Parte seconda: VILLA GUASTAVILLANI
Parte
terza: LE PIAZZE
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1 . Compiti
e orari
Ai cento attori riuniti su quel prato, per prima cosa, Baliani
presenta lo schema organizzativo del lavoro: compiti, mansioni, orari.
Sarà un processo performativo, multiforme, continuamente rettificato,
difficile da comprendere standoci dentro, e da narrare da fuori dopo un
anno: per questo era tanto più necessario allora partire con un
ordine degli atti nel tempo, ed è necessario adesso riferirlo. Vediamo
di farlo in fretta.
I cento attori saranno divisi in dieci gruppi, ognuno condotto da una "guida", che sarà assistita da uno "skipper", una sorta di navigatore: guida e skipper hanno il compito di guidare una fase iniziale di training, per favorire conoscenza e affiatamento. Si lavorerà quindi in parte nei gruppi; in parte in "laboratori trasversali" (di danza, composizione drammaturgica, percezione, ed altro), in gruppi più grandi, di venti o trenta persone; e in parte tutti e cento insieme. Il mattino è dedicato ai "laboratori trasversali", il pomeriggio al lavoro dei gruppi: elaboreranno temi e spunti d'improvvisazione stabiliti con le guide al mattino, e li mostreranno dopo cena a tutti gli altri in quelli che chiameremo i "sipari". Baliani, Maria Maglietta ed io lavoreremo insieme nel pomeriggio a comporre le drammaturgie; alla mattina lavorerò da solo, mentre Marco e Maria conducono i loro "laboratori". Ogni giorno, negli orari più opportuni, riunioni di guide, skipper, drammaturghi e regista per fare il punto. Questo è quanto, per la prima settimana: la seconda sarà da riformulare sulla base di quanto accaduto.
Lavoreremo così, ma per far cosa? Dobbiamo costruire dieci azioni, dieci piccoli spettacoli per le dieci piazze. Queste azioni saranno realizzate dai dieci gruppi, e saranno "uguali": per meglio dire, saranno dieci versioni diverse dello stesso testo (o scenario, o schema drammaturgico: ancora non sappiamo come chiamarlo). Poi dobbiamo costruire un atto grande, tutti insieme, per Piazza Maggiore.
Programma di oggi: presentazione del lavoro, discorsi
sui contenuti (la strage) e sulle forme (uno spettacolo, o una cerimonia).
Poi: formazione dei gruppi e giro della villa e dei giardini, dove ogni
gruppo sceglierà un suo sito di lavoro. Poi: tutti quanti in sala
audiovisivi, per vedere i videodocumenti sulla strage che l'Associazione
dei familiari ci ha fornito. Infine cena, e dopo cena libera discussione
tutti insieme.
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2 . Poter fare
Ed ecco. La funzione principale del primo giorno - dice più
o meno Peter Brook - è quella di precedere il secondo: non gli si
può chiedere di più. Noi però giorni ne avevamo pochi,
quindi qualcosa di più l'abbiamo chiesta.
Baliani, Festi ed io, a quel punto, alcune visioni sui contenuti e sulle forme le avevamo, e il primo giorno, esaurita la questione degli orari, ne abbiamo parlato. Abbiamo parlato della strage, delle vicende processuali, delle altre stragi e del disegno stragista a cento giovani, parecchi dei quali all'epoca della strage di Bologna avevano otto anni. Abbiamo detto poche cose, non diverse da quelle che si possono sentire in televisione, o leggere sui giornali o sui libri, e che di certo quei giovani avranno orecchiato, nel brusio dell'informazione, cento volte. Solo che stavolta si trattava del tema del nostro lavoro: e questa volta stavano ascoltando.
Poi, dopo le parole, è stata la volta delle immagini, con la loro proverbiale dirompenza: quasi due ore di immagini televisive, che alcuni non avevano mai visto, molti non ricordavano, e qualcuno non ha retto. Erano i videodocumenti messi a disposizione dal Comitato dei parenti delle vittime: brani di telegiornali, specials, riprese amatoriali.
Dopo cena, nella sala grande della villa, è arrivato il contraccolpo. Una discussione generale, nata impacciata, tesa, mai falsa, e subito straripata nell'urgenza, nel conflitto, nell'ansia, nel senso d'impotenza, o al contrario nella determinazione: e comunque nella presenza forte e totale di ciascuno davanti a quei fatti. Abbiamo detto che "stavano ascoltando": cosa vuol dire? Quando, perché si ascolta?
Torniamo indietro di qualche ora. Nella nostra breve introduzione sulle stragi, quel pomeriggio sul prato, avevamo citato un pensiero di Bobbio: "Le stragi dovevano restare impunite poiché questo è un aspetto non secondario della strategia posta in atto: ingenerare nell'opinione pubblica un senso di profonda frustrazione e di totale sfiducia nei confronti dell'autorità e dello stesso impegno politico...". Poi abbiamo letto ciò che dice Ismene, sorella mite di Antigone ribelle: "Meschina, io cosa posso fare e disfare? (...) No, bisogna pensare che siamo solo due donne, e non siamo nate per lottare con uomini. Chi regna e comanda è assai più forte...". E più tardi, nella discussione, una ragazza ha detto: "Guardando i video, non pensavo solo alla strage di Bologna. Pensavo alla guerra del Golfo, e a tutte le altre cose pessime successe di recente. Nei video mi hanno colpito quei lunghi momenti di silenzio. Invece le immagini della guerra erano sommerse di parole, di opinioni, di chiacchiere, e io non capivo più chi aveva ragione e chi torto. E quindi adesso non so contro chi protestare, non posso fare nulla. E' questo silenzio alla radice dell'oblio".
Allora ecco: fare, e prima ancora poter fare.
Forse è così, forse è allora che si ascolta: quando
si vede un barlume di possibilità di fare, dopo aver ascoltato,
qualcosa. Se questo barlume, per qualsiasi motivo, non c'è; se ciò
che ci viene chiesto è d'essere informati sempre più, di
ascoltare e guardare sempre più, e fare sempre meno: allora sentiamo
e vediamo, ma non guardiamo e non ascoltiamo più.
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3 . Il "miracolo" di
Piazza Maggiore
Ed ecco perché, invece, quei cento giovani quel pomeriggio
hanno ascoltato. Erano lì per fare teatro, chiné per fare.
Un certo teatro chiede agli attori di recitare bene i copioni che ricevono,
ed è cosa legittima e anche illustre. Un altro teatro chiede loro
di fare. Quei ragazzi lo sapevano, ne erano stati avvertiti come
primissima cosa. Guardate - aveva detto più o meno Baliani - voi
provenite da diverse scuole, dove s'insegnano diversi tipi di teatro: tutto
è utile, ma qui vi chiederemo altre cose. E forse per via dell'età,
forse perché così poco "mestieranti", forse perché
i colloqui delle selezioni avevano già chiarito la questione e vagliato
le persone in base ad essa - hanno capito benissimo quanto veniva chiesto.
Se il tema del lavoro fosse stato Amleto, o la polenta, quei ragazzi avrebbero ascoltato con mille orecchie le figure e gli scenari di quel tema, per assorbirne più che si può: perché sapevano che subito dopo sarebbero stati chiamati a fare, a restituire qualcosa di proprio su ciò che avevano ascoltato. Il tema, questa volta, era la strage: hanno ascoltato gli scenari della strage. E, come prima conseguenza, si sono accorti che era come li stessero sentendo per la prima volta lì e quel giorno.
Ma la strage non è Amleto o la polenta. Allora, come seconda conseguenza, si sono accorti che veniva loro offerta una possibilità unica: quella di fare qualcosa, di esserci, per una volta, di far sentire la propria voce in qualche modo davanti al muto frastuono di sempre. Questi cento sono ragazzi come gli altri, il loro destino sarà quello di tutti. Se gli va bene, dovranno maneggiare copioni anziché dentiere o pratiche contabili: ma sentiranno di contare zero davanti a una strage, o alla composizione di un governo, o alla prossima guerra del fianco sud. Sentiranno, come noi tutti, di non aver voce in capitolo. Ora il capitolo la voce gliela offre. Per la volontà di alcuni uomini azzardati, per il caso fortuito, per i conti della spesa, che dicono che cento professionisti non si possono pagare, e neanche trenta - è capitato a loro: chiné a quelli cui non capita mai, e purtroppo, forse, non capiterà più.
La notte del primo agosto, il giorno dopo, e ancora dopo molti mesi da allora, con Baliani, con Festi, con altri, ci siamo trovati a interrogarci sul "miracolo" di Piazza Maggiore. Il miracolo è che tutto ha funzionato, nonostante sia stato provato poco e niente. Nonostante si trattasse di coreografie, movimenti d'insieme, atti e parole complesse, e ogni cosa moltiplicata per cento. Nonostante i microfoni andassero male, due giorni di pioggia ci avessero rubato la piazza, nonostante mille altre traversie. Tutto ha funzionato bene, ma anche qualcosa in più. Questo qualcosa, che non è pulizia d'esecuzione né talento, è stato al centro di molte e belle ipotesi, e alcune le accenneremo anche più tardi.
Ma io son convinto di una, sopra tutte. Abbiamo
detto: è capitato a loro, a quelli cui non capita mai e non capita
più. Bene: se ne sono accorti, e non si son lasciati scappare l'occasione.
Attori famosi, abituati ad aver voce in capitolo, avrebbero fatto meglio?
