Comitato di solidarietà alle vittime delle
stragi
ANTIGONE DELLE CITTA'
Una cerimonia civica e teatrale per la memoria delle vittime
della strage di Bologna
Parte seconda: VILLA GUASTAVILLANI
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1 . Le piazze minori
Piazza San Martino, Piazza San Giovanni in Monte, Piazza San Domenico,
Piazza dei Celestini, Vicolo Spirito Santo (all'angolo con Via Val d'Aposa),
Via Cesare Battisti (presso la Chiesa di San Salvatore), Via San Simone
(all'incrocio con Via Oberdan), Via Sant'Alò (all'incrocio con Via
Carbonara), cortile di Palazzo Malvasia, cortile di Palazzo Montanari:
in questi dieci luoghi del centro di Bologna, alle dieci di sera del primo
agosto 1991, si son spente le luci. Dieci ragazze che ridono sono corse
fuori da dietro il mucchio di macerie, hanno preso per mano un'amica che
sedeva tra il pubblico, le hanno detto: "Pensa che sui giornali
c'era scritto: questa volta bisogna prenderli subito...", e ridendo
con lei son nuovamente scomparse dietro il mucchio. Poco dopo uno stormo
di ragazzi vestiti di bianco ha occupato le macerie, ridendo e parlando.
Ecco: abbiamo fatto un lungo giro e siamo tornati al punto di partenza. Dopo tutti quei giorni, e il racconto di quei giorni, ora gli attori son davanti al pubblico. Ora dovrebbero trovare una risposta le domande con cui abbiamo chiuso il lavoro, e il racconto del lavoro una pagina indietro: chi riuscirà a far volare l'altro, o a frenarlo per terra?
A questa domanda non è mai facile rispondere. Avevamo di fronte tanta gente, le previsioni sono state pessimiste: tre, quattrocento persone per piazza. La strategia del contatto diretto con gli spettatori, degli attori protesi a parlare, domandare, raccontare faccia a faccia, è messa a dura prova. Le ultime file in piedi, come è tara abituale del teatro in strada, vedono poco, sentono poco, si spostano per vedere e per sentire, o stanno lì e si distraggono, parlano: nell'un caso e nell'altro fanno chiasso, sottraggono tensione. Inoltre, le "piazzette" sono tali in molti casi, ma in altri (come in Piazza San Domenico) sono larghe aree chiassose e dispersive, senza muri che rimandino le voci nude degli attori, che proteggano l'azione e l'attenzione.
Queste ed altre contrarietà non sono (non sono mai state) incidenti o attenuanti: come nel caso del "tempo bastante", son condizioni date del lavoro, che il teatro conosce benissimo, e con cui è abituato a fare i conti. Dunque gli attori - quelli che hanno l'esperienza e la prontezza di farlo - calibrano le voci e la presenza su queste nuove condizioni di scena, e si va avanti.
D'improvviso i Morti si accorgono del pubblico,
e interrompendo le loro quiete occupazioni gli vanno incontro, vanno a
presentarsi: "Se partissi per un viaggio senza... ("ritorno"
non l'abbiamo mai detto) ... porterei...". Ognuno mostra a
qualcuno del pubblico un suo oggetto: "questa giacca",
"questa borsa", "questa scatola dei biscotti,
dove adesso però tengo le medicine". Lo spettatore lo guarda,
guarda l'oggetto che gli viene proposto: è una borsa, è la
sua borsa. Sono venuto qui per commemorare la strage e questa ragazza
mi fa vedere la sua borsa: va bene, accetto, però vediamo dove va
a parare...
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2 . Spettatori
In teatro - diceva Eugenio Barba - puoi usare simboli, metafore,
provocazioni, puoi fare tutto quello che vuoi, però attenzione:
stai aprendo un debito personale con lo spettatore, che poi devi pagare
alla scadenza, chiné entro e non oltre la fine di quello spettacolo
stesso. Non in un depliant che spieghi prima, non in una recensione che
il giorno dopo apra squarci insospettati, e tantomeno nelle pie intenzioni
del "volevo dire", di cui è lastricata la crisi del teatro.
