Laboratorio Teatro Settimo
AB ORIGINE: LUOGHI PER DURA MADRE MEDITERRANEA
LA PASSIONE
E LA PAZIENZA
Saggio e racconto sul laboratorio teatrale
"DURA MADRE MEDITERRANEA"
di Bruno Tognolini
Prima parte
I DUE SOGGIORNI DI MONTALCINO
E DRENA
Indice
della Prima Parte del SAGGIO
Indice
della Seconda Parte del SAGGIO
Indice
della Terza Parte del SAGGIO
Indice
di Dura Madre Mediterranea
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Teatro Settimo ha chiamato "Dura Madre Mediterranea" un tratto del suo cammino artistico, che copre un certo numero di anni, e che dovrà culminare in un'opera teatrale. E' dunque una vigilia, la vigilia di un'opera. Nelle vigilie operose si prepara, si predispone, si costruiscono dispositivi che accolgano ed anzi attraggano l'evento: noi abbiamo preparato studi, soggiorni di narrazione e diceria, testi ed altre scritture come questa, viaggi, spettacoli teatrali veri e propri.
Due di questi spettacoli, "Istinto occidentale" e "Nel tempo tra le guerre", sono stati i primi atti della vigilia, le fonti. Personalmente, li ho visti solo come spettatore: quindi per me "Dura Madre" incomincia a Montalcino, col primo dei due soggiorni intitolati "Ab origine", nel luglio dell'89. Dopo di essi il processo ha preso forme più sotterranee, vene nascoste, o tuttora in flusso, restie alla descrizione.
Racconterò quindi, in questa prima parte dell'articolo, la cronaca di quei due soggiorni estivi. Ho detto poco fa che questo non può essere un racconto oggettivo. Il mio lavoro è stato quello della drammaturgia, ed il racconto sarà quello di un drammaturgo. Un attore, un regista, di sicuro direbbero altre cose. Questa drammaturgia, comunque, era larga, virtualmente abbracciava la giornata, e quindi è un buon punto di vista per guardare.
PREMESSA
Ero stato avvertito, ciononostante non potei evitare un periodo d'iniziale
confusione. Ci trovavamo in un'ambiente che doveva esser stato una stalla,
accanto alla casa campagnola assegnata alla nostra compagnia, di cui avevamo
preso possesso da appena alcune ore. Era notte, sedevamo in cerchio su
sedie e poltrone trasportate dalla casa, con una bottiglia di vino, e con
falene grandi come uccelli. Noi eravamo pochi, il primo drappello d'avanscoperta
per quel soggiorno: Gabriele, Roberto, Laura, Mariella, Lucilla, Luca ed
io. Per un tempo che a me parve lungo un impianto fonico diffuse nenie
e filastrocche popolari genovesi, che parlavano d'amore, lavoro e parenti.
Poi Mariella cominciò a raccontare, e quel racconto deve ancora
esser finito.
Cambiavano narratori ed astanti, venivano ospiti stranieri qualche notte, e altre due notti, le ultime, noi tutti andammo a raccontare nella Rocca. Poi ci lasciammo, e ci ritrovammo in un castello vicino a Dro, per continuare. Ma solo dopo un paio di giorni che ascoltavo, e parlavo a mia volta, o forse solamente molto dopo, mi resi conto di ciò che succedeva: succedeva una vigilia dei racconti. Una confusa e larga diceria. Che non era solo detta dalla voce, ma era fatta dagli attori e scritta sulle carte. Non cessava nei pranzi, continuava nelle musiche, nelle camminate, e nelle notti, continuava negli articoli dei giornali che qualcuno portava dal paese. Bene, mi dissi: ecco, niente di nuovo. Io queste cose le ho studiate, le ho fatte, le ho viste fare tante volte, so di cosa si tratta: estensione del tempo del teatro, abbattimento dei diaframmi, restaurazione del flusso sanguigno fra Processo e Prodotto. Questo è un laboratorio, è uno stage. Infatti è questo e nient'altro ma attenzione: abbiamo bisogno delle parole e delle cose, non trattiamole male. Se si tratta di questo e di nient'altro, se è già visto e già detto, non lo dirò da capo un'altra volta, o tratterò ancora male le parole, e me che le scrivo, e chi legge.
Devo a Gianni Celati l'aver capito che le parole non servono per definire le cose, ma per chiamarle ancora, perché ci stanno lasciando, perché rimangano con noi fino alla fine. Qui ho capito che anche il teatro ci sta lasciando a poco a poco, e che dobbiamo chiamarlo con le nostre parole. Così in quei due soggiorni i nostri racconti servivano per chiamare il teatro, perché si presentasse. E così anch'io qui farò del mio meglio per trovare le parole più belle per chiamare ciò che è successo, perché non ci lasci ma rimanga con noi, e vada avanti.
Per esempio chiamerò soggiorno, non stage o laboratorio, questo tempo di storie raccontate: e dirò "i due soggiorni di Montalcino e Drena". Cercherò di spiegare con parole più chiare come questo sia stato un solo spettacolo durato trenta giorni: dirò come sia un accostamento all'opera che è opera esso stesso. Ma non dimenticherò che questo io l'ho capito meglio, quando Nano ha detto: "E' possibile sapere quando comincia la guerra: ma quando comincia la vigilia della guerra?". E allora chiamerò vigilia, invece che progetto, quest'evento intitolato "Dura Madre Mediterranea", che precede e prepara un'opera, che in esso si perde e non si sa quando cominci. E parlerò di drammaturgia ma chiamerò diceria l'atto del raccontare diffuso e multiforme che qui è avvenuto, e il cui scopo era chiamare il teatro perché non ci lasci. E parlerò di tecniche drammaturgiche ma di più parlerò di una macchina familiare, di una pompa, e racconterò di essa come è l'aspirazione, la compressione e lo scarico. Queste sono parole mie, ma ne userò altre che ha scelto Teatro Settimo per chiamare altre cose: così dirò gabinetto drammaturgico per dire di una certa stanza e delle persone che ci lavoravano; dirò giornalieri, invece che dimostrazioni, ciò che gli attori ci mostravano ogni sera; chiamerò respiro comune i loro esercizi mattutini e non dirò training. Chiamerò libro sacro il testo di "Nel tempo tra le guerre".
Poi parlerò di altre parole importanti, che abbiamo trovato nello spettacolo "Nel tempo tra le guerre", dove Teatro Settimo le aveva messe senza sapere perché, ed abbiamo trovato dentro di noi, e intorno a noi come deboli odori della realtà, senza la quale il teatro ci lascia. Sono le parole pazienza, mitezza, determinazione, operosità, rinuncia al cinismo, molteplicità, complessità. E parlando di una condizione da cui guarire, parlerò spesso di crampo.
Questo non è un neo-nominalismo, perché queste parole sono vecchie, non nuove, ma non è il vecchio o il nuovo che ora importa. Ora è importante l'attenzione, l'affetto, e una maggiore esattezza nell'affetto. Prima di me Demetra, Fosca, Gaia l'hanno detto: sono importanti i nomi. E Benedetta ha chiamato in ordine alfabetico la nostra stirpe che ricomincia dalla A, e finisce chissà dove nel nuovo millennio.