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4 . Il motore drammaturgico è
partito
Torniamo alla famosa discussione, che sarà menzionata
spesso nel lavoro seguente come "discussione politica" (e anche
noi la chiameremo così). Il motore della drammaturgia era già
partito. Né l'accensione né lo scoppio erano ancora di natura
teatrale; gli attori, stimolati da documenti e scenari della realtà
(non da testi o atti teatrali), rispondevano in forme concettuali: coi
discorsi. Ma dentro questi discorsi c'erano immagini, affermazioni, strutture
d'atti, modelli di conflitti, suoni e gesti e oggetti di cui poi la drammaturgia
farà benzina.
Orologi, cassette, borse, fogli stracciati: le cose dei morti, che abbiamo visto nei video sparse tra le macerie, o tra le mani dei soccorritori inebetiti. Questi oggetti dicono subito qualcosa di molto piccolo e potente, che non sfugge a nessuno, e molti li elencano nella discussione. Diventeranno uno dei fulcri del lavoro drammatico, e i soli oggetti usati in scena oltre alle pietre. "Quel vecchio che girava piangendo con voce infantile, si toccava l'orecchio, voleva aiutare ma non sapeva cosa fare..." - dirà uno: diventerà un personaggio, lo Sbandato. Un rapido e potente contrasto, che nasce a un certo punto tra quattro o cinque intorno ai modi di reazione più opportuni, verrà più tardi riscritto, quasi con le stesse parole: sarà il Dialogo tra l'Innocente e il Consapevole, unico dialogo di tutta l'Antigone delle città. E una risata nervosa, liberatoria, che scoppia tra i ragazzi dopo un'ora di visione, quando viene inquadrato un titolo di giornale che strilla "questa volta bisogna prenderli subito"; a proposito di quella risata, poco dopo qualcuno dirà: "No, io non voglio parlare del dolore. Bisogna reagire con forza, con gioia. Bisogna partire da quella risata". La prima cosa che si sente nelle piazzette, la sera del primo agosto, è una risata.
Questi sono solo quattro esempi: almeno altri
venti temi sono emersi da quella discussione e sono entrati nel motore.
Accanto a questi, altri provenienti da altre fonti: libri, gesti, cose,
pensieri, portati dai drammaturghi e dagli attori, o trovati nel cammino.
A questo punto bisogna parlare del motore, o di uno fra i motori del processo:
la drammaturgia.
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5 . Zen e motocicletta
Ne parliamo in termini astratti, astraendoci cioè per
un momento dal lavoro di quei giorni in quel luogo. Non perché sia
lecito azzardare un "modello", o peggio un "metodo",
ma per brevità e chiarezza: verrà subito ricalato nel suo
ambiente. E comunque, per attenuarne l'arida astrazione, spingiamo a fondo
questa metafora sorniona, che avvicina modelli logici distanti (come lo
Zen con la motocicletta).
Pensiamo a un motore con le sue quattro fasi: aspirazione, compressione, scoppio e scarico. Prima fase, l'aspirazione: questo motore succhia la benzina, chiné raccoglie una carica di "input". Si aspirano i materiali più diversi: testi o brani, teatrali o letterari, scritture originali, forme gestuali o testuali tratte dalle improvvisazioni degli attori, immagini, musiche, oggetti; ma anche racconti di fatti pubblici e privati, opinioni, visioni del mondo, casi e accidenti capitati nel frattempo. Questi ingredienti sono in parte casuali e in parte no: sono infatti innescati, orientati, scelti o scartati in base a uno sfondo di riferimento, una "mappa". Questa mappa è il sistema d'orientamento che chi guida il processo, per quanto labile e aperto, deve già avere in mente dall'inizio: per sapere dove andare (più o meno) e in quanti giorni (questo con precisione).
Seconda fase: i materiali aspirati vengono compressi. Vengono cioè avvicinati, confrontati uno con l'altro, e tutti con la mappa. Qui accadrà che, fatalmente, alcune cose torneranno più utili, altre meno; alcune cose si accenderanno a vicenda, come una "luccicanza", e così diverranno più forti, ed altre meno. Le più forti e le più utili resisteranno alla compressione, le più deboli o superflue saranno un po' schiacciate, e serviranno comunque a far pressione e calore. Ma attenzione: anche la mappa, anche il progetto del drammaturgo e del regista dovrà misurarsi in questa compressione, e deformarsi per contenere più e meglio. E spesso accadrà che deformandosi non perda, ma al contrario si arricchisca: che scopra soluzioni nuove, rivelazioni e moltiplicazioni del senso, angoli dello sguardo che ignorava. Se questo accade, se la miscela è buona e ben compressa, questa miscela si incendia ed è lo scoppio. Ciò che c'è ora nel motore è qualcosa di diverso dalla mera somma di parti e schema che vi era entrato: è diventato forma organica (cioè legata nelle sue parti, dotata di senso), e forza propulsiva.
Allora arriva la quarta fase, lo scarico:
restituire i materiali trasformati. E qui il motore del teatro, se lavora
a buon regime, si differenzia da quello delle auto, e non inquina. Non
scarica residui incombusti (non dovrebbe...), ma li rimette in circolo,
per bruciarli del tutto nelle forme definitive che verranno. I materiali,
compressi e "accesi" sul tavolino della drammaturgia, vengono
restituiti agli attori sotto la guida del regista, che insieme a loro li
lavora sulla scena, li prova alla prova del teatro vivo, fatto di persone
vive e irripetibili, che li fanno propri e li modificano ancora. E ancora,
modificati, divengono nuovo materiale d'aspirazione per la prossima seduta
di drammaturgia. E la macchina va.
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6 . I gruppi
Torniamo alla Villa. Il giorno dopo, a mezzogiorno, nella riunione
con guide e skipper, risulterà già chiaro che il tempo a
disposizione dei gruppi è troppo poco: devono conoscersi, prendere
un minimo di respiro comune, realizzare le improvvisazioni sui temi dati,
e mostrarle alla sera. Saltano subito i "laboratori trasversali"
della mattina, e la funzione pensata per loro si sposta da sé su
altri momenti e luoghi. Uno solo, importantissimo, resta: Maia Cornacchia
gira di gruppo in gruppo, cinque al giorno, per un'ora di lavoro su "percezione,
ascolto, attenzione" (ne parleremo meglio). Tolta dunque quest'ora
ogni due giorni, da ora i gruppi hanno mattina e pomeriggio.
I primi temi per le improvvisazioni sono due : la pietra ("scegliere una pietra, e prendersene cura"), e le macerie ("sei davanti a questo mucchio: cosa fai?").
I dieci gruppi si mettono d'accordo per i turni sui mucchi delle macerie, che sono solo due: questo traffico dei turni sarà uno dei tormentoni del lavoro, con grandi tabelle d'orari, sforamenti, recuperi, proteste. Chi non lavora sulle macerie è nel suo sito. Per fortuna lo spazio è generoso, e riescono tutti a infrattarsi, distanti uno dall'altro: sotto gli alberi in fondo al grande prato posteriore, nel giardino di fronte, dietro le siepi, nel bosco contiguo alla villa. Qualcuno, quando serve, utilizza una vasta sala laterale, che chiamiamo palestra. Nico Garrone, venuto a visitarci per due giorni con la troupe di RAI 3, dirà che sembra un campus americano.
E cosa fanno rintanati in questi siti? Fanno training, fisico e scenico, interazioni, affiatamento, attenzione reciproca. Leggono, scrivono, discutono. Cantano molto: i due canti scelti per l'Antigone, il canto yiddish e la ninnananna salentina, che alla fine saranno musiche di scena, ma per ora sono strumenti del respiro comune, oltre che piccoli riti marcatori del lavoro (all'inizio e alla fine, per esempio). Suonano: ogni gruppo ha un paio d'attori musicisti (tante fisarmoniche, flauti, chitarre), che suoneranno nel loro gruppo sulle piazze, e tutti insieme in una piccola orchestra in Piazza Maggiore. Provano le improvvisazioni, le ripetono, le correggono su indicazioni della guida, che sempre più col passare dei giorni assomiglia a un regista. Poi, al loro turno, occupano le macerie per due ore, e verificano alla prova della scena i lavori di tutta una giornata.
Al terzo giorno, nella solita riunione, chiediamo alle guide e agli skipper come va. Si sente dire: "sono giovanissimi, insicuri, un po' timidi"; "c'è molta generosità: sulle macerie un lavoro da guerriglieri"; "non paiono aver difficoltà a relazionarsi tra loro"; "sono un po' sconcertati, vogliono capire perché sono qui"; "ma accettano anche l'ignoto, sono molto curiosi, fiduciosi"; "sono stati subito d'accordo a lasciar da parte la strage, e lavorare a 360 gradi, al di là dei temi"; "si spazia da Shakespeare alla poesia slava"; "sono impauriti, ma disponibili a rischiare".
Lavoreranno molto duramente, e con grande allegria,
per sedici giorni di molte ore l'uno. Rideranno e faranno cagnara qualche
notte, brontoleranno sarcasmi per i compiti bizzarri di fare e rifare,
dire e ridire, o per i loro colleghi primedonne che si mettono in mostra.
Si faranno anche male: quelle macerie su cui corrono di slancio, prima
d'essere domate da giorni e giorni di piedi, erano irte di cocci di mattone,
e ogni tanto qualcuno si presenta con bende e cerotti. Ma neanche uno si
tirerà mai indietro, e la notte del primo agosto faranno "il
miracolo" di Piazza Maggiore.