Di questi debiti, a mio avviso, lo spettacolo delle piazzette ne apriva diversi. Sopra ho detto che "dieci ragazzi vestiti di bianco" occupavano le macerie, e poco sotto li ho chiamati "i Morti": questo passaggio che ho fatto, lo ha fatto insieme a me lo spettatore? E gli altri successivi? Da quel tipo disperato che trasporta qua e là pietre e corpi, allo "Sbandato"; dall'altro tipo che spolvera, compone, o scaccia i morti, al "Custode"; da questo che ora vien fuori suonando e sorridendo, al "Mortoviaggiatore", incantato un attimo prima del boato; dalla bella donna elegante, l'unica colorata, che viene avanti parlando mentre tutti le costruiscono una strada, a "Ismene la sposa": gli spettatori ci stanno tenendo dietro?
C'è gente di tutti i tipi: spettatori incalliti delle sperimentazioni, abbonati della tradizione più paciosa, e digiuni totali di qualsiasi teatro; insegnanti abituati a "leggere i segni", e audience televisiva che viene solo letta dagli share; anziani dei centri anziani con fasce dell'organizzazione al braccio, e anziani vestiti a festa e con le mogli; famiglie con bambini, soci di cento associazioni, ragazzi in cricca, gruppi di donne. Spettatori.
E lo spettacolo va avanti, nelle sue onde successive di segni e figure che avevamo preparato per loro. Io non so cosa si aspettassero di vedere, è un evento unico, non avevano precedenti cui rifarsi. Non so nemmeno cosa sia accaduto in nove piazze, perché come tutti ne ho vista solo una. In quella si sentiva un forte pregiudizio favorevole, un credito aperto in bianco, di cui parleremo; si sentiva a tratti, nonostante o proprio in forza di questo credito dato, il disagio, la fatica di tener dietro ai passaggi, l'ostinazione di capire.
Ma alla fine i debiti aperti son saldati, in qualche modo. I nostri spettatori son contenti, hanno accettato: applaudono, gridano, accettano a quel punto anche la pietra che porgiamo e vengono con noi, nella prima processione verso la Piazza. Come abbiamo fatto a saldare quei debiti?
Posso fare solo due ipotesi: il primo saldo è forse il finale, coi brani tratti dagli atti giudiziari, il tempo e il luogo in cui "fare i nomi"; e col nostro "proclama", il brano "Le nuove mura", dove si parla altrettanto chiaro. Dov'ero io, in San Giovanni in Monte, le liste della P2 vengono lette su foglietti che gli attori tirano fuori dalla bocca, e nomi e cognomi e cariche e partiti suonano nitidi e forti nella piazza che si è fatta silenziosa e un po' incredula. E forse proprio con la sua eco abituale, con quel sapore di quotidiani letti al mattino o televisioni accese a cena, quella litania di nomi restituisce realtà, visibilità, senso a quei fantasmi che andavano avanti e indietro dicendo cose: ecco allora di cosa stavano parlando....
Il secondo saldo è di natura più
elusiva, non computabile in questa o quella voce, in questa o quella scena
o figura: è la forza, la necessità, la presenza e le motivazioni
di quelle persone vestite di bianco lì davanti. Non è vero
che lo spettatore deve seguirmi nei passaggi della mia drammaturgia: deve
ricostruirne una sua parallela, altrettanto accettabile e forte. Allora:
alcuni avranno "capito" e accettato esattamente quello che dicevamo;
altri avranno "capito" e ugualmente accettato qualcos'altro;
e altri ancora non saranno riusciti a ricostruire qualcos'altro, a ricomporre
un'autonarrazione accettabile, e quindi non avranno "capito"
nulla. Ma tutti e tre, anche questi ultimi, hanno avvertito quest'altra
componente più elusiva del discorso: non ho capito tutto ciò
che avete detto, ma ho capito perché...
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3 . La Piazza Maggiore
E dunque ci vengono dietro, fino in Piazza. Lì si disperdono
tra altre migliaia di persone, arrivate dalle altre piazze o che attendevano
lì. Anche i dieci attori, che li avevano condotti, si disperdono
tra la folla, ma con ben altro compito davanti: vanno a tentare di tessere
la "rete" che dovrà raccogliere trentamila attese e orientarle
al centro, alla fonte del discorso.