Queste parole io ho scelto per chiamare le cose che abbiamo fatto in quei due posti, perché non ci lascino ma rimangano con noi, e vadano avanti. E così queste pagine sono destinate alle persone che hanno vissuto "Dura Madre".
Ma se qui io devo raccontare "Dura Madre" ad altri estranei, che non devono stare attenti a non perdere, ma ancora del tutto ad acquisire, come farò? E' necessaria una scelta, e sceglierò di usare le stesse parole anche per loro, di non cambiarle. Perché sono le parole migliori che ho trovato, sono parole semplici, e possono funzionare. E perché le altre parole più scientifiche e oggettive, che io potrei trovare, non sono vere per me, che non ero un osservatore scientifico e oggettivo. E allora, se le parole non sono vere per me che le scrivo, non sono vere per chiunque le legga, estraneo o partecipe che sia.
Le esperienze non sono comunicabili con le parole, ormai lo sappiamo, né con quelle oggettive e nemmeno con quelle vere per chi le scrive. Tutt'al più si può sperare di far cadere la coscienza di chi legge in un'altra esperienza sua, che nel migliore dei casi si assomiglia, almeno un poco nel grado della forza. Così non penso, scrivendo queste pagine, di comunicare un'esperienza di teatro. Ma usando parole vere, o almeno esatte nel loro affetto, io voglio tendere una trappola di idee appassionanti che assomigli a quella in cui sono caduto io, nel costruire con gli altri "Dura Madre". Questo è uno stratagemma comune nel teatro, i cui drammi sono trappole equivalenti in cui far cadere la coscienza di qualcuno, perché rimanga un poco con noi, o almeno con sé.
Allora io penso che queste parole serviranno, a tutti o a qualcuno. Così queste pagine sono un racconto di "Dura Madre" ma sono anche "Dura Madre": servono a chi non conosce questa esperienza, per intuirla attraverso la trappola della mia; e a chi l'ha costruita, perché resti presso di lui e vada avanti.
Indice della Prima Parte del
SAGGIO
Indice di DURA MADRE
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A . MONTALCINO
1 . L'antefatto
Il primo dei due soggiorni si è tenuto a Castiglion
del Bosco, un borgo rurale vicino a Montalcino, nel programma del festival
Montalcino Teatro 89, nei quindici giorni precedenti l'inizio del
festival, dall'1 al 16 luglio.
Gabriele Vacis, Roberto Tarasco e Laura Curino parlavano da mesi con i partecipanti, che erano attori, drammaturghi, aiutoregisti, tecnici, collaboratori a vario titolo, ospiti osservatori. Alcuni erano nuovi ed altri no, ma Teatro Settimo, come poi dirò meglio, questa volta ha aperto il nucleo artistico più intimo alle invasioni, perché era il momento di rischiare. Ci sono tre attrici del gruppo, Laura Curino, Mariella Fabbris e Lucilla Giagnoni; ci sono attori che hanno lavorato con Settimo in altri ruoli, come Luca Riggio, che faceva il tecnico; ci sono attori nuovi, selezionati tramite i "provoni", come Silvia Lessona, Renata Trulli e Giuseppe Sulas. I collaboratori sono a loro volta vecchie conoscenze, come Antonio Musco, o più recenti, come Mauricio Paroni De Castro, o nuovissime, come me.
Con tutti noi dunque Teatro Settimo intrecciava relazioni da tempo, fatte di compiti, di studi preparatori, ognuno nel suo campo. Io per esempio sono arrivato a Montalcino con una selezione letteraria sulla figura delle madri, con un repertorio di serie mitiche o sacre del sette, e con una scomposizione del testo di "Nel tempo tra le guerre"; Renata Trulli portava uno studio d'attore su un testo di Cortazar, lavorato con Antonio e con Roberto; Antonio portava una ricchissima ghirlanda di narrazioni sudamericane, scelte bene; altri attori portavano i lavori dei "provoni"; Laura, Mariella e Lucilla si presentavano col loro forte corpo di personaggi, la triade delle sorelle di "Nel tempo tra le guerre".
E poi ognuno aveva le sue attese, e la speranza che fossero comuni:
ciò che aspettiamo dal teatro, e ciò che aspettiamo dalla
nostra "Dura Madre", che ci ricordi come si fa a immaginare un
futuro. E così la vigilia è incominciata in tanti posti e
in tanti modi, io non posso rintracciare le vene sotterranee che precedono
la fonte: dovremo prendere un punto come origine del fiume, e cominciare
da lì. Ma "Dura Madre" si accinge a raccontare daccapo
e più a fondo una storia che è già stata raccontata,
nello spettacolo "Nel tempo tra le guerre". Questa storia,
come dirò meglio, è il libro sacro dove ogni nuova
scoperta dei due soggiorni si confronta, ed è quindi necessario
raccontarla.
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SAGGIO
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2 . Storia del Colonnello e dei suoi figli
"Nel tempo tra le guerre e durante le guerre il Colonnello concepisce figli in lungo e in largo per le terre. Affinché non si possa dire che abbandona i suoi figli, tutti quelli che riescono a nascere vengono mandati nella casa edificata dai nonni all'inizio del nuovo millennio" (1).
La casa ha un grande cortile, oltre la strada c'è il mare, e di lato un camposanto, che i fratelli chiamano "il cimitero dell'altro millennio". E' un'attesa operosa, mite, scandita da regole d'economia domestica, da racconti, e da litigi leggeri, presto sedati. E' un'aleph, un piccolo universo concentrato che non ignora il fuori, come dice la voce di Esteban: "Ascoltando radio di tutto il mondo è impossibile non verificare la capillare diffusione del dolore: ma questo, invece che indurci a difenderci col cinismo, come facevano i nostri avi, rinsalda la nostra determinazione".
"Trascorso il tempo dell'agiatezza, i fratelli contano sui ricavi del laboratorio radiofonico", ma in realtà i loro mezzi di sostentamento sono oscuri. Come oscura è la narrazione d'eventi trascorsi, nel mitico tempo dei nonni paterni, Adamo e Beatrice: tra questi eventi, sembra importante la lunga visita di un Angelo, indiretto procacciatore del patrimonio familiare, poi investito nella costruzione della casa e nell'impresa del laboratorio.