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7 . Le presentazioni
A ciascuno di questi cento attori Baliani, già dalle
selezioni mesi prima, aveva chiesto di portare con sé alcune cose:
un vestito, un oggetto, una foto che porterebbe in un viaggio, o che gli
siano particolarmente cari; e un brano di testo che rappresenti per lui
un momento di pienezza della vita. Ora, il pomeriggio del secondo giorno,
ad ognuno viene chiesto di mostrare e presentare questi oggetti a tutti
gli altri.
Le motivazioni di questo lavoro sono chiare, e sempre quelle: la presenza, la massima presenza possibile delle persone intere, con tutto il bagaglio di ricordi e possessi, piccoli e grandi. Portare questi oggetti, questi piccoli lari familiari, significa portarsi appresso in questo lavoro, non lasciarsi fuori. E comunicarli a tutti gli altri, mettere in comune queste presenze, significa costruire una comunità presente a se stessa.
Il compito è difficile, ma viene subito colto: entrare in un gran cerchio e parlare a tutti, ma senza recitare. Alcuni mascherano appena l'imbarazzo dietro una affettuosa autoironia, e ridono e fanno ridere; altri si commuovono francamente, e commuovono; altri raccontano le cose con semplicità, come fossero tra i loro amici; pochi recitano, pochissimi cercano di stupire.
Parte Carlotta: un giubbotto jeans, un delfino di peluche ("ho tante cose a forma di delfino"), un anello regalo della mamma, un racconto scritto da un suo amico. Segue Maria: "una foto dove si vede mio padre, che mentre io faccio questa faccia... me la rifa"; una maglietta messa alla maturità, una borsa del Guatemala, comprata lì, la più bella vacanza; un pezzo di Peter Handke da "Il cielo sopra Berlino".
E via, avanti per due ore. Quella sera stessa sarà chiara una cosa, e poco dopo - o forse insieme - un'altra. La prima è che se queste presentazioni durano dieci minuti l'una, moltiplicate per cento, sono quasi diciasette ore. Non le abbiamo: bisogna stringere a due minuti, tre. La seconda è che, anche così, non possiamo permetterci di dedicare tanto tempo a un lavoro "collaterale", utilissimo alla temperie umana del processo, ma che non produce forme immediatamente trasferibili in scena. E allora che le produca: sintetizzare per poter parlare tutti, e sintetizzare per poter portare in scena.
Quale di queste due motivazioni è nata prima? Nessuna è nata prima, sono scaturite insieme, innescandosi e alimentandosi a vicenda. Ecco un'occasione per attenuare l'astrazione del motore. Abbiamo detto che è un motore a quattro tempi, e li abbiamo descritti uno per uno: ma in realtà son quattro, o forse due, o otto tempi simultanei. Cause e momenti eterogenei, più o meno "puramente teatrali", interagiscono tra loro, ed insieme (simultaneamente) determinano le scelte formali del processo. D'altronde anche nei motori veri, quale orecchio può percepire i quattro tempi, quando girano bene?
Dunque stringere per poter parlare tutti, e stringere
per poter portare in scena: e portare in scena perché sono forme
efficaci ed appropriate. Ecco nascere, in apparenza dopo le prime ma in
realtà ancora simultanea, la terza motivazione, che parrebbe l'unica
drammaturgicamente pertinente: queste piccole descrizioni di "effetti
personali" sono in realtà narrazioni piene di forza e verità
già in sé e per sé, ma ancora di più se collocate
nel grande sfondo della strage. Ricordate "le cose dei morti"
viste nei video, e menzionate da tutti nella discussione?
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8 . Le poesie
Facciamo ancora un altro salto indietro, torniamo ancora a quella
discussione. Prima di essa, erano state distribuite a tutti gli attori
le fotocopie dei tre poemi di Fortini, Loi e D'Elia, di cui non abbiamo
ancora parlato. Baliani aveva aggiunto un compito: ognuno doveva scegliere,
e segnarsi, frammenti che piacessero, colpissero, irritassero, o altro.
Alla fine della discussione politica, a ferro caldo, ancora seduti in cerchio
nella sala, Baliani chiese che ognuno dicesse i suoi frammenti: senza recitare,
senza un ordine prestabilito, solo prestando ascolto al tempo giusto, a
non sovrapporsi. Capitò allora una cosa strana, che Baliani ricorda
così:
"Quella fu la prima volta che sentii un gruppo,
una coralità di cento persone. L'atmosfera finì per caricarsi
molto di energia. Io lo sentii, e chiesi a due o tre che conoscevano già
la ninnananna di cantarla. La cantarono, e quelli che avevano detto
già il loro pezzo, contravvenendo alle indicazioni, lo dissero ancora,
e ancora, con sempre maggior forza, e alla fine ci fu un potente vociare
collettivo, da cui poi nacque l'idea del vociare all'arrivo in Piazza.
Cosa era successo? Che gli attori erano stati costretti a stabilire subito
un cortocircuito tra la sostanza e alcune forme atte ad esprimerla:
cioè tra i materiali dei video e della discussione - che erano una
presa di contatto concettuale e diretta con la sostanza - e le poesie,
che in quanto tali sono linguaggio che attraversa la sostanza, non la descrive.
Per la prima volta si son sentiti chiamati come attori, come soggetti creativi.
Erano loro a scegliere, a parlare: e sono stati molto precisi e forti nella
scelta e nell'espressione dei frammenti. E' stato un modo forte di appropriarsi
del testo poetico, che ha consentito di accettarlo in seguito anche nel
coro, la parte più formalizzata e difficile di Piazza Maggiore".
I poemi di Fortini, Loi e D'Elia, insieme ad alcune condizioni scenografiche (macerie nelle piazzette e piramide in Piazza Maggiore), erano gli unici elementi drammaturgici nati fuori del processo di Villa Guastavillani, e imposti ad esso. Non che ciò fosse in sé negativo, tutt'altro. Solo che in questo tipo di processi teatrali l'appropriazione del testo letterario da parte di chi deve non porgerlo, ma "testimoniarlo" al pubblico, da un lato è condizione sine qua non - se non vuol rendere falsa testimonianza. E dall'altro non può avvenire per strade meramente tecniche, pur legittime ed anzi illustri altrove. E noi eravamo un poco preoccupati: i poeti avevano dato sì licenza ad ogni manipolazione necessaria dei loro versi, ma noi sappiamo quanto siano suscettibili, e a buon diritto, per parte loro.
Questo infatti è un altro dei problemi complessi che qui possiamo solo sfiorare: e non riguarda le qualità o caratteristiche intrinseche dei poemi, ma il loro rapporto con noi. I tre poemi andavano bene: moltissimi passi di Fortini e molti di Loi (meno, sinceramente, di D'Elia) erano già "teatrali" a primo impatto: cioè - per esser brevi - già fisici, parlabili e agibili, parole che si possono "fare". Altri lo erano meno, pur adattissimi a un dicitore con leggio (parole che si possono "dire"), e altri affatto (pur essendo bellissime parole che si possono "leggere" con gli occhi). Ciò non significa che, lavorandoci a lungo, non si potesse trovare anche per questi ultimi, e per tutti, quella strada che unisce la massima presenza del testo con la massima presenza del suo "testimone". Ma tempo appunto ne avevamo poco.
E allora abbiamo approfittato del "cortocircuito" che dice Baliani quassù. Gli attori avevano scelto i frammenti a freddo, prima dei video e della discussione, in base a competenze o vagli diversi, ma probabilmente senza una forte risonanza tra il proprio essere intero (il proprio "corpo", si dice in questo teatro, e non si parla solo di membra) e quei versi. Probabilmente fra loro e i versi c'era il filtro delle preoccupazioni dell'attore (come li dirò, che toni, che vocali aperte e chiuse, che pause), a separarli. Bene: a ferro caldo, nel colmo della necessità del dire, sono state chieste loro parole forti, parole del corpo che fa, dopo quelle della mente che discute. Avevano tra mano quelle, hanno detto quelle, e infine le hanno gridate, dimenticando le vocali aperte o chiuse. Allora il filtro è scomparso, la distanza fra il parlante e le sue parole si è azzerata, e quelle parole si sono incendiate della necessità di chi le urlava. Questa necessità si è combinata con la necessità di chi le ha scritte, incendiandosi ancora di più. Insomma, io mi sono trovato lì a pensare: perché questi tre poeti non sono qui, ora? Non so quante letture d'attore, con o senza leggio, abbiano avuto, ma forse non hanno mai sentito i loro versi detti così.
Comunque la scelta era fatta. Dopo che tutto era
finito, uno ad uno, i cento attori sono venuti da me e hanno segnalato
i loro frammenti, pagina tale da qui a qui. Non sapevamo ancora come, ma
quelli avremmo utilizzato.
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9 . Le improvvisazioni
I compiti e gli orari, di cui abbiamo parlato all'inizio, si
sono ormai scomposti e ricomposti. Ora Marco Baliani lavora alla mattina
nel gabinetto drammaturgico, tenendosi però libero per altre mille
spedizioni "là fuori". Nel pomeriggio io proseguo da solo,
e Marco gira tra i gruppi.