Frattanto c'è un "tempo morto", che in realtà appare ben vivo, carico, brulicante, almeno a noi. Per quanto ci si sia adoperati con cronometri e walkietalkie, le piazzette finiscono in tempi sfasati, e tra l'arrivo del primo e dell'ultimo gruppo di attori e spettatori passa più di mezz'ora. Io non so dire che tempo fosse questo: come lo abbia vissuto uno spettatore tra migliaia, che si guardava intorno chiedendosi cosa sarebbe cominciato e dove e quando, e frattanto chiacchierava con gli amici; o uno dei primi attori arrivati, che invece doveva star lì in piedi da solo, in tensione, in "parte", circondato da pubblico che aspettava che lui facesse qualcosa e senza invece poter far nulla per mezz'ora. Oppure Baliani, che dall'alto del balcone di Re Enzo scrutava le vie d'accesso alla Piazza, chiedendosi com'è che non arrivano ancora, e se poi tutto avrebbe funzionato; o i tecnici e i mille altri addetti, che si affannavano dietro ai microfoni, ai cavi, agli strumenti della banda da piazzare e custodire, agli altri mille rischi e compiti dell'ultimo istante. O ancora Valerio Festi, che doveva tenere a mano, per la sua parte, oltre a tutto quanto accaduto fin lì, e a quanto stava lì per accadere, anche il seguito non meno complicato, per tutta la Via Indipendenza e giù fino alla stazione. O infine Renzo Imbeni, che aveva assunto altre responsabilità in altre regioni di tempo e di azione ancora più estese.
Fatto sta che ogni tempo sospeso, dove tutto potrebbe accadere, prima o poi finisce: e le cose prendono un verso. Arrivano finalmente gli ultimi, e Baliani dà il segnale di partenza: giù la lampadina solitaria sulla piramide, sù le macchie di luce sulla piazza. Parte la rete della poesia, il vociare disperso: cresce, e stringe. Cento figure in bianco circondano la base della piramide, non sono più una rete ma quattro fronti di presenze e di suono, che ancora cresce fino a un'acme, poi crolla: Baliani ha gridato "NO!" dalle grandi casse acustiche. E' la prima parola che si sente, è a stento una parola, è un urlo strozzato dall'ansia, distorto dall'eccessivo volume, e abbatte cento figure.
Ma risorgono, e corrono da tutte le parti, a prender
posizioni, mentre alcune continuano a rigare di corse la piramide. Di lì
a poco il pubblico vedrà tre vecchie scalare l'erta, accompagnate
da una sorellanza di ragazze solenni, che poi in cima siederanno ai loro
piedi, a contrafforte, dando loro mandato di parlare. E le tre vecchie,
tenendo con mani incerte i loro fogli, leggono: "Questa è
la storia di Antigone, che volle seppellire il cadavere del fratello contro
gli ordini del Re, e che fu fatta morire per questo".
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4 . Pubblico
Chi sono queste tre vecchie? Sono attrici? Dicono "zeus",
non "dzeus": son bolognesi, perché le fanno
recitare? E chi sono tutti quei ragazzi che vanno su e giù di corsa?
Che cadono e muoiono, poi tornano ad alzarsi? Chi è quell'uomo in
cima da solo? Lui parla bene, non è bolognese, è un attore:
ma perché non è Carmelo Bene, come tanti anni fa, o qualcuno
famoso come lui? E poi, cosa stanno dicendo, tutti insieme? "Cittadini
di Bologna, non indignatevi... E' stato uno scherzo. Con tante scuse..."???
Anche qui in Piazza forse abbiamo aperto debiti col pubblico che ascolta: e anche qui sono stati pagati. Sicuramente dalle parole dei poeti, da cui abbiamo tratto - col filtro di cui s'è detto - le più chiare e taglienti; e a cui abbiamo prestato l'irruenza fisica di questi cento ragazzi (ma anche la nostra sapienza del montaggio). E poi, sicuramente, con l'altra moneta forte di cui oramai abbiamo parlato abbastanza: la presenza e le motivazioni di chi fa.
Ma c'è dell'altro: c'è stato un
credito preventivo da parte del pubblico, che qui ci ha aiutato a pagare.
"Noi eravamo consapevoli di questo. - dirà
più tardi Baliani - Il pubblico sapeva benissimo cosa andava a fare
in Piazza quella sera. Bologna sa cosa è stata quella strage, non
va a vedere una storia che non si sa come finisce. Anche in questo è
stata un'esperienza unica: potesse sempre essere così il teatro...
Potessero gli spettatori venire a teatro non per vedere come finisce il
terzo atto - chi se ne frega di come finisce il terzo atto - ma per
vedere come riesco a rinnovare dentro di te la riconoscibilità di
quel fatto che è accaduto, e che tu conosci benissimo - tanto bene
che non lo riconosci più. Venire a teatro per vedere e riconoscere
la storia, e soprattutto per riconoscersi in lei".