Fattostà che ora i fratelli sono lì, scaglionati in tutte le età, dalla più vecchia, Demetra, al più giovane, Vento. Ma scaglionati anche su un altro ordine: l'alfabeto dei nomi, che ordina le età, dalla A alla Zeta. Adamo e Beatrice, i nonni scomparsi; il Colonnello, in giro per le guerre; Demetra, primogenita, custode dei racconti, l'unica che ha veduto il Colonnello, e lo ricorda; Esteban, primo maschio, che è morto, ma sempre presente con la sola voce; Fosca l'economa e Gea la feconda, figlie di primo letto anch'esse, sorelle di Demetra e di Esteban; padre Hacca, il primo dei tre fratelli preti, amante del vino; Ingrid e Lilith, le gemelle monozigoti, le impazienti; padre Marziale, secondo dei preti, che dorme barricato nella stanza, forse nudo; Nano, il fratello sospetto, lo straniero; Osso, che parla in dialetto, l'emigrante; padre Procolo, il più giovane dei fratelli preti, che dorme ordinato; Quaranta, che canta e balla e suona "finché ce n'è uno in piedi"; Radio, gemello eterozigote di Quaranta; Scolastica, sorella di Osso, morta anch'essa, ma presente con la sola salma muta, e forse invisibile, che riordina periodicamente le iniziali; Tea e Ulla, le sorelle che hanno fatto un lungo viaggio; Vento, fratello di Quaranta e Radio, il bambino. Infine Zoe, prima nipote futura, che nascerà quando le parrà opportuno, e che occupa Gea di un'infinita gravidanza.
Sono figli di sette madri, che il Colonnello ha conosciuto nelle guerre e nei continenti, e di cui si sa poco. Anche del Colonnello si sa poco: da bambino era di debole salute, e ha conosciuto l'Angelo; non esistono sue fotografie; da sempre combatte "guerre, guerriglie, guerre civili, guerre fredde, guerre sante o di confini..." e così via; nell'unico litigio tra i fratelli, presto sedato da Demetra, si intravvede un oscuro rancore che Ingrid e Lilith hanno ereditato dalla madre nei suoi confronti, per esser state dimenticate. E niente più. Ma ora i fratelli hanno sentito nelle loro radio la notizia della sua prima resa, ed argomentano che forse per questo tornerà.
Questa, raccontata molto in fretta, è la storia su cui hanno
cominciato a lavorare una dozzina di persone, il primo luglio 1989, a Montalcino.
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SAGGIO
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Castiglion del Bosco è un piccolo borgo di campagna, a quattordici chilometri da Montalcino, in Toscana. E' stato forse residenza estiva di vecchie aristocrazie, ed ora è un centro di produzione vinicola, e un ostello per convegni o altri soggiorni d'occasione. A noi viene assegnata una bella casa a due piani, che occupiamo con le nostre masserizie. Una stalla vuota e pulita, dirimpetto, è riempita di fari e attrezzerie. Dalle prime ore partono esploratori per scoprire i siti disponibili intorno, in cui possono trovar sede le azioni: angoli accanto a muri di stalla, sotto un albero, dentro il porcile, ai piedi di un declivio al margine del bosco.
Qui siamo soli: ci sono rare apparizioni del marchese o del marchesino proprietari, o di qualche donna lavorante, e c'è un grandissimo silenzio campagnolo. Nei primi due giorni siamo in sette, e prepariamo la casa, i racconti, l'accoglienza, e quanto si può del programma di lavoro per gli altri che arriveranno. Arrivano la sera del tre, ed arriva anche uno strano inverno di luglio, con freddo e pioggia. Noi stiamo chiusi dentro, e la prima notte i racconti incominciano vicino a un fuoco di camino, acceso davvero per il freddo. Fosca incomincia, e da quel punto i fatti ed i racconti dei fatti, gli attori e i personaggi, la storia di "Dura Madre" e il suo processo, il tempo del teatro e delle pause, si confondono, non si distinguono più bene.
Proprio per questo allora bisogna distinguere bene le ore e le occupazioni. Alla mattina, dalle dieci, tutti gli attori cercano il respiro comune, con atti ed esercizi nel cortile accanto alla casa: questa è la marcia concorde dei fratelli, spavalda, come un'onda che va avanti e indietro, sulla musica di "Nel tempo tra le guerre". I vecchi attori, Laura, Mariella e Lucilla, e Mauricio come aiutoregista, insegnano ai nuovi fratelli, Renata, Luca, Silvia e Giuseppe, a mettersi al passo. Intanto Gabriele e Roberto preparano compiti e consigli, rileggono i testi, pensano le strategie per continuare. Antonio ed io scriviamo i diari del giorno prima. Alcuni, a turno, vanno spesso a Montalcino per sbrigare faccende.
I primi giorni pranziamo nella mensa del Festival, in compagnia di altri attori e gruppi, anch'essi impegnati nelle loro vigilie d'opere teatrali. Presto però decidiamo di preparare il pranzo in casa, per risparmiare il tempo e la fatica del viaggio, con cibi trasportati dalla mensa in cassette. Sono cibi già cotti da Santina, la cuoca del festival, che si dimostra con noi molto paziente, e sono abbastanza buoni.
Nel pomeriggio, dopo un breve riposo, i lavori si ripartiscono così: gli attori studiano i loro brani, nei siti che hanno scelto lì intorno, soli o seguiti da Roberto, Mauricio, Laura, talvolta Gabriele. Entra in funzione il "gabinetto drammaturgico": una stanza piena di libri, carte, figure, con un computer che rende più comode e svelte le scritture e riscritture quotidiane. Qui Gabriele, Antonio ed io, talvolta con Laura, Roberto, e con gli ospiti saltuari, intrecciamo le drammaturgie di giornata, che tra poco dirò.
Dopo la cena partono quelli che chiamavamo, con termine preso dal cinema, "i giornalieri": ognuno degli attori, nel suo sito, mostra il lavoro del giorno a tutti gli altri. E' una passeggiata a lunghe tappe, nella notte estiva piena di lucciole e di stelle, verso questo o quell'angolo della casa, della stalla, della campagna circostante, illuminato con discrezione per non fare teatro. Talvolta Gabriele indugia, solo o con noi, a dare suggerimenti o compiti all'attore che ha finito. Io giro con gli altri, in questo presepio affettuoso e molto serio; non sono mai stato un attore, ma qualche volta mi immagino di essere uno di loro, che aspetta nel suo posto: è lì da solo, molte volte è stato solo per tutto il pomeriggio, nell'incertezza, a preparare per noi, ed ora aspetta; controlla ancora le sue quattro cose, un cappotto, una radio, una candela, chissà cosa pensa; e poi dice: "ecco, arrivano", ed è pronto. Dopo, camminando nel buio tra due tappe, con Antonio e Gabriele talvolta confabuliamo, ci stupiamo di novità che sono emerse, a confermare o a correggere la storia. Per tre sere questa parte del lavoro è stata aperta a un pubblico invitato: gruppi teatrali, organizzatori del Festival e personalità, una cinquantina. Questo ha portato un certo scompiglio, sulle prime, e una piccola lacerazione nel processo, che è stata discussa, e in parte rimediata.
Quando è compiuto il giro dei "giornalieri", la notte
è dedicata ai discorsi. Nella cucina in genere, tutti insieme, si
discute il lavoro, si congetturano storie passate dei fratelli e delle
madri, si propongono o protestano motivi, scontentezze, opinioni, obbiezioni.
Spesso Gabriele assegna compiti drammaturgici a tutti, per l'indomani:
avanzare ipotesi su questo o quel problema della storia, dei personaggi.
Il convivio finisce sempre molto tardi, e talvolta si vede la luce del
giorno andando a letto.