Siamo al quinto o sesto giorno, i gruppi hanno saltato di livello: dopo il training dedicato a formare una base comune (che tuttavia continua), e dopo le prime improvvisazioni su temi dati, cominciano a prodursene di nuove, innescate da quelle o nate da altre fonti. Baliani fa la spola tra i due mucchi di macerie, dove si vedono le cose più formalizzate. Lavora nei due sensi: dà e prende. Dà consigli, indicazioni, correzioni sul piano puramente attorale. Intenzione, energia, presenza, trucchi ("Tu hai perso lo sguardo, tu hai perso lo sguardo e tu hai perso lo sguardo..."): quella bellissima manifattura della scena che è comune ad ogni teatro. E che qui, ancora una volta, dovremo sorvolare.
Poi prende: spunti, figure, atti compiuti o solo colori e intenzioni degli atti. Talvolta lo affianco col quaderno, e poi confrontiamo. E qui accade un'altra cosa importantissima, e stavolta peculiare di questo processo. Dieci gruppi stanno producendo forme diverse, ognuno per conto suo: alcune forme ora migrano da un gruppo a tutti gli altri, disseminate da questa regia pellegrinante, come pollini. Una bella macchina d'economia anche questa, atta a compensare col gran numero il poco tempo. Con uno schema un po' brutale, eccola qua: un solo gruppo ha bisogno di molto tempo per produrre le cento forme da cui poi selezionare le dieci più adatte a uno spettacolo; in poco tempo ne produrrà dieci, di cui buona una. Ma se i gruppi sono dieci, ecco di nuovo le dieci forme buone.
Occorre però un organismo - non basta un'ape - che le metta insieme e le ridistribuisca a tutti quanti. Questo organismo è la sala audiovisivi in cui ogni giorno si riuniscono col regista le guide e gli skipper. Baliani descrive ciò che ha visto nelle improvvisazioni, o ciò che ha scelto da ciò che ha visto. Le guide sono teatranti esperti, non c'è bisogno che vadano a vedersi il campione originale. Anzi, sarebbe un errore: Baliani invita senza tregua a dare le proprie versioni di questi elementi (che lui chiama "strutture"), e non riprodurre quella del gruppo che le ha trovate per primo.
Ecco allora, nata nel gruppo di Gabriele Duma,
diffondersi a tutti gli altri la figura del blacKout: cadere,
crollare, sgonfiarsi all'improvviso nel mezzo della pienezza di un'azione.
E mentre viene rilanciata da Baliani, la figura matura, si trasforma:
"ricadere una, due, tre, quattro volte, ritirandosi
indietro; aumentare il ritmo delle cadute; non cadere del tutto, cadere
a metà; cadere, e uno sostiene l'altro (ieri era molto bello quando
l'avete fatto), con modalità diverse, anche lì: uno arriva
tardi, uno riesce a tenere solo la testa, uno riesce ad abbracciare del
tutto...".
Ecco il personaggio del mortoviaggiatore,
nato nel gruppo di Pippo Del Bono: un tipo che viene su da dietro le macerie
con un larghissimo sorriso, grondante di polvere.
"E' la figura del morto che sta ancora fermo
all'attimo in cui la bomba è scoppiata; sta ancora cercando le cose
che aveva con sé alla stazione quel giorno; non ha ancora avuto
pace, non lo sa che la bomba è scoppiata: è quello che non
sa di essere morto...".
Ecco il volo dei morti: tutti i dieci attori che svolano sulle macerie in uno stormo, ridendo, chiacchierando, cantando. O i ciechi, che cercano tra le macerie le loro piccole cose. Il saluto ai morti, coi dieci che vengono avanti giù dal mucchio e verso gli spettatori, e salutano qualcuno lontano sopra le loro teste ("Ciao Marò..."). O le deposizioni, figurazioni a coppie dove un vivo sostiene e piange un morto: con varianti solenni, patetiche, garbate. O violente e indimenticabili, come quella dei "cuccioli", due dei giovanissimi di Parma: il vivo rotolava col morto, lo rizzava e giù di nuovo senza sosta, in abbracci che erano prese di lotta fraterna e disperata, violenta e senza un suono.
E via ancora: la ragazza che ride e va
a prendere tra il pubblico l'amica, la danza silenziosa, il lastricato
su cui cammina Ismene. Ogni gruppo accoglieva le immagini proposte, le
interpretava, le maturava; dopodiché venivano ancora raccolte, e
riproposte mature agli altri. Oltre metà delle figure delle piazze
sono nate da questi giri di motore.
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10. Le scritture
Intanto, sui tavoli del gabinetto drammaturgico si affollavano
carte e cartigli. Una bomba è esplosa in una libreria - dicevamo
- e ora frammenti volano dovunque: questa è una drammaturgia da
primi soccorsi. Un computer trasformava queste carte (che erano libri con
segnalibri, fotocopie, dattiloscritti, foglietti sparsi vergati a mano)
in forme più facili da maneggiare, tagliare, incollare, riprodurre.
E non era civetteria tecnologica: prova ne sia che c'è voluto un
secondo computer, e la pazienza di Roberta Lipparini accanto a me a digitare
testi e testi.
C'erano i versi dei tre poeti, e tra essi i frammenti scelti dagli attori, di cui abbiamo parlato. Ma accanto ad essi c'erano molte eterogenee "famiglie" di testi e scritture, che qui elenchiamo in ordine casuale.
C'erano i brani letterari portati dai cento attori nelle loro "presentazioni", assieme ad oggetti e vesti (il "libro in borsa"). Questi venivano raccolti da Roberta Lipparini (pile di libri con segni), che ne estraeva quattro o cinque righe. Stampati in striscioline e ridistribuiti ai loro proprietari, saranno poi fra i testi della scena delle presentazioni, nelle piazzette.
C'erano alcuni frammenti dall'Antigone di Sofocle, che ero stato incaricato di scegliere e trascrivere.
C'erano altri frammenti letterari un po' più estesi, segnalati da diverse persone, trascritti e lasciati lì in attesa che maturasse il loro posto in scena. Matureranno brani da Camus, Yourcenar, Handke, Giampietro Testa (poeta autore di ottantacinque frammenti lirici sulla strage, uno per ogni morto) e Sebastiano Aglieco (un attore dei nostri, che ha portato un bel brano scritto da lui: sarà il testo della "visione" della banda).
C'erano quelli che chiamavamo "testi politici", o "testi freddi", di grande importanza e dirompente impatto sulla scena: brani estratti, con mille precauzioni (non solo drammaturgiche, anche "legali"), da parti della sentenzaordinanza depositata dai giudici bolognesi nel giugno dell'86, trovate nel libro La strage. Alcuni di questi testi erano così gelidi ed estranei da possedere già, per ossimoro, una possente drammaticità ("distanza entro cui si ebbe morte diretta: m 45; distanza entro cui si ebbero danni molto gravi: m 1012...", etc.). Altri (come le liste dei "nomi"), erano ardui da maneggiare in scena, e perfino da ricordare: e son dovuti passare attraverso molte e faticose ristampe di sintesi e sottrazione.
C'erano infine alcuni brani originali, scritti
lì da me e Baliani insieme per funzioni sceniche particolari che
parevano chiederlo. La scrittura a quattro mani, che scivolava via molto
agevole (e non è facile), nella media funzionava così: io
scrivevo la prima, Baliani riscriveva la seconda (in genere "tagliando"),
io riscrivevo l'ultima aggiustando. I brani sono: la Storia di Antigone,
affidata poi in Piazza Maggiore a tre anziane signore bolognesi, di cui
parleremo tra poco; il Dialogo tra l'Innocente e il Consapevole,
estratto e riscritto dalla "discussione politica" della prima
sera; Ismene la sposa, scritto per dar voce anche letteraria e testuale
al compito di "nutrire i morti perché crescano sani e forti",
che era un tema delle improvvisazioni; e infine Le nuove mura, il
"proclama finale" che Baliani ed io ci siamo voluti riservare
(vale bene anche per noi quanto detto intorno all'occasione unica per aver
voce in capitolo, e al non lasciarsela scappare...).
"Una delle cose più interessanti in
questo lavoro - dirà tempo dopo Baliani - è stato proprio
il rapporto tra scrittura e drammaturgia. Bologna è stato uno degli
esempi a cielo aperto in cui la scrittura era anch'essa performativa.
Questo è quello che io cerco in teatro: la possibilità che
la scrittura avvenga, e non sia data."
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11. Le visite
La sesta sera, domenica ventuno, riceviamo una visita: tre anziane
signore bolognesi, Pina Pirani, e Maria e Giuseppina Bonora, che con l'aiuto
del regista Nino Campisi hanno preparato uno spettacolo di racconti. Anna
Amadori, una guida che le conosce, ha insistito perché venissero
a mostrarcelo: è attinente al tema della memoria - diceva - che
per noi è centrale. Ed ora le tre signore (intorno agli ottanta)
son lì un po' impaurite, con un tavolo e tre sedie, davanti alla
scalinata gremita di centoventi curiosi. Con una blanda struttura di luci
e musiche, e con alcune proiezioni di immagini d'epoca, il racconto si
snoda.
Le narratrici a turno si alzano a parlare: son storie vere, di guerra e Resistenza, di mondine in risaia, di scioperi e lotte. Sono i loro ricordi, ma scritti e corretti son divenuti "testo", battute, che vengono recitate con purissimi accenti amatoriali, e per l'emozione si possono sbagliare. Ma ogni tanto queste tre anziane signore si alzano insieme e cantano i loro canti di lavoro: allora ogni scrittura scompare, e con lei ogni impaccio, e nelle voci senili fini e forti scorre una solidissima verità.