Questo credito, questa precognizione, questa aspettativa di sentirsi narrare quella storia e non altre, ci investiva di una responsabilità "pubblica". Era una situazione pubblica, e le persone che avevamo di fronte non erano più spettatori, ma pubblico: perché noi non potevamo parlare uno a uno, ma cento a trentamila; e perché lì non andavamo per narrare con parole nostre storie piccole e private, come nelle piazzette, ma storie grandi e pubbliche, e con parole pubbliche e non nostre.
A questo pubblico, allora, bisognava dare teatro, e nelle forme più alte di cui noi fossimo capaci. Bisognava narrare la loro storia, perché potessero riconoscerla e riconoscersi in lei; bisognava narrarla con parole pubbliche e stagliate, messe in fila in discorsi fluidi e forti, come vagoni nei treni, che son fatti per andare e portar gente. Ma bisognava dire queste parole con la nostra voce personale, umana e irripetibile, affannata dalle corse (siamo cento ma siamo dappertutto), rinnovata dalla giovinezza di Antigone ragazza, e contagiata dalla sua pazzia: eccoci, siamo cento, siamo venuti qui per dire, perché ci sono ancora tantissime cose da dire, e soprattutto si può ancora dire.
Dopo, quando il teatro che avevamo preparato per
loro era finito, abbiamo chiesto che venissero con noi. Sono venuti, e
non c'è stato più teatro, né pubblico.
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5 . La processione
A questo punto la regia passa di mano: da quelle di Marco Baliani
a quelle di Valerio Festi, che ha predisposto lo schema dell'accadere da
lì in poi. I cento attori sono scesi dalla piramide, hanno offerto
la loro pietra, e poi altre, alle poche centinaia di persone che avevano
davanti, e poi si sono raccolti con la banda nell'angolo della Piazza che
guarda Via Rizzoli. Lì hanno cominciato a cantare la ninnananna
salentina. Altre cento mani distribuivano intanto migliaia di bigliettini,
dove erano scritti quattro versi: "Ninna, ninna nannarella / lu
lupu si mangiavi la picurella / Ohi picurella mia, come facisti/ quando
in bocca allu lupu te vedisti". Il pubblico legge quei versi,
sente il canto, si unisce al coro.
La processione parte: il gruppo degli attori in testa, con la banda, compatti e visibili nei loro costumi bianchi. Dietro a loro migliaia di persone che cantano e che portano una pietra, alcuni alta nel pugno. Più avanti il blocco bianco si rompe: in gruppi più piccoli gli attori si mescolano alla gente, per cantare con loro, perché il canto non muoia lungo tutto il lungo fiume della folla. E per tutta la lunghezza di Via Indipendenza, a intervalli, si incontrano altri mucchi di macerie, da cui gli attori raccolgono ancora pietre, offrendole a chi ancora non le ha.
Così fino alla stazione. Alla stazione, il canto ammutolisce. Gli attori si raccolgono di nuovo, e puntano compatti verso l'ala sinistra dell'edificio, alla sala d'aspetto di seconda, sotto il grande orologio che ora è accecato da un drappo nero. Lì buttano la loro pietra per terra, e presto c'è un piccolo tumulo. Che cresce, perché anche la gente ha capito, o è stata avvertita, o sapeva da sempre cosa fare: e tutti si avvicinano al tumulo, con la pazienza solenne dei riti, e buttano lì la pietra che hanno portato in mano dalla piazza, dal teatro.
Tutto accade nel silenzio più assoluto, inverosimile per quel mare di persone. Quel silenzio è propizio al grido, che si alza tersissimo di lì a poco, come il fischio di un treno incantato: il mezzosoprano Esti Kenan Ofri appare sopra la pensilina della stazione, e intona il frammento conclusivo dell'opera "Ofanin", di Luciano Berio. Lo ripeterà tre volte, quattro volte, mentre sulla facciata della stazione appaiono, proiettati in bianco su nero, uno ad uno, i nomi e le età dei morti. Quegli ottantacinque nomi sono lentissimi a passare, ognuno indugia un tempo che pare infinito, non vuole andar via. E sotto ognuno, per un tempo infinito, ancora qualcuno butta una pietra sul tumulo, che ancora cresce.
Dopo quella delle pietre, arriva la liturgia del fuoco: dall'altra parte del viale tornano gli attori, che intanto s'erano allontanati e preparati, con cento torce accese. Ed anche queste, una ad una, son deposte, conficcate, o solo gettate sulle pietre. Ora il tumulo brucia come un rogo, o come le macerie di un incendio, o di una strage.