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Cosa si proponeva questo lavoro? Dirò poi come in realtà i compiti fossero molti, di natura diversa: forzare le relazioni, le condizioni, le forme del teatro. Tentare una mitopoiesi, la costruzione di un mito sostenibile oggi, la costruzione di un paesaggio. Addirittura guardare fuori dal teatro, verso il mondo. Ma qui dico solo il compito della drammaturgia più esterna, cioè della costruzione di una storia, che tutti gli altri portasse in sé cifrati.
Il soggiorno è intitolato "Ab origine". A quali
origini volevamo risalire? "Abbiamo fatto un lavoro sull'unificazione
dei personaggi, tutti e diciassette figli del Colonnello. Questo è
il loro elemento comune, e abbiamo lavorato su questo per 'Nel tempo tra
le guerre'. Allora qui incominciamo a lavorare sull'elemento
principale diversificatore: cioè le madri. Tutti questi sono figli
di un unico padre, ma di diverse madri. Quindi incominciamo a capire chi
sono queste madri."(2)
Allora è questo il compito iniziale: ricostruire le storie delle
madri. Dare vita, passato, lingua materna ai fratelli, che erano solo un
coro, un gruppo frontale. Ed aspettare che tra essi, una volta vivi e liberi
dal quadro, potendosi girare, scoppi il dramma.
Allora, da quali madri incominciare? Prima di tutto, mettere da parte
la matria (3) dei racconti, le prime figlie
del Colonnello, Demetra, Fosca e Gea, di cui sappiamo già molto.
Questa indicazione viene poi trasgredita: i tre personaggi erano così
avanti nel processo natale che chiedevano a gran voce, evidentemente, di
vivere del tutto. Il lavoro sulle tre sorelle sarà intenso, e tuttora
prosegue, e sembra infinito. Ciò detto, l'intenzione era di lavorare
su tre matrie: la matria dei preti, Hacca, Marziale e Procolo; la matria
dello straniero, Nano; ed un'altra da precisare, Ingrid e Lilith, o Tea
ed Ulla. Premeditatamente, gli attori erano stati scelti in questo senso:
Luca imparerà, con gioia, di essere Nano; Silvia sarà Tea,
Renata Ulla; Giuseppe sarà uno dei tre preti, vedremo quale.
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5 . Il "gabinetto drammaturgico"
Di qui si parte. Il "gabinetto drammaturgico" è una centrale di produzione e smistamento di storie. Posso definirlo come un dispositivo energetico, oppure come una pompa, che ha tre fasi: aspirazione, compressione, e scarico. Gli antichi retori chiamavano queste tre fasi inventio, dispositio, elocutio: ma noi sappiamo che le filosofie funzionano in fondo come il motore di una motocicletta.
Convergono all'entrata di questa pompa (aspirazione, o inventio) molti e diversi materiali, di cui farò un elenco: brani letterari selezionati in tempi precedenti; scorte di testi e fonti per altre ricerche sul posto; brani d'attore nuovi, preparati anch'essi in tempi precedenti e per questo lavoro; brani d'attore da "Nel tempo fra le guerre"; altri brani lavorati ogni giorno sul posto, e mostrati nei giornalieri; nessi, relazioni, versioni, ipotesi narrative scaturite da discorsi fantastici o intellettuali in tempi e spazi dedicati (lo stesso "gabinetto" e le discussioni notturne) o casuali (mano a mano che il processo entra in regime, in qualsiasi momento della giornata, e con chiunque); e infine il testo di "Nel tempo fra le guerre", fonte primaria e guida cui confrontare ogni nuova scoperta, "libro sacro" da sottoporre ad una cabala fedele.
Tutti questi materiali, eterogenei e spesso contrastanti, vengono confrontati tra loro, controllati nel "libro sacro", passati al filtro di precisi schemi che abbiamo scelto (simbolici, mitologici, cronologici, storici, geografici, etc.), o semplicemente discussi. Insomma questo centro del motore, dove avviene la compressione, o dispositio, è una rete di attenzione, di affetto, e di esattezza nell'affetto, che ha il compito di selezionare, modificare, combinare i materiali narrativi in circolazione, per renderli adatti a disporsi in un quadro dotato di senso (il dramma? No, non ancora).
I materiali così trattati vengono convogliati all'uscita, restituiti agli attori ed a tutti (scarico o elocutio). Se l'entrata è così multiforme, l'uscita non è una sola: non passa sotto la sola forma di scritture, né per una sola voce autorizzata. Si sfrangia invece in suggerimenti personali agli attori dopo i loro giornalieri, in rivelazioni collettive nelle discussioni notturne, perfino in fughe di notizie o pettegolezzi di corridoio sul passato dei fratelli. Prepariamo comunque anche testi, letterari, riadattati, o proprio nuovi, che diamo agli attori.
I materiali trattati nel gabinetto vengono continuamente restituiti
dagli attori nei giornalieri, e da tutto il gruppo nelle sue forme di diceria
diffusa. E continuamente il gabinetto li riassume, come un sistema autoalimentato.
Così gira la pompa.
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Ma per dare anche solo un'idea vaga di ciò che accadeva in realtà, devo sfuocare un poco e ridisegnare questo schema, che è troppo schematico. Ho parlato di una pompa, macchina semplice della termodinamica: ma la fisica oggi abbandona il riduzionismo degli elementi semplici e regolari di un sistema lineare, e studia piuttosto, con coraggio, le categorie opposte di complessità, disordine, caoticità dei sistemi dinamici. Allora cercherò di restituire al nostro sistema attivo a Montalcino almeno un poco della sua caoticità, positiva e negativa.
Prima di tutto dirò che il "gabinetto" non era affatto il motore primo del lavoro, ma l'intero gruppo si comportava come un dispositivo drammaturgico: un organismo complesso produttore di senso, con relazioni articolate al suo interno, e reattivo all'ambiente.
Per quanto riguarda le prime, per esempio, bisogna riammettere tra le forze attive in campo, tra i materiali in circolazione, accanto alla materia sublimata delle ipotesi narrative o delle forme teatrali, la materia selvaggia delle tensioni, delle perplessità, delle rivalità, delle alleanze. Questi dati non vanno rimossi come fastidioso "rumore" pur prodotto dal sistema, ma estraneo al suo lavoro; e nemmeno si deve ridurre il sistema ad essi, facendone per esempio psicodramma. A Montalcino (e ancora di più a Drena, come vedremo) atti e fisionomie delle persone, e delle loro relazioni, vengono accettati come modelli di fisionomie e relazioni dei personaggi, accanto ad altri modelli e con pari forza. Così, per esempio, le difficoltà di Mariella a mandare a memoria le parti divengono un tratto drammatico di Fosca; così padre Procolo copia l'irruenza, e addirittura l'infanzia turbolenta, di Giuseppe; così cominciano a mostrarsi ostilità ed alleanze in relazione a Demetra, che esploderanno a Drena.