Sarà stata la temperatura emotiva dello stage, l'allenamento all'attenzione, o l'occhieggiare di queste verità, ma un flusso caldo si stabilisce tra loro e i ragazzi sulla scalinata: applaudono, ridono - mai di loro, con loro: e le tre, che lo capiscono subito, ridono con loro e si distendono sempre più. Alla fine molti (anzi: molte ragazze, ed è importante) scendono per abbracciarle.
E forse questo quadro, molto più che qualsiasi altra valutazione di opportunità teatrale, rinforza ed arricchisce un'idea che era già all'orizzonte. Tre vecchie della memoria consegnano i racconti, la testimonianza di quanto è accaduto, perché non si perda con loro: e dieci ragazze la raccolgono, la accettano, e vanno a ringraziarle commosse. Sembra davvero un passamano, una staffetta.
E' giusto che siano queste tre anziane bolognesi, dall'accento rischioso, a raccontare ciò che è accaduto duemilacinquecento anni fa ("e che può ancora accadere. Diverso, ma può ancora accadere"); a riferire a tutti i cittadini la Storia di Antigone, scritta da noi ("perché la sappiate") in un riassunto. Ed è giusto che sia il coro delle Donne, proprio chi le abbracciava quella sera, a sostenerle mentre salgono la piramide per parlare, e a sedersi poi ai loro piedi mentre parlano, con lo stesso abbraccio, con lo stesso mandato di parlare.
Le sosterranno - dice Baliani mentre istruisce le attrici - con lo stesso abbraccio che abbiamo visto insieme in quella sequenza del Living, quando Antigone e Ismene avanzano, all'inizio. Ecco ancora un'altra visita, che è venuta a trovarci da lontano, ma in video: un video dell'Antigone del Living Theatre, girato molti anni fa al Petruzzelli di Bari, e mostrato nella sala audiovisivi una delle prime sere. Oltre a suggestioni più elusive, che riguardano le lunghe ombre tenaci di Antigone e di Julian Beck sul teatro (e che qui non è agevole elencare), alcune precise figure vengono attinte da questa fonte; tra esse, oltre all'abbraccio delle Donne alle tre vecchie, il "funerale indù": l'ultimo caduto nella catena dei morti sulla piramide, che i Giovani solleveranno alto su cento braccia (per il Living è Eteocle), faranno avanzare in una sequela brulicante, e infine deporranno in cima, ai piedi del Poeta.
Ecco, dunque, ancora un'altra famiglia di input:
queste visite, queste sorprese che ci vengono dal "mondo là
fuori", eterogenee tra loro e rispetto agli altri elementi in gioco,
e che si aggiungono ad essi nell'alimentare il motore della drammaturgia.
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12. Pieno regime
Oramai questo motore sta marciando a pieno regime, aspira e
macina simultaneamente tutte le cose che una per una ho raccontato. Battute,
gesti, oggetti di scena, brani di testi arrivano dal gran cerchio delle
"presentazioni", che continuerà a formarsi ogni pomeriggio
fin quasi alla fine, fino a che l'ultimo si sia presentato. I frammenti
dei tre poemi, selezionati dagli attori, sono già in circolo, pronti
per ogni uso e montaggio. Dal lavoro dei gruppi sulle macerie e nei loro
siti arrivano figure, atti, parole, danze, personaggi. Altre figure e altri
personaggi arrivano da visite, doni, casi, o altre afferenze laterali del
percorso. Nel gabinetto drammaturgico entrano scritture ed escono fotocopie
di ogni tipo.
Ma il motore per inventare testi e azioni non è l'unico. A cerchi concentrici, altri dispositivi per l'invenzione e la preparazione delle forme si accendono e crescono. La musica: gli attori che sanno suonare uno strumento si staccano ogni tanto dai loro gruppi, e vanno alle prove della piccola banda che suonerà in Piazza Maggiore, guidate da due musici più esperti (Paolo Buconi e Anna Malservisi, venuti dalla città per aiutarci). La danza: gli attori che sanno danzare si staccano a loro volta, e provano con Beppe Scaramella le figure e le corse che righeranno la grande piramide. I costumi: Maria Maglietta, Pino Di Bello, Roberta Lipparini portano a termine faticose spedizioni al mercatino dell'usato di Bologna, in cerca di capi bianchi di ogni tipo; o in un deposito militare guardano desolati una montagna immensa di anfibi spaiati e troppo grandi, con in mano un foglio pieno di ordinazioni dal trentasei in sù. Le luci: Lucio Cendou e Clif Krugg appendono sulle macerie le lampadine nude a saliscendi, bilanciate da contrappesi di mattoni; o portano qua e là, nella notte, quarzine e fari a seconda dei movimenti della truppa.
In un campo ancora più largo, sempre dentro la villa, Pino Di Bello, Franca Oetheimer, Rita Milanesi, Roberta Lipparini, ed altri ancora lavorano perché questi cento lavori diversi stiano dentro le ore di un giorno: cartelli o voci sollecitano "chi non ha ancora ritirato le striscioline dei libri nelle borse", o "chi deve dare il numero di scarpe", o i musicisti, o i gruppi che hanno via tre danzatori e quindi devono cambiare il turno alle macerie, e avanti così. Si girano i video, si ospita la troupe RAI, si governano i cambi di lenzuola, si sgrida chi lascia in giro le bottiglie.
E nel cerchio ancora più grande, in giro per l'intera città, Valerio Festi, Emilio Russo, Sandro Tranchina, Milena Garavini, combattono con la piramide che non cresce, con i camion che devono scaricare mucchi di macerie in perimetri esatti, coi lampioni che dovranno spegnersi e le auto che dovranno sparire al tempo giusto, e con mille altre immaginabili peripezie.
Insomma il motore della drammaturgia spinge, e
tutta la nave va. Ma dove va?
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13. Il coro
Per molti motivi, che in parte diremo, quella nave per un bel
pezzo è andata dritta verso una sola meta: un breve spettacolo,
in dieci versioni, per le dieci piccole piazze. Ma il tempo stringe, occorre
pensare anche a Piazza Maggiore: la nave vira per far rotta anche lì.
Sapevamo poche cose, ma importanti: le piazzette erano il posto dei racconti, del contatto diretto e pervasivo con un pubblico vicino e poco numeroso; Piazza Maggiore era il luogo del coro, dell'oratorio, della frontalità cerimoniale davanti a un pubblico immenso. Nelle piazzette fioriva una polifonia di testi eterogenei e molto "nostri", che oramai non elencheremo più; in Piazza Maggiore dovevano risuonare in oratorio le parole solenni dei poeti.
Poche cose, ma a quel punto sufficienti: a sorpresa Baliani una mattina mi lancia una partitura composta quella notte. I frammenti scelti dei tre poemi sono stati montati tra loro (liberamente come ordine sequenziale, ma nel rispetto dell'integrità di ognuno) e spartiti fra cinque personaggi, o ruoli coreutici, o allegorie, come si vogliano chiamare: il Coro, i Giovani, le Donne, il Disincanto, il Poeta. Questi ruoli son nati incrociando le potenzialità drammatiche implicite nei testi con quelle inscritte nel profilo (teatrale e umano) della grande compagnia.
Poco dopo arriva Giovanni Moretti, un attore di anziana esperienza nella parola poetica, amico di molti fra noi: prende a mano questa partitura e la studia per un giorno, scarabocchiandovi sopra segni e barre. La notte del 24 luglio, esattamente a metà percorso, presenta il lavoro a tutti gli attori riuniti sulla grande scalinata della villa coi testi in mano, e già divisi nei loro gruppi coreutici. Dice: "Adesso cominceremo un lavoro pedestre, non credo che vi divertirete...".
Di lì in poi, per alcune ore al giorno, gli attori dovranno trovare il tempo per riunirsi in questi nuovi insiemi, trasversali ai gruppi (11 Donne, 12 del Disincanto, una trentina i Giovani e una marea il Coro), da soli o con Moretti: e provare, provare, provare. Le partiture sono irte di barrette (singole, doppie, triple) che marcano il valore delle pause. Un corifeo batte il tempo con un sasso (che poi, come spesso accade, da elemento accidentale e provvisorio diverrà strumento musicale e oggetto di scena).
Per dare una labile idea del tenore pedagogico
di questo lavoro, ecco un brevissimo florilegio di indicazioni di Moretti,
rubate qua e là dai video girati in villa.
"Le poesie non si interpretano: bisogna far vedere come son fatte. Bisogna seguire, accettare la struttura del poeta, gli a capo dei versi...".
"Gli 'oh' iniziali sono un grande problema per un coro. Per il momento li togliamo, poi vediamo: se siamo bravi li recupereremo, come una porta che si apre per farci entrare in una casa amica, se ci sarà amica...".
"Qui bisogna rubare le pause, come si fa cantando, il tempo di mezzo respiro...".
"Dopo 'non aspetta più' tre sbarrette, una bella sosta. Trangugiate la saliva: ci sta dentro come tempo, e la voce poi vi esce diversa...".
"Qui bisogna fare il contrario, regalare alla nostra orchestra immaginaria invece che rubarle: l'orchestra va avanti e noi la lasciamo andare un po', poi dietro calmi...".