Dopo un tempo che non riesco a calcolare, tutto finisce in silenzio, senza un colpo, senza un finale a effetto, negli ultimi nomi dei morti che appaiono, stanno, scompaiono; nel grido melodioso, che si spegne, della cantante, che ora se ne va; nel seguito che aspetta tutta questa gente al suo ritorno a casa, "con una pietra sul cuore", e poi domani.
Gli attori no, hanno il cuore leggerissimo, volante.
Alcuni si abbracciano e piangono, altri ridono e dicono battute, e chiedono
com'è stato questo e quello. Domani leggeremo gli articoli dei giornali,
ora aspettiamo l'autobus che ci porta su in villa, dove c'è una
cena speciale, e una festa. Sono le due. Ma tutto è strano, sospeso
come un sogno. Questa cosa, qualunque sia stata, per noi finisce qui.
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6 . Gente
Un'eternità prima, nella Piazza, le ultime parole del Poeta
avevano offerto una pietra: "Prendetela, come un pegno. La sua
storia è ancora tutta da narrare. E' il pezzo mancante della città
da edificare". Le ultime parole del coro, dopo quelle, avevano
ripetuto: "E voi tornerete alle case con una pietra / sul cuore
come nel pugno una pietra vera". Poi le parole teatrali son finite:
i cento attori son scesi dalla piramide verso il pubblico, ed è
con parole loro che hanno offerto "davvero" la
pietra che avevano in mano, ed altre che raccoglievano per terra, a centinaia
di persone: "prendetela", o "prendila", "venite
con noi", "venite alla stazione con noi", e chissà
cos'altro.
Il teatro in quel momento finiva: quegli attori non hanno più testo, non hanno più azioni pensate e provate, non sono più attori. E allora quel pubblico non è più pubblico: è gente.
Forse si sono incontrati a metà strada. Ricordate le domande con cui finiva il lavoro, e il racconto del lavoro: chi farà volare chi? Ecco una congettura di risposta.
Il teatro più vivo dei decenni passati ha usato e alla fine abusato del "coinvolgimento del pubblico". Oggi nessuno si sogna. In realtà, non basta chiedere al pubblico di "fare": occorre dargli le motivazioni plausibili, e ancor più la spinta energetica necessaria a passare di livello, da quello (legittimamente) passivo a un livello d'azione. Ma non basta neanche questo: occorre proporgli le forme giuste, riconoscibili e accettabili del fare.
Allora: gli atti teatrali delle dieci piazze e di Piazza Maggiore - che contenevano in sé tutto ciò che finora ho raccontato, e altro ancora - in qualche modo hanno raggiunto il segno, e hanno lanciato il pubblico su uno stato energetico più alto. A quel punto sono state proposte - dall'acume di Festi - le forme giuste del fare assieme: atti semplici e forti, archetipici e quindi ancora riconoscibili da ognuno in qualche fondo abbandonato della sua cultura. Accettare, tenere, portare una pietra con altri che ne portano altre; camminare e cantare con loro; arrivare in un luogo adatto, e deporla con le altre in un tumulo.
Nello stesso momento gli attori sono scesi dalla piramide, cioè dal piano "attivo" del teatro, invitando contemporaneamente il pubblico a salire dal suo piano "passivo" di pubblico, e fare qualcosa con loro. Forse si sono incontrari a metà strada. Forse "lì" hanno trovato una regione che è attiva e passiva a un tempo, abitata non più da attori e pubblico, ma da gente, che si ritrova all'improvviso a sapere benissimo cosa va fatto, va e lo fa. Questa regione del fare assieme ciò che va fatto, attivi e passivi a un tempo, forse, è la cerimonia.
E forse è per questo che ci avevano chiamato. Il compianto dei morti è una cerimonia. La commemorazione dei morti invendicati di una strage deve essere una cerimonia potente. Occorreva rinnovare la potenza di una cerimonia i cui contenuti erano sempre forti, ma le cui forme sbiadivano di anno in anno. Per questo ci voleva il teatro, e un teatro forte. Se era questo che ci chiedevano, forse l'abbiamo fatto. Tutto il nostro lavoro, e il nostro teatro, serviva per mettere in strada quella processione.
Tempo dopo, scopriremo che ciò che la gente
ricorda di quella notte è la stessa immagine che prevaleva il giorno
dopo sui giornali: le torce infuocate, buttate sul tumulo della stazione.
Un atto che noi non avevamo pensato, provato, lavorato nemmeno una volta...
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Questa pagina è stata aggiornata l'ultima volta il 2 maggio 1997.