Devo anzi precisare, a questo punto, che la fusione e confusione fra persone e personaggi è statutaria e incessante. La terza sera sono Demetra, Fosca e Gea che accolgono, coi racconti delle vicende passate della stirpe, i nuovi fratelli: e non Laura, Mariella e Lucilla che informano i nuovi attori degli antefatti del progetto. Da lì, e per tutto il tempo, i nomi delle persone e dei personaggi, anche nelle pause del lavoro, si alterneranno secondo logiche incerte.
Poi ho detto della reattività del sistema in quanto tale all'ambiente. Accettavamo docilmente nella "pompa" molte occorrenze esterne, a cui il sistema reagisse in forme utili. Così la calma e il silenzio del luogo curvano la traiettoria dei racconti in certe direzioni anziché altre; così certe notizie e commenti dei giornali vengono ritagliate e messe a disposizione della "pompa"; così il porcile dove Nano si rinchiude per ore a fronteggiare il suo lavoro, o il minuscolo cimitero abbandonato che Fosca scopre, e dove passa molti pomeriggi, diventano testo per loro, e per noi. Anzi, poiché compito della vigilia non è solo attendere ma attrarre l'evento, una messe di fatti e combinazioni sorprendenti veniva da fuori a confermare certe curve della storia, o a correggerne altre, e sembrava magia. Ma era solo attenzione: se attesa e attenzione, vigilia e vigilanza si assomigliano, la drammaturgia è anche solo sedersi e leggere il paesaggio. Una sentinella.
Fin qui la caoticità che potrei chiamare "positiva" del sistema di lavoro teatrale a Montalcino. Caoticità perché ammette la molteplicità e l'eterogeneità delle forze circolanti; positiva perché conta di poter convertire "drammaturgicamente" queste forze. Accanto ad essa e come sua controspinta, si spandeva in onde ritmiche a momenti una caoticità "negativa", più difficile da sopportare, faticosa, molesta per tutti. Questa faceva sentire il suo morso in confusione, incertezza, scarsa visibilità delle mete e persino della strada del processo. Ne soffrivano gli attori "nuovi", che spesso la denunciavano esplicitamente. Ne soffrivano gli attori "vecchi", i registi, i drammaturghi, anche se ne parlavano di meno. Ne soffrivamo tutti. L'assenza di un punto di partenza e di arrivo canonici, cioè di un testo iniziale e di uno spettacolo finale, sembrava qualche volta la causa a cui ricondurre questa incertezza. Altre volte gli attori protestavano di esser tenuti all'oscuro di un presunto disegno globale che il "gabinetto drammaturgico" avrebbe custodito. Altre ancora ognuno rimproverava ad ognuno, o tutti a uno, di non possederlo affatto, quel disegno.
C'è un salto che suggerisce Edgard Morin, che sarà sempre
più necessario per tutti: accettare come un dato del sistema l'incertezza,
e dunque non più lavorare nell'incertezza, ma tentare di
collaborare con l'incertezza. Comunque accadeva un fatto curioso:
questa stessa incertezza di tutti, di non sapere cosa e per chi si studiava
ogni giorno e recitava ogni sera, è parsa all'improvviso un desiderabile
ritorno nel momento di crisi dovuto all'invasione del pubblico. Una volta
ritornati "fra noi", ognuno sapeva un po' meglio cosa stava facendo.
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Ho detto che i compiti erano più numerosi e più grandi della mera ricostruzione delle storie, anche se in essa erano intrecciati, e scritti in cifra. Anche i risultati sono stati più grandi, e ne parlerò presto. Qui dico invece i risultati drammaturgici veri e propri, cioè come le storie, le fisionomie, persino i nomi di alcuni personaggi siano cambiati rispetto all'inizio. Ma il compito dell'inizio, di dare passato e corpo ai personaggi attraverso il racconto delle madri, e quindi costruire differenze, per poi farle confliggere nel dramma, è assolto solo a metà: sette personaggi, in misure diverse, acquistano corpo; per il dramma bisognerà ancora aspettare.
Questo corpo è in tutti e sette i casi corpo
parlante, e in quattro casi già corpo teatrale: quattro azioni hanno
maturato sulle altre una forma conchiusa, e sono state fissate col nome
di "deposizioni"(4). Hanno
ancora un impatto frontale, monologante, non arrivano al dramma come conflitto
tra personaggi diversi: ma se acquistano corpo é perché acquistano
ombra, contrario, dramma interiore. E questo urge, stacca le quattro figure
dallo sfondo corale di "Nel tempo tra le guerre", e le
lancia avanti, davanti al pubblico, a "deporre".
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Ed ecco le novità che queste quattro deposizioni ci hanno portato. Demetra, che "Nel tempo tra le guerre" era figura forte e felice, dispensatrice di certezze con mano mite, benevola, e padrona, ora deve pagare questa sua autorità con costi oscuri. Nella sua deposizione, cento volte provata, si intravede come le storie che lei possiede in realtà la posseggano, e talvolta cupamente. La sua determinazione a costruire la stirpe non cede, ma d'ora in poi dovrà conquistarsela daccapo ogni notte d'insonnia, ogni veglia di racconti ripetuti a nessuno.
Fosca scopre il segreto del suo nome: smemorata, nebbiosa, obbligata a richiamare i nomi delle cose, che la lasciano sempre. Una perdita della memoria che contrasta con la sua forza di artefice economica della stirpe, e che la costringe a sua volta a guadagnarsi questa forza con la lotta. Una memoria labile che copre, forse, qualcosa che lei sa, e che è vietato ricordare. Infatti, in questo caso, il personaggio che è nato non ha trovato purtroppo il suo testo, e nella deposizione Fosca, ancora oggi, parla d'altro.
Gea è diventata Gaia, "terra vivente e autoregolantesi"(5), nome sinonimo suggerito da Edgard Morin, per lei più vero. La sua gaiezza non demorde, anzi esplode appieno, arricchita delle tinte di un erotismo da lupa, gravido di sviluppi: tuttora si ignora il padre del bambino di cui è incinta "da anni". Ma ormai è chiaro che indugia il suo parto per contrattarne il prezzo nei confronti di qualcuno (chi, Demetra?). E che la morte della madre, che racconta, le costa ancora, e in qualche modo rientra nel contratto. La sua deposizione è il luogo importantissimo in cui si rivela il nodo dei nomi segreti, voluti da questa prima madre, Benedetta.
Nano, infine, nato quasi dal nulla. Lo straniero era una delle figure
dello sfondo, ora di lui si sa parecchio: adottato, unico figlio non carnale
del Colonnello, unico da lui avviato alla carriera militare, e attore condannato
dalla hybris a ripetere, e caricare fino all'abominio, il compito
delle guerre. Scimmia del padre, dunque, lui che non è suo figlio,
ed ora angelo caduto e Achille bestia nel porcile. Anche per lui ci saranno
sorprese, a Drena e poi.
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Queste quattro deposizioni vengono presentate nella Rocca di Montalcino la notte del 14 luglio, dinanzi al pubblico del Festival, e sempre con la qualifica di "studi". Altri atti dei fratelli non sono arrivati alla soglia di sicurezza necessaria per fronteggiare lo spettatore straniero, ma non hanno avuto per questo minor parte nella ricostruzione delle storie della stirpe, e in tutto il resto.