"Adesso nessuna attenzione al senso, solo
alla ritmica: dopo che avremo introiettato la ritmica verrà la gioia
del senso. Ora ci sono solo i numerini, il piacere deve venire, ma dopo...".
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14. Percezione, ascolto, attenzione
Sembra impossibile che debba mai venire, questo piacere del
coro, e per molte ragioni. Bisogna ripetere una frase mille volte, e il
risultato non pare confortante: quando va bene e si riesce a andare insieme,
è un responsorio di chiesa, monotòno. Poi Giovanni Moretti
è un uomo serio, e ogni tanto si spazientisce e sgrida tutti: molti
hanno fatto la maturità un anno prima, e insomma fa presto a scattare
il personaggio del professore pedante, e si sentono mugugni e prese in
giro.
Ma in generale, tutta l'azione della Piazza, che
intanto prendeva forma, pareva estranea e ostile, rispetto alle piazzette
così "nostre", dove ognuno aveva i suoi momenti solisti,
il suo gruppo affiatato, la borsa, la foto, quel pezzettino che ha portato
proprio lui. Dirà Baliani:
"In Piazza non eravamo forti, eravamo deboli,
o avevamo paura di esserlo. Anche per motivi tecnici: microfoni che non
bastavano, poco tempo per lavorarci, la piramide finita il giorno prima...
Ma il lavoro che abbiamo fatto con Maia in Piazza, quel pomeriggio, è
stato decisivo. Tutti sono partiti un po' svogliati, non capivano cosa
bisognasse fare: poi hanno riscoperto lentamente gli esercizi che avevamo
fatto in villa qualche giorno prima, simulando proprio la situazione della
Piazza..."
Qui bisogna finalmente parlare dell'unico "laboratorio trasversale" rimasto aperto, quello di Maia Cornacchia, che praticava questi esercizi di ascolto. Baliani richiamava di continuo all'ascolto e all'attenzione reciproca come prassi basilare per la scena, in un quadro - per così dire - funzionale e delimitato: con Maia questo quadro si allargava, per qualche ora e ogni qualche giorno, dal funzionale al primario, dalla scena a tutto il paesaggio intorno.
Gli esercizi, e anche le parole di Maia che li porgevano, erano fermi e sereni. Non ne faremo elenchi o descrizioni, in parte perché son noti, ma soprattutto perché son delicati: con i grilli di luglio, nell'imbrunire dei colli bolognesi, e offerti dalla voce di Maia mite e forte, dovevano combattere con molte resistenze per conquistarsi un senso. Trascritti qui, soccomberebbero del tutto.
Una mattina Maia mi diceva che "è la preoccupazione, in questi attori (di ricordare la parte, di farla bene, di esser bravi, o i più bravi), che ingarbuglia lo stato interno, e che impedisce alle cose di fluire, in dentro e in fuori". Di certo molti, nell'affrontare questi esercizi in villa, saranno stati svogliati, scettici, o sarcastici. Ma pur in questo stato d'animo, accettare di eseguire l'esercizio e trovarsi lì in piedi, in silenzio, mentre altri stanno in piedi in silenzio sparsi nel larghissimo giro di un prato, può essere servito a due cose: a riposare l'anima dal brulichio teso di quei giorni; e a percepire il proprio garbuglio sordo, e il mutismo del paesaggio a fronte d'esso. Che è pur sempre "percezione", e di qualcosa che solitamente non cogliamo.
Certo dura dev'esser stata quel pomeriggio di
cui parla Marco, in Piazza Maggiore: dove non c'erano da percepire colli
e grilli, ma motori e perdigiorno incuriositi. Eppure anche lì i
cento attori, dopo le solite battute di scaramanzia, sono stati per venti
minuti in piedi e fermi, sparsi e distanti in quella piazza vuota. Se dovessimo
fare un film, ora una bella dissolvenza incrociata li mostrerebbe in piedi
e fermi negli identici punti della piazza, ma di notte, vestiti di bianco,
e calcati da migliaia di persone, che si chiedono chi sono e che cosa fanno.
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15. Il lavoro di base
Era questa la prima azione di Piazza Maggiore, chiamata "la
rete". Gli attori arrivavano dalle loro piazzette in processione:
dovevano subito sciogliersi, raggiungere il punto che avevano scelto, e
lì stare in piedi, fermi e soli, sparsi in mezzo alla gente per
tutta la piazza. Sguardo, forza, presenza: "ognuno deve avere una
corazza - diceva Baliani - poi vedrete che gli spettatori fanno
cerchio". E percezione: cioè sentirsi legati l'uno all'altro
da una rete invisibile sopra le teste della gente. Questa rete, dopo un
po', sarà di voci: ciascuno comincerà a dire e ridire il
suo frammento di poesia, ascoltando le voci degli altri, e muovendosi piano
verso il centro, stringendo la rete.
Come si vede era cosa ben ardua, che allarmava
equamente attori e regista: ciononostante, a detta di tutti, è riuscita.
Anche il coro era riuscito, dopo le difficoltà che abbiamo detto
e altre ancora, a prendere il passo. Nelle ultime prove in villa, documentate
dai video, la nenia chiesastica è divenuta prosodia liturgica, larga,
solenne. Timbri e colori delle diverse parti sono ben modulati, il ritmo
marcia, ogni irruzione dei Giovani è un caterpillar che tira
e spinge tutti gli altri, e le prove finiscono in applausi. Invece nulla:
la fonica, o i fonici, hanno gravi problemi il giorno prima, non si riesce
a sistemare dei panoramici abbastanza vicini, o abbastanza potenti, e le
trenta voci dei Giovani sono poche per la piazza - figuriamoci le
dieci delle Donne. Quindi si estrae un solista da ogni coro, all'ultimo
minuto, e lo si mette a declamare in piedi nel microfono ad asta, accanto
ai suoi. E ancora, nonostante questo ed altro, pare che la cosa funzioni.
E così altre, che non raccontiamo più. Insomma, stiamo parlando
di nuovo del famoso "miracolo di Piazza Maggiore".
"E non è quasi mai stata provata...
- si meraviglia Baliani ancora un anno dopo - E' stata provata di giorno,
col sole, con la gente che moriva di caldo... Sicuramente il tempo dedicato
alle piazzette è stato infinitamente più alto di quello dedicato
a Piazza Maggiore. Ma questo allora mi riconferma che il lavoro di base
è stato decisivo. L'energia che si è impiegata in Piazza
Maggiore veniva dalle piazzette, dal lavoro fatto per quelle: dal training
dei gruppi, dal lavoro con Maia, dalle macerie, dalle presentazioni. E
questo mi riconferma che è sempre meglio dedicare più tempo
a questo lavoro di base. Finché non hai un gruppo teatrale, un ensemble
di lavoro teatrale, è inutile che fai il resto. E' meglio perdere
più tempo per formare questo insieme che affrettarsi ad entrare
nel vivo della drammaturgia, della creazione di forme."
Insomma, niente miracoli: c'è un principio
di Lavoisier dell'energia teatrale, da qualche parte bisogna pur che venga.
Ed è vero che mentre alle azioni delle dieci piazze è stato
dedicato non solo più tempo, ma un tempo più creativo,
all'azione del coro si è riservata solo pazienza e disciplina. Quindi
una quota d'energia viene da lì: dal lavoro di base, di coesione.
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16. Comunità labili e
forti
"Ma questa forza di coesione non vorrei che paresse una
cosa mistica. - continua Baliani - E' ben concreta: starsi ad ascoltare,
essere capaci in dieci di sentire gli altri nove, non pensare di esser
meglio degli altri nove, lavorare ben concentrati su se stessi ed essere
contemporaneamente attenti a quello che fanno gli altri. E questo ci ha
permesso anche una sorprendente leggerezza della vita quotidiana lì
in villa. E' veramente singolare aver convissuto lì per quindici
giorni senza che vi siano state quelle tensioni che accadono in comunità
anche molto più piccole, e altrettanto coatte: perché questi
hanno dormito nei cameroni in sedici per sedici notti. Non è una
cosa facile (...)".
"Molta parte ha avuto la fascia più
stretta delle figure che si muovevano intorno agli attori: i fiancheggiatori.
Gli attori si sono sentiti curati, cominciando dal cibo preparato
da questa cooperativa bolognese: se cento persone in quelle condizioni
mangiano male, dopo cinque giorni scoppiano risse, la rivolta della Potemkin.
Gli attori percepivano che le persone che giravano intorno, anche se non
le conoscevano tutte, erano - come dire - affettuosamente rivolte
verso di loro. Si sentivano curati, rispettati. Questo ha a che fare con
le comunità, non col teatro: dovrebbe accadere in ogni comunità,
bambini a scuola come anziani nell'ospizio. Anche per questo dico che l'Antigone
è stato un esperimento politico. Siamo riusciti a creare una comunità.
Provvisoria, certo: questo è importante capirlo, magari altri tre
giorni e scoppiava tutto...".
Sì, provvisoria e orientata: tesa verso uno scopo destinato a bruciare tutto, sia le tensioni che la comunità stessa. Questo è davvero importante capirlo: bisogna fare una breve riflessione di politica e storia recente del teatro, che volendo si allarga al resto.
Come per altri e maggiori fenomeni degli ultimi due decenni, si sente dire che i "gruppi teatrali" sono morti. In parte è vero: tanti son morti; molti sopravvivono a se stessi in rianimazione; alcuni sono vivi e scalcianti, e un paio d'essi fanno cose stupende. Ma non è questo il punto: il punto è che è molto più difficile scorgere i mutamenti che lavorano nell'ombra, e molto più facile annunciare funerali. Proviamo a guardare meglio.
