento e asciugandogli il sudore, scivolò fino al punto preciso e cominciò a muoversi con discrezione, come una sposa abituata a fare l'amore con un marito vecchio. Quando lui la rovesciò per abbracciarla, con la premura imposta dalla vicinanza della morte, il breve piacere che provarono entrambi fece tremare le ombre negli angoli.
Così fui concepita io, sul letto di morte di mio padre.
Comunque mio padre non morì, contrariamente ad ogni logica cominciò
a migliorare, gli calò la febbre, gli si normalizzò il respiro,
e chiese da mangiare. Mia madre capì che senza volerlo aveva scoperto
il rimedio alla sua malattia e continuò a somministrarglielo con
tenerezza ed entusiasmo, tutte le volte che lui glielo richiese, finché
non si fu completamente ristabilito. E poi ancora per anni, e nacque Esteban,
e nacque Fosca. Poi litigarono, e mio padre se ne andò portando
con sé soltanto la conchiglia di madreperla. Poi nacque Gaia, e
mia madre morì di parto.
Mia madre... Mia madre era una persona silenziosa, capace di confondersi
fra i mobili, di perdersi nel disegno intricato di un tappeto, di camminare
senza fare il minimo rumore, come se non esistesse. Ma quando rimanevamo
sole nella mia stanza, allora cambiava tutto. Incominciava a raccontare,
e la stanza si riempiva di luce, le pareti scomparivano per fare il posto
a incredibili paesaggi, palazzi pieni di cose che non avevo mai visto,
creature mostruose, generose. Mi deponeva ai piedi tutti i tesori dell'oriente,
la luna e altro ancora, mi riduceva alla grandezza di una formica per farmi
capire la vastità dell'universo, mi metteva le ali perché
potessi vederlo dal firmamento, mi metteva in mano una coda di pesce perché
conoscessi il fondo del mare. Quei personaggi mi sono divenuti così
familiari che ancora adesso, a distanza di anni, posso riconoscere il colore
di un vestito, la grana di una voce.
Ma le parole non sono gratuite, mi diceva. Costano care. Lei ha combattuto
per averle. Erano tutte sue.
E adesso sono mie!
Io ho ereditato da mio padre il destino bizzarro di avere un compito nella
vita, e da mia madre la vita. Mia madre è vissuta in pace. Compito
di mio padre è di andare e combattere le guerre, ma il mio compito
è di restare a combattere la pace.
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