Primo fra tutti padre Procolo, storia tumultuosa di personaggio e d'attore. Mentre il gabinetto drammaturgico, aiutato da Peter Handke, rintraccia una madre tedesca dei tre preti, forte e vinta, e "senza desideri", Giuseppe resiste strenuamente al personaggio, al processo ed a tutto. Il prete che piano piano emerge dalla nebbia è molto diverso dal bonario Procolo di "Nel tempo tra le guerre": forse non è nemmeno mai stato ordinato, ma oscuramente appartiene a Dio, che ama e minaccia, confondendolo col Colonnello, quanto mai gli altri due, preti legali.
Di Tea e Ulla non maturano i volti, ma sì le storie, con il lavoro
incrociato delle due attrici e dei drammaturghi. Per conciliare notizie
discordanti, provenienti da brani letterari lavorati dalle attrici, si
scopre infatti un torbido fatto d'abiura. La madre qui è una Claretta
Petacci, una Evita Peron, una Chang Chin: amata dal Colonnello e da lui
compromessa col regime di una rivoluzione, in cui peraltro prende parte
attiva, viene poi abbandonata alla reazione controrivoluzionaria, che ne
farà il capro espiatorio, necessario per la fondazione di un nuovo
stato. Ulla verrà allattata in prigione, e non parlerà mai.
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c . Altre vicende della stirpe
Poi devo dire delle ricostruzioni scrupolose che riguardano l'anagrafe dei fratelli in generale, anno e patria di concepimento di ciascuno. La sequenza alfabetica dei nomi e quella delle matrie sono asimmetriche: Hacca, Marziale e Procolo, per esempio, sono figli della stessa madre, ma son distanti, e tra l'uno e l'altro il Colonnello, che rispettava la consegna dell'alfabeto, ha concepito altri figli altrove. E se lui doveva rispettare l'alfabeto, noi a nostra volta non potevamo cambiare il libro sacro: questo ha costretto Roberto e Gabriele a comporre successive tabelle approssimate, complicatissime, che discutevano animatamente. Finché ci presentano trionfanti quella definitiva, che registra luogo, anno e mese (e quindi segno zodiacale) del concepimento e della nascita di ognuno. E poiché abbiamo convenuto che ogni matria è un diverso continente, spesso accade che questo Colonnello è costretto a dei veri tour de force geografici e matrimoniali per il mondo.
E ancora: Adamo, il nonno capostipite, si rivela figura povera di cariche e scompare. Prende il suo posto nell'alfabeto Donna Anna, o Donna Alba, madre del Colonnello, la cui storia, fino ad ora appena suggerita da "Eva Luna", in realtà deve ancora esser narrata. La stirpe sembra assumere, con queste rivelazioni, una forza matrilineare: le "dure madri", che lavorano nell'ombra, paiono ora competere ad armi pari (ma assai diverse) con l'assente e onnipotente Colonnello, in questa costruzione del futuro. Ecco infatti uscire dal buio Benedetta, la prima moglie, "B" della stirpe, madre dei racconti e della matria dei racconti, fondatrice dell'alfabeto: è lei la "Dura Madre"?
E il Colonnello? Non deve stupire che non se ne parli mai: questa è
una reticenza che sentiamo piena di larghi motivi, e di senso, ma che non
è ancora il momento di capire. Niente parricidio, orfani o patrioti:
questa vigilia è intitolata "Dura Madre". Semplicemente
il Colonnello è via.
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Gabriele raccontava un aneddoto su Hemingway, che smettendo di scrivere alla sera lasciava una frase a metà, per poter riprendere il giorno dopo. Nella Rocca di Montalcino, l'ultima sera, dopo l'ultima replica assoluta dello spettacolo "Nel tempo tra le guerre", che è morto passando il testimone a "Dura Madre", ci siamo lasciati senza compiti. Ma tutte le storie che qui sopra ho potuto appena sfiorare, le morfogenesi dei personaggi, che stanno nascendo, le figure tratteggiate delle madri, che affiorano dal buio, ed anche i rimpianti, le sfiducie, le perplessità, erano tutti discorsi sospesi. Un lavoro densissimo ha potuto appena tracciare certi inizi elusivi: deve ancora succedere tutto.
Con questa impressione curiosa, di aver fatto tantissimo e niente, ci
diamo appuntamento per dieci giorni dopo, a Drena.
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B . DRENA
1 . Il posto e le giornate
Il lavoro continua dal 24 luglio al 6 agosto, ospitato dal Festival "Drodesera", a Drena, borgo vicino a Dro, in provincia di Trento. Anche qui si tratta di una coproduzione tra un festival ed una compagnia, collocata nelle settimane precedenti l'apertura del festival: questa volta però è programmato un evento finale più vicino alla forma del prodotto, dello spettacolo compiuto. Qui il racconto sarà più breve, perché dirò soltanto le varianti e le novità rispetto al lavoro precedente. E queste sono subito evidenti, cominciando dal luogo.
Castel Drena è un castello poco distante dal paese, di recente restauro. Quest'ultimo ha restituito appieno un solo edificio, il Palazzo Comitale, e una torre merlata alta 27 metri: le altre tracce di mura e fabbricati sono state pulite, rinforzate, e lasciate alla loro grande dignità di ruderi. Nelle sale superiori del palazzo sistemiamo il "gabinetto drammaturgico"; in un sotterraneo, chiamato "stube", trovano posto fari, costumi, attrezzerie, spogliatoio, e luogo di riunioni e di ristoro. La nostra escursione in cerca di siti per gli atti dei fratelli sembra, di prima vista, entusiasmante: lo spazio è movimentato, ricco di scorci, dislivelli, camminamenti, vedute per archi e finestre su altri locali diroccati, e fuori sulla valle e le montagne che la chiudono in cerchio. Devo anche menzionare l'alta torre, sulla cui sommità merlata, per scale di legno, saliremo spesso per vedere alcune azioni; e la "lizza", unico spazio vasto, oblungo, coperto d'erba verdissima, chiuso di alte mura, dove verrà a lungo provato e infine rappresentato lo spettacolo finale.
E' lì dal primo giorno il solito drappello di avanscoperta e preparazione del lavoro. E la prima sera già si discute ciò che dicevo sopra, cioè l'influenza del paesaggio sul sistema narrante. Qui mangiamo e dormiamo in un albergo distante dieci minuti di cammino, e non sullo stesso posto del lavoro: questo già detterà differenze. Se a Montalcino un certo eremitaggio, un distacco dalla vita quotidiana e perfino civile, dai rumori della gente, aveva portato certi frutti e certe intese, ora frutti ed intese avranno impronta di un ambiente più duro, nervoso, compromesso col mondo. Per tutto il tempo Gabriele si lamenterà della turbolenza del paesaggio, dell'incredibile strepito di questa montagna estiva: spari continui al piattello, camion, corvi parlanti e mattinieri sotto le finestre dell'albergo, ed al castello visite di turisti fin dentro il gabinetto drammaturgico, mostre ed inaugurazioni, invasioni di boy scouts. Come reagirà il nostro sistema caotico a questo caos?