Negli anni e nei contesti in cui son nati, i gruppi teatrali erano comunità stabili e forti: insiemi antropologici a legame forte (addirittura "giurato"), aggregati intorno a un pensiero forte, allora dominante in molti campi della cultura. Quando si è levato, il vento dei mutamenti ha spinto tantissimi (nel teatro e ovunque) a precipitarsi verso le prassi a pensiero debole, millantate universalmente per moderne. I gruppi no: per salvaguardare la forza dei contenuti si sono chiusi nella stabilità delle forme aggregative. Quest'oltranza ha prodotto arroccamenti, separazione dal flusso dei mutamenti, e ha finito per ledere la forza che doveva preservare. I gruppi teatrali che han preso questa strada son divenuti comunità stabili e deboli loro malgrado: e sono morti, o malvivi.
Regista, drammaturghi, guide e skipper, e parecchi
attori dell'Antigone vengono da questi gruppi, vivi e morti. E con
l'Antigone hanno replicato un esperimento ("politico",
come dice Baliani) che non è alle sue prime prove: quello di formare
comunità labili e forti, che nascono intorno a un pensiero
forte del teatro, lo realizzano in un tempo dato, e poi si disfano, fino
alla prossima occasione. All'interno di queste comunità labili agisce
la componente forte del teatro di gruppo - che era ed è un sistema
forte di "relazioni" umane e artistiche - eludendone la componente
debole, che era la stabilità a oltranza. Dunque è vero, il
teatro di gruppo è morto. Cioè: si sta trasformando.
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17. Tempo bastante
Ma adesso bisogna tornare ancora indietro, circa a metà
percorso. Il motore, abbiamo detto, è a regime, e la nave va. Abbiamo
detto anche più meno dove va: ma quanto manca ad arrivare? Qualcuno
sta tenendo d'occhio il calendario?
"Qui entriamo in un campo educativo: - riprende
Baliani - quando si parla di tempi si parla di pedagogia. Io ho maturato
molta esperienza in questo: so che difficilmente arriverei ad una prima
senza avere il materiale che mi serve, che sia fra sei mesi o fra quindici
giorni. Però nei rapporti con gli altri, in quello che trasmetti,
è molto importante dare sempre la sensazione che il tempo a disposizione
sia infinito. Devi essere tu solo un po' angosciato, tu a caricarti
del problema 'non siamo ancora riusciti a far questo o a far quello'. Perché
guai se l'attore percepisce una responsabilità di questo tipo: tenderà
immediatamente a formalizzare, chiudere, risolvere, recitare. Usa tutti
i cliché che ha a disposizione. E se lo fa prima del tempo è
una catastrofe, non viene fuori più niente di buono".
Infatti, la notte del ventidue luglio, dopo sette
giornate di lavoro, a tutta la compagnia riunita sulla solita scalinata
del discorso serale, Baliani dice che va tutto benissimo. Che il motore
funziona, che ha già prodotto moltissime e bellissime cose. Però
aggiunge:
"Ora entriamo nella seconda fase del lavoro,
e di solito, per la mia esperienza, è la fase più critica.
Noi non abbiamo un mese davanti a noi: quindi non abbiamo la possibilità
di ricostruire, con ciascuno di voi che dirà un testo, le motivazioni
interiori, psicologiche, stanislavskiane, per capire perché lo dice.
Tutto ciò che possiamo fare è tentare di rubare da voi il
più possibile, e poi rendervi ciò che è già
vostro. Moltissime tra le cose che vedrete vengono dal lavoro che voi avete
creato: noi abbiamo preso e rimesso a posto, incasellato. Finora abbiamo
inventato insieme. Da questo momento in poi però il lavoro è
fare. Fare vuol dire costruire immagini: pulite, efficaci, comunicative.
In questo fare sentirete sofferenza, la sofferenza di dire 'mio dio non
sto creando più'. Perché non usciranno più nuovi materiali,
e guai se escono, perché c'è già troppa roba.
Il lavoro adesso è l'opposto, ed è il lavoro creativo più
difficile: non è creare, è tagliare, ridurre, rarefare. E
ripetere, fissare, per poter dare alla gente che vi verrà davanti
immagini chiare, non belle intenzioni."
Poco prima, il gabinetto drammaturgico aveva ricevuto lo stesso mandato. Occorreva fermare i giri del motore, la circolazione di forme che si riaggregano sempre in nuovi insiemi, e produrne uno definitivo. Si scelgono, tra tutte le forme in giro, i personaggi, le azioni, i testi che paiono a quel punto più forti o utili; li si ordina in sequenze che paiano dotate di senso; si costruiscono i necessari passaggi: e si scrive. In breve sono stampate, e presentate alle guide e agli attori, le due "partiture" per le piazzette e per Piazza Maggiore, nell'esatta forma in cui si possono leggere più avanti.
E ancora: stesso segnale per tutte le altre zone concentriche del lavoro. Musici, danzatori, organizzatori, addetti stampa, coordinatori in villa e in città: stringere tutti, quello che c'è c'è, e ora bisogna lavorare perché si veda.
Abbiamo avuto poco tempo? Si è sempre detto
così, ma non è vero. Abbiamo avuto il tempo bastante: perché
l'abbiamo fatto bastare. Farlo bastare non era un'intollerabile condizionamento
alla libertà dell'artista, ma una precisa condizione del lavoro:
era una parte del compito, del testo. Ma una parte insidiosa, forse la
meno apparente a fronte d'altre (il tema della strage, la compagnia dei
cento attori...): ma la più insidiosa di tutte. Bastava fare male
i conti, farsi prendere la mano dall'occasione insigne, pensare forme da
trenta giorni di prova, e tentare di costruirle in quindici: e quella notte
era la catastrofe. Questa bilancia nella testa, istintiva o algebrica,
è - come dice Baliani - una questione d'esperienza del regista.
Ma anche una sua pesante responsabilità: e quindi merito, quando
ci azzecca.
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18. Regia di regie
Ma il regista è solo uno o sono dieci, o dieci più
uno? Abbiamo detto diverse volte che le guide diventavano mano a mano registi
effettivi dei loro gruppi: proviamo a spiegarlo meglio.
"All'inizio le guide le intendevo essenzialmente
come dei trainers, - dice Baliani - coloro che si dovevano occupare
di guidare un minimo training per il gruppo. E' stato solo a metà
del lavoro che ci siamo accorti che in fondo poi il gruppo era loro,
e che sarebbe stato assurdo arrivare da fuori e dire cosa fare. Proprio
per il rapporto di fiducia che gli avevamo chiesto noi di creare col gruppo,
a quel punto erano loro che dovevano portare dentro i gruppi la drammaturgia
che noi stavamo elaborando".
E così fu. Da qualche giorno la campana del tempo scaduto stava suonando anche per loro: stringere, dare strutture formali, individuare nei gruppi i personaggi, comporre, ripetere. E infine arrivò il testo. Non vi fu alcuna obiezione, alcuna riserva esplicita rispetto a questo "ordine di servizio" che arrivava stampato in bella. Anche perché non giungeva certo nuovo: ordinava in una sequenza plausibile le figure che avevamo isolato insieme, e che nei loro gruppi le guide stavano elaborando già da tempo.
Eppure, una delle ultime sere, quando tutti i
dieci gruppi si alterneranno nelle due macerie per mostrarsi a vicenda
dieci filate con luci e costumi (cinque o sei ore), si vedranno
dieci spettacoli diversi. Per stile o segno teatrale, maturità,
atmosfera, forza, durata: da venticinque a quarantacinque minuti, dal comicogrottesco
all'intimodelicato al tragico spinto, all'urlo. Qualcosa del genere,
ovviamente, era previsto:
"C'erano differenze di esperienza, tra le
guide: con alcuni ho avuto pochissimo da intervenire sul lavoro di direzione
degli attori. Altri erano alla loro prima esperienza. Con altri ancora
non sono nemmeno mai riuscito ad entrare: lì avevo di fronte una
visione del teatro compiuta e profonda, e diversa dalla mia, quindi l'unica
cosa da fare era rispettarla. Aveva poco senso dire non son d'accordo:
era più giusto che svolgessero il loro percorso fino in fondo, perché
era l'unica cosa univoca e coerente rispetto al gruppo".
Naturalmente, una base comune sotto queste varianti c'era, e forte: o sarebbero state ricusate, a costo di rifare il pezzo daccapo nelle notti restanti. Questa base comune era prodotta in parte dal testo scritto, ma come si sa un testo è poco intralcio per chi voglia a tutti i costi scantonare: in parte ben maggiore era prodotta da quell'ipertesto non scritto che era l'intero sistema della vita e del lavoro di quei quindici giorni in villa. Quello era il vero testo messo in scena, e quello era stato accettato da tutti, o si sarebbe visto per segni ben chiari e ben prima. La regia di questo ipertesto invisibile e primario era di Marco Baliani, senza alcun dubbio: sua e brevi manu era la regia di Piazza Maggiore; ma per gli spettacoli delle dieci piazze, la sua è stata una regia mediata da dieci registi autonomi e diversi: una regia di regie.