Più caotiche sono subito le giornate. La prima mattinata è dedicata a un'escursione d'un'ora nelle montagne circostanti: dopo un primo momento di rigore, i drammaturghi e qualche indisposto ne verranno esentati. Dopo la passeggiata, gli attori, con Roberto, si dedicano agli esercizi d'affiatamento, al respiro comune; la marcia dei fratelli, che a Montalcino era scandita su una colonna sonora tumultuosa e festiva, di gusto tropicale, qui si strama su una nenia norvegese, di voce sola femminile, molto arcana. Il gabinetto drammaturgico segnala le prime difficoltà: non fa in tempo a raccogliersi, è sempre ora di pranzo, o di andar via.
Nel pomeriggio, per la prima settimana, il lavoro a tavolino ancora stenta. Gli attori sono più numerosi, questa volta, e più forti: il lavoro si accende in tanti posti, esige la presenza quasi costante di Gabriele, Roberto, Laura. Sono arrivati Osso (Mirko Artuso), Quaranta (Loredana Lanciano), la prima Lilith (Patrizia Piccinini), padre Marziale (Massimo Tradori), già fratelli di "Nel tempo tra le guerre", ma assenti a Montalcino; è arrivato (o arrivata, non è mai stato chiaro) Scolastica (Marco Paolini, che lavora con Settimo da tempo); sono arrivati la nuova Ingrid (Claudia Botta) e padre Hacca (Frank Hentschker, attori nuovi); nell'ultima settimana solamente, con timidezza e con dirompente peso, è arrivata una Tea nata già grande (Maria Maglietta). Nel castello ci sono tredici fratelli. E questa volta sono i drammaturghi, o perlomeno io, a sentirsi un po' disorientati, nell'incertezza. Nella seconda settimana l'arrivo di Marco Baliani e Gerardo Guccini, ospiti più coinvolti ed attivi di quelli di Montalcino, rilancia e sposta nella mattina il "gabinetto", cui ritornano anche Roberto e Gabriele, con definitiva assiduità.
Le sere, dopo cena, sono ancora dedicate ai giornalieri, che mano a mano, dai numerosi siti, si raccolgono nella lizza, dove dovranno comporsi in un possibile atto corale. Da un certo punto in poi questa preparazione di uno spettacolo finale diviene preoccupazione dominante della notte: ed è regia di montaggio, ripetizioni, freddo gelido di un luglio stralunato per ospiti e drammaturghi che assistono, intabarrati nei cappotti militari dei fratelli.
Ma nella notte, o talvolta al mattino o al pomeriggio (ho detto che
qui le giornate son meno regolari) le discussioni collettive prendono un
altro canto. Incontenibili onde di storie, di congetture, peripezie di
madri, ma soprattutto forme di relazione, alleanze, ostilità, duri
attacchi, esclusioni, attraversano in tutte le direzioni la famiglia. E
prendono fermamente il sopravvento su ogni altro argomento, sia di metodo,
sia di merito teatrale.
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A Drena è accaduta una cosa semplice, e importante: se i personaggi a Montalcino sono nati, han preso corpo, breve passato, occhi, gambe, qui ora si guardano intorno, e vogliono subito brigare. Questo è strano, perché in fondo i fratelli cresciuti a Montalcino sono solo cinque (Demetra, Fosca, Gaia, Nano, padre Procolo), su tredici qui presenti. Si vede che questi nuovi fratelli hanno trovato qualcosa che li attendeva, che era pronto: un habitat, o un paesaggio, favorevole alla vita. E sono nati grandi, pronti a lottare.
Ma il compito di qui era la lotta? Probabilmente sì. Dovevamo
aspettarcelo, se ho finito di raccontare Montalcino dicendo che il dramma
atteso non era arrivato ancora: ma ci ha preso lo stesso in contropiede.
Forse la lotta è una forma acerba, arcaica del dramma, e bisogna
passare di lì. Allora diciamo che il compito di tutta la famiglia,
in questa vigilia di Drena, era la lotta dei personaggi, e il compito del
gabinetto drammaturgico era accettarla, seguirla e registrarla. Ma è
stato chiaro solo durante il lavoro, è stato scoperto solo momento
per momento. A me personalmente si è chiarito solo dopo, se non
adesso che lo scrivo. Questa in fondo è un'altra caratteristica
dei sistemi caotici, che bandiscono la certezza previsionale. Affrontavamo
Drena come un processo lineare, in diretta continuità col precedente:
il gabinetto drammaturgico era pronto a guidare, e invece ha dovuto seguire.
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I nuovi fratelli volevano brigare. E gli altri, i registi, i drammaturghi, anche i vecchi fratelli, dopo un primo momento di incertezza, hanno trovato il loro posto in questa briga. Roberto, a nozze, fomentava due o tre fuochi di rivolta (le gemelle Ingrid e Lilith, e Procolo il prete), curandone il maturare delle forme e dei testi. Gabriele si aggirava dall'uno all'altro, diviso tra il compito di tener d'occhio il disegno generale della storia e il flusso del processo da una parte, e dall'altra la necessità di convogliare questa volta gli atti dei fratelli ad un amalgama finale. Laura aveva il suo bel da fare a trasformare la forza di Demetra, per fronteggiare i nuovi attacchi che arrivano da dodici direzioni; faceva questo anche in contrattacco, per esempio assistendo il travaglio, d'attore e personaggio, di Padre Marziale, che sarà un insidioso antagonista. Anche Fosca teneva, ma non senza un visibile affanno, e solo in difesa, la sua posizione in famiglia; mentre Gaia, secondo la sua natura, voleva intrecciare svagate collusioni con questo o quello dei nuovi fratelli turbolenti.
Nel gabinetto drammaturgico lavoravamo, come ho detto, un po' alla cieca: Antonio teneva duro strenuamente sui diari, e registrava per iscritto le nuove vertiginose relazioni. Poi si batteva per stramare il fortissimo fronte verbale della deposizione di Demetra, con certe stecche o aderenze del linguaggio, alla maniera di Guimaraes Rosa. Io, per motivi che qui non sono importanti, avevo sostituito il diario con una videocamera, e filmavo il lavoro della giornata. Ero frastornato dal vorticare delle storie, delle notizie incontrollate, delle versioni che come onde nascevano a decine, obbedivano ormai solo al vento dei conflitti, e infatti si scontravano tra loro. Verso la fine ho deciso di fare un punto di questo caos, in cui temevo di perdere tutto, nel modo usuale: con una forma scritta, da segretario del processo. E' nata così la "Peripezia delle madri", lungo carteggio narrativo, d'uso interno, che ormai registra le versioni coerenti delle storie di sei matrie su sette. Video e "Peripezia" sono stati apporti conservativi, non attivi: ma torneranno utili per preparare il seguito del lavoro.
Molto attivo, drammaturgicamente, è stato invece l'intervento
di Marco Baliani, con colpi da maestro sui tre fronti: l'andamento corretto
del processo, la storia globale e i significati della stirpe, le storie
singole di singoli fratelli. Con lui e Gerardo Guccini il "gabinetto"
ha comunque protetto e fomentato il sistema in caotica espansione. Per
dare un esempio limite: è stata costruita, da Roberto e Gabriele,
una formula algebrica che consente di calcolare il numero x di possibili
relazioni biunivoche tra n personaggi. Se riduciamo una relazione
a un sentimento unitario dominante, fra le sette matrie (anche le matrie
hanno relazioni tra loro in quanto gruppi) sono possibili 21 relazioni;
fra tutti i 21 personaggi dell'alfabeto, cioè della stirpe, queste
relazioni unitarie sono 210.
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Ma al di là di questi stratagemmi, più atti magici che veri attrezzi di lavoro, la drammaturgia ha accompagnato, seguito, stimolato l'accadere teatrale di Drena. Alla fine, i risultati che abbiamo raccolto da questo accadere sono certamente maggiori di quanto sappiamo ora noi stessi: i video, i diari, e tutto il resto, come dirò, ce li riveleranno. Qui, come al solito, tenterò di raccontare almeno il progresso delle storie.
Ingrid e Lilith ora sanno chi è la madre, e ne continuano il compito di rancore e vendetta nei confronti del Colonnello: queste due gemelle orientali, figlie d'una cortigiana di lusso, una Butterfly che il Colonnello ama e abbandona, e che dopo anni di depravazione per questo si uccide, sono un fuoco minaccioso di doppia forza, esplicita e ribelle. La loro protesta è anche patrimoniale, e per la prima volta si parla del danaro di famiglia. Più cupa e forse ancora più pericolosa si rivela la sorda attesa di Ulla, la muta, i cui disegni nei confronti del padre sono inauditi, e ci vuole la forza d'attrice di Maria Maglietta per poterli rivelare a bassa voce ai fratelli allibiti. Marziale il prete, secondogenito della sua matria, è invece il più adulto dei tre, e forse paga di notte al fantasma di un'altra madre suicida il prezzo della sua autorità: autorevole infatti, ambizioso, politico, è la minaccia più esplicita per il dominio di Demetra nella casa, nel cui cortile probabilmente riuscirà a costruire una cappella, fulcro di potere separato. Osso e Scolastica, figli forti di una terra lontana, contadini, emigranti, sono schegge lanciate nel mondo dall'originale universo concentrato del dialetto materno, che esplode, per una volta, in un'atto di generosità e felicità: aspetteranno il padre senza un pensiero né un rancore, sempre che il gioco d'alleanze lo permetta.
Queste sono solo pallide sintesi delle storie dei nuovi fratelli, che abbiamo scoperto: bisogna aggiungere poi le evoluzioni e le reazioni dei cinque vecchi di fronte a quest'onda, e come tutti si alleano o contrastano tra loro, e come contano di destituire Demetra, e perché. Ma dovrei aggiungere soprattutto i visi, le parole, i gesti con cui gli attori sono e fanno queste cose, ed il lavoro per cui ci sono arrivati: e non posso.
Come ho già detto, devo scegliere che cosa raccontare di un accadere
irriducibile ai racconti. Ma se ho scelto di raccontare le drammaturgie,
allora qui devo chiedermi: cosa è questo quadro di rancori, vendette,
attese torve, suicidi e trame? Dov'è finita l'armonia, la coralità,
la pazienza, la mitezza di "Nel tempo tra le guerre"?
Se noi riusciamo a sciogliere il crampo, a liberare la via delle storie
che abbiamo da dire, erano queste le storie che avevamo?
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E allora come faremo, con queste storie, con questo carico di odio verso il padre e verso i fratelli, a costruire una stirpe, e a fondare con essa un millennio? E con questa petulante ciarla melò, con che faccia guardiamo indietro al novecento che preferì tacere? Forse qui il sistema caotico vero è stato questo: o perlomeno alla caoticità del sistema narrante, che ho descritto per Montalcino, qui si è affiancata la caoticità dell'oggetto narrato. Che non è più tanto oggetto, diventa soggetto, nasce, si muove, diventa a sua volta sistema, produce scontri. E siccome i due sistemi sono poi uno solo, il caos sembrerebbe completo.
Bene, non c'è da preoccuparsi veramente. I due sistemi sono in realtà uno solo, o perlomeno si assomigliano molto, e assomigliano al paesaggio intorno, e al mondo ancora più grande intorno a lui: e questo è bene. Potrei dire che certe diffidenze tra attori esterni da una parte, e attori di Settimo, registi e drammaturghi dall'altra, assomigliavano ai tumulti dei nuovi fratelli che mano a mano arrivano alla casa, contro la prima matria che è nata lì: e dentro la quale ancora sono scontri. Potrei dire che la vecchia armonia della famiglia assomigliava alla pace campagnola di Montalcino, e questi scontri generali ora assomigliano alle vedute piene di camion e di turisti, alle giornate interrotte dall'albergo. Potrei dire addirittura che questi conflitti assomigliano a quelli che troviamo dovunque nel mondo, quando apriamo gli armadi, togliamo via gli schemi riduttivi, e guardiamo nella complessità: tra passioni opposte quando scendiamo nel nostro intimo davvero, tra armeni e azeri quando rimuoviamo stati forzati di concordia.
Posso azzardarmi a dire, qui, per una sola volta, che questa litigiosa somiglianza tra soggetto narrante e mondo narrato, e tra essi ed il paesaggio, e il mondo intorno, è proprio la storia che vogliamo raccontare? Che forse è questo "il dramma"? No, sarebbe una petizione di principio, o un salto avanti. Queste cose non vanno proclamate, vanno fatte. Ma posso dire che non c'è da preoccuparsi: occorre pazienza, se possono essere fatte le faremo.
E allora avanti. Niente finora conserva traccia di questi modelli di conflitto, se non gli appunti di Antonio, i video che registrano gli atti e i discorsi, e la nostra memoria labile che inventa. Non son stati fissati, non hanno raggiunto, o non abbiamo voluto che raggiungessero, forme finite: sono rimasti un magma. Come tale, per esempio, sono entrati nello spettacolo finale, le ultime tre sere nella lizza: un ribollire di atti sullo sfondo, abbracci, dispetti, corse, gruppi e alleanze che si fanno e si disfano, come le onde. In primo piano, ancora, le quattro deposizioni di Montalcino: dramma frontale che ora comincia ad acquistare un'ombra, un'eco alle spalle, il presagio di una profondità.
Ma ora dovremo mettere mano a questo magma. E' passato del tempo, e i tumulti hanno sedimentato, con gli odori di Drena, la voce del corvo parlante, ed il paesaggio. Non so come procederemo, se con altri soggiorni di vigilia o con forme diverse: ma quale che sia la strada, abbiamo da parte una grande diceria di parole, tra cui queste, per chiamare un'opera di teatro, perché rimanga con noi, e vada avanti.
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