Come concretamente sia avvenuta, nel lavoro di
produzione e montaggio di forme che cresceva sulle macerie ogni giorno,
sarebbe lungo e forse inutile spiegare:
"Forse possiamo dire che è accaduto
questo: in qualche modo riconoscevano una maggiore esperienza. Io davo
indicazioni di struttura rispetto a quello che vedevo: che stringessero
quella parte e allargassero quell'altra. Però, non è che
poi pretendevo di rivedere, dopo le correzioni... Piuttosto andavo a fondo
rispetto a singoli pezzi attorali, soprattutto. E vedevo che le guide ci
tenevano che io intervenissi su quel livello".
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19. Il saluto ai morti
Un pomeriggio, in una di queste visite registiche sulle macerie,
Baliani appunto "andava a fondo" con gli attori che provavano
il saluto ai morti: occorre farlo "vedendo" quei morti
che si allontanano, magari piccolissimi laggiù. Diversamente, se
chi saluta non li vede più, sta lì con la mano a salutare
il niente, e il pubblico se ne accorge benissimo.
Nei primi due o tre giorni del processo, come abbiamo raccontato molte pagine fa, si sono buttate in campo emozioni e opinioni intorno alla strage di Bologna: "contenuti" generati dalle reazioni profonde e personali (non professionali) di fronte al tema del lavoro, che era quello. Poi si è passati avanti, ed è partita la macchina del teatro. Nessuno ha chiesto di rivedere i video della strage, nessuno ha più ragionato di disegni stragisti, nessuno ha parlato direttamente di quei morti.
Anche questo racconto dell'Antigone - forse davvero per mimesi del suo oggetto - segue la stessa traiettoria: abbiam parlato della strage all'inizio, e poi avanti e fin qui solo di teatro. Quella strage, e quei morti, sembrerebbero allontanarsi e rimpicciolire all'orizzonte. Non li vediamo più? E non corriamo allora tutti quanti il rischio di quegli attori: di stare lì a salutare il niente? Di aver messo in piedi una macchina mirabile per la produzione del discorso, per poi dimenticare che dire? E il pubblico, allora, se ne accorgerà?
Queste - devo dire - erano mie preoccupazioni verso la fine del percorso: Baliani mi diceva di no, che andava bene così, che non bisognava creare ingorghi in quel momento aggiungendo compiti incandescenti l'uno all'altro. A posteriori, aveva ragione lui: la strage, la vita e la morte di quei morti, sono balzate fuori la notte del primo agosto, dalle scene, come se non avessimo mai smesso di parlare di loro per tutto quel tempo. E allora, in qualche modo, era stato proprio così.
Avevamo parlato di loro, parlando d'altro. Per tre ragioni. Prima: perché eravamo lì per far teatro. Però quel tipo di teatro: cioè un teatro che esige una presenza forte dell'attore (e di chiunque) davanti al tema che va a rappresentare. Quei morti erano già fin troppo forti davanti a noi e a chiunque: per parlare di loro a voce alta, adesso, dovevamo diventare forti noi, di fronte a loro. O le nostre voci avrebbero intonato la solita fioca indignazione di routine.
Poi ancora: si legga il Dialogo tra l'Innocente e il Consapevole, che trascriveva alcune tensioni reali accadute tra noi. I "consapevoli" ("Tua nonna è morta per fatti suoi, questi sono morti per fatti degli altri. E quindi sono morti di tutti") e gli "innocenti" ("E allora sentirli miei è una specie di dovere civico?"), erano entrambi lì, veri e presenti. E noi non dovevamo scegliere tra due posizioni vere e presenti: dovevamo scegliere verità e presenza. In termini brutali: anche se noi stavamo dalla parte dei "consapevoli", non potevamo chiedere agli "innocenti" di "sentirli nostri", quei morti. Dovevamo chiedergli di "esserci" con la loro massima verità possibile: che è il presupposto primo per sentire - e dunque far sentire - alcunché.
Per queste due ragioni abbiamo parlato d'altro.
E parlando d'altro abbiamo parlato "di questo" - cioè
della strage - per questa terza ragione, che ho capito ragionando con Baliani
un anno dopo.
"Noi qui cosa avevamo di fronte? Il nostro
tema di riferimento non era un romanzo, era un pezzo di Storia. E quando
hai questa esse maiuscola davanti, sei perso: cosa può l'individuo
raccontare... I rischi che corri sono quelli dell'illustrazione, dell'oleografia.
E' troppo grande quella cosa rispetto a noi. Calvino dice una cosa giustissima,
credo dopo "Il sentiero dei nidi di ragno": la storia deve
restare sullo sfondo. La storia con la esse maiuscola non deve mai
comparire nel romanzo, nell'opera. Servono personaggi, piccole storie,
storie concrete di gente, che permettano di vedere la Storia. Attraverso
le storie di questi piccoli esseri noi possiamo vedere, e forse - lui dice
- illuminare la Grande Storia che passa dietro".
Ecco dunque: i morti di Bologna, con la loro Storia,
stanno sullo sfondo. Noi li abbiamo visti benissimo, li abbiamo salutati,
e poi ci siamo messi a cercare le piccole storie necessarie a illuminarli,
perché quella notte li vedessero in tanti.
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20. La leggerezza e il peso
"Ora, qui noi avevamo un altro problema: le piccole storie
non sapevamo dove prenderle. Nella Storia della strage di Bologna non c'erano
personaggi, i morti di quella stazione sono anonimi, non sappiamo chi erano,
cosa pensavano, qual'era la loro vita. Non è questo che interessa
alla Storia: per la Storia è un eccidio, punto e basta. Allora,
come avvicinare quei morti? Era molto delicato: indagare sulla loro vita
privata era inopportuno, non era questo che cercavamo. Però avevamo
bisogno di personaggi. Allora la vita di quei piccoli oggetti - vestiti,
foto, borse, che io avevo chiesto di portare e presentare per altre ragioni
- è diventata lei quella piccola personale storia, fatta di piccoli
rapporti con le cose, che ci ha permesso per un solo istante, proprio come
in un'istantanea, di poter scorgere dei personaggi, e di illuminare la
grande Storia che avevano alle spalle".
Ecco come abbiamo fatto a parlare di loro parlando d'altro. Anzi: parlando di noi. Di un vestito "fatto da me", di un portafoglio pieno "ma non di soldi", di una foto del babbo e del fratello "quando erano piccoli", di una foto del cane "investito cinque anni fa"; di "un omino d'argento piccolo così, dove c'è scritto 'tu', ma sono io...". Cose molto piccole e molto private per illuminare una cosa molto grande e molto pubblica. Cose leggere, che frugate fuori dalle macerie e mostrate al pubblico con la faccia che sorride, diventano pesanti, più delle pietre che poco dopo porgeremo. I morti prestano un po' del loro peso a queste nostre cose, e noi restituiamo loro un po' di leggerezza: quella delle loro vite, che sono state magari giorni e notti, treni in vacanza attesi alla stazione, prima di essere lapidi pesanti in quella stazione stessa.
Nel poco tempo che restava libero, ho tenuto una specie di "diario profondo" del lavoro in villa. Era uno degli ultimi giorni quando mi sono accorto di queste rotaie di peso e leggerezza, che forse portavano tutto. Trascrivo un breve pezzo di quel diario.
"Parole e pietre, parole come pietre, discorsi al vento, leggerezza e peso. Questa è una grande coppia di visioni, una delle opposizioni più belle, dice Calvino. Molto o tutto del nostro lavoro potrebbe forse essere letto - se servisse - con le due lenti di questi occhiali.
Oblio e memoria, per esempio. Antigone e Ismene. Gli attori e il pubblico. Ma qui accade la cosa più feconda del ragionar per metafore, se le metafore son vive: dov'è la leggerezza e dov'è il peso?
Le parole. Saranno pesanti come pietre quella sera le nostre parole, o leggere come le nuvole di questa estate, svanite il giorno dopo nelle code delle autostrade, nelle spiagge? E tra esse, quali sono leggere e quali gravi: i versi irati o marmorei dei poeti, o i resoconti terraterra di nonne, magliette e cani? Un semplice saluto a un morto, "Ciao Marò", non è una pietra lanciata in cielo con felice sbadatissima forza?
E Antigone è pesante, Ismene è leggera? Ma Antigone se n'è volata via nel paradiso degli eroi, dopo il gesto, lasciando Ismene a ricordare rasoterra, lungo i giorni pesanti. Non sono forse due metà dello stesso compito? Non sono due donne abbracciate, come nell'Antigone del Living?
E l'oblio. E' leggero l'oblio e pesante la memoria? O piuttosto questa presente cortina d'oblio che ci viene proposta non è di piombo? E un certo tipo di memoria pesante, ideologica, piagnona: non può essere invece un leggero stormo che si ostina a svolare oltre quel piombo, come i Giovani del coro e i danzatori oltre la piramide? O come lo svolo dei morti leggeri sulle loro macerie, per vedere cosa c'è dietro?
E ancora, noi e loro: cento attori con - o contro
- diecimila, trentamila spettatori. Chi è leggero e chi è
pesante, noi o loro? Noi con le nostre "gesticolazioni tragiche",
come dice Fortini, o loro nella loro immobilità spettatrice, partecipe
o distratta? Questi attori, "giovinotti leggeri di testa", e
"i cittadini di Bologna che non dimentica", o il contrario? Chi
riuscirà a volare, o a far volare l'altro, o a frenarlo per terra?".
Parte terza: LE PIAZZE
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Questa pagina è stata aggiornata l'ultima volta il 2 maggio 1997.