Laboratorio Teatro Settimo
AB ORIGINE: LUOGHI PER DURA MADRE MEDITERRANEA
LA PASSIONE E LA PAZIENZA
Saggio e racconto sul laboratorio teatrale "DURA
MADRE MEDITERRANEA"
di Bruno Tognolini
Seconda parte
I CIMITERI
DELL'ALTRO MILLENNIO
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della Prima Parte del SAGGIO
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della Seconda Parte del SAGGIO
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della Terza Parte del SAGGIO
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di Dura Madre Mediterranea
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1 . Il sentimento dell'insoddisfazione
Una sera, a Drena, in un bellissimo giardino fuori paese, abbiamo parlato dell'insoddisfazione del teatro. Abbiamo scoperto un sentimento condiviso, un po' vago, un'impressione sottile e persistente di fuori tempo, fuori storia, fuori luogo. Possiamo apprezzare uno spettacolo teatrale, possiamo essere anche entusiasti, o un po' delusi, ma è sempre "come se il teatro appartenesse al passato". E fosse tenuto in vita sempre con artifizi, sempre con un credito di vita da parte, o a spese, di noi tutti spettatori.
Dubbi, insoddisfazione, disincanto, perfino noia del teatro da parte di noi stessi teatranti, già in veste di spettatori. Edgard Morin (come ho detto, questo filosofo verrà citato spesso) denuncia, tra gli errori del "pensiero opaco", l'abitudine di chiamarsi fuori dai propri giudizi, di assentarsi dal proprio campo di osservazione, nascondendosi a spiare da due buchi nel paravento dell'oggettività. E Ronald Laing, parlando dello sguardo oggettivo, aggiunge questo: "Ci sono scienziati che tengono a sottolineare di non essere filosofi, teologi, studiosi di ontologia, metafisici, filosofi morali e nemmeno umili psicologi. Quando ciò è una dimostrazione della loro modestia, è appropriato e conveniente, più comunemente però è un'espediente per liquidare tutto ciò che non possono vedere dalla loro prospettiva. C'è un che di ironico nel fatto che questi scienziati non possono vedere la loro prospettiva col loro stesso modo di vedere"(1). Nemmeno i teatranti sono filosofi, teologi, e tutto il resto: e non sono nemmeno scienziati. Ma son capaci di vedere la loro prospettiva dalla loro prospettiva? Sono capaci di una vera riflessione?
Si chiederanno, cioè, i teatranti quanto quel loro tedio di spettatori sia condiviso dai loro spettatori? Come collocano il loro teatro nel tempo della crisi del teatro, che denunciano? Si annoierebbero a vedere i propri spettacoli? E si annoiano a farli?
Ho voluto cominciare il mio discorso da questa noia, perché è
importante. Noi possiamo subirla, tacerla, o tutt'al più analizzarla
come se non ci riguardasse. Oppure possiamo affrontarla dalla nostra prospettiva:
cosa è questa noia del teatro? Un disincanto? E cos'è questo
grande disincanto, in cui viviamo, respiriamo, e che per forza filtra nelle
opere nostre? "Dura Madre" è nata anche da domande come
queste. Domande che ci poniamo, spinti dall'insoddisfazione, dal centro
del nostro lavoro teatrale: e a cui, dunque, tentiamo risposte in forma
di lavoro e di opera teatrale.
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2 . Si sente dire: i gruppi sono morti
Si sente dire: i gruppi sono morti. E' comprensibile: l'ansia del nuovo ha sempre spinto gli uomini alla corta prassi dei requiem. Questi, che sono sempre stati frequenti, si sono ancora infittiti in questa fine di millennio, in una sorta di frenesia funeraria: il teatro è morto, il comunismo è morto, Dio è morto; uno storico nippo-americano ha addirittura annunciato la fine della storia, per fortuna sbertucciato dai colleghi. Ed è anche vero, forme e fenomeni si trasformano e anche muoiono, come ogni cosa viva: ma per lo più questo avviene nel tempo, e i relativi funerali precoci portano piuttosto il segno delle scorciatoie che la pigrizia detta al "pensiero opaco", riluttante a misurarsi con l'osservazione dei veri mutamenti, che è faticosa.
Anche Teatro Settimo ha attraversato una stagnazione, "una difficoltà a produrre novità, a produrre idee che non assomigliassero a idee che avevamo già avuto". Però sa che non serve a niente chiudere la vecchia questione dei gruppi con una pietra tombale, per poi dichiararsi nuovi, nuove tendenze, nuove drammaturgie: nuovi cosa? La questione si ripresenterà, male sepolta salterà di nuovo fuori, più vecchia ancora. E allora conviene affrontarla adesso, e per esempio: i gruppi non sono morti, ma non stanno nemmeno tanto bene. Cominciamo a chiederci perché.
Un gruppo teatrale è un sistema come un altro: una forma di aggregazione di uomini intorno ad un'attività, che mano a mano elabora una sua estetica, una sua poetica, insomma i suoi sistemi di idee. "Nel corso del tempo - dice Edgard Morin - ogni sistema, e quindi anche ogni sistema di idee, tende a degradarsi, a corrompersi, a disintegrarsi. Contro questo aumento di entropia il sistema può combattere con il caldo, cioè con un'attività permanente di autorevisione e di autoriorganizzazione, attraverso gli scambi con il mondo esterno e i dialoghi con gli altri sistemi di idee. Naturalmente questo modo di procedere comporta una serie di rischi nel momento in cui i dati provenienti dall'esterno cominciano a invalidare il sistema. (...) Un sistema di idee ha un'altra maniera di difendersi contro la corruzione. Può chiudersi e fossilizzarsi. (...) Un sistema di questo genere è 'freddo' poiché smette di eseguire 'lavoro', di emanare calore con gli scambi/dialoghi con l'esterno. I suoi concetti si fossilizzano, e provvisoriamente sfuggono così alla corruzione che colpisce tutto ciò che vive. Non vi sono più scambi/dialoghi, ma soltanto polemiche (confutazioni, rifiuti). Da questo momento il sistema di idee diventa autosufficiente..." (E.Morin, "Per uscire dal ventesimo secolo", Bergamo, P.Lubrina Ed., 1989, pag.98).
Allora forse in questa chiave può essere letto il travaglio dei gruppi teatrali, cioè nella stessa in cui leggiamo il travaglio ben più largo di più larghi sistemi di idee. Non so cosa sarà accaduto nel tempo in cui viene letto quest'articolo, ma in questi mesi alcuni partiti comunisti del blocco orientale (e oggi che scrivo anche il P.C.I.) sembrano aver deciso un'auto-destrutturazione di dimensioni grandi. Moriranno, o si trasformeranno?
Comunque ogni stirpe comincia da una tomba. Uno dei testi più
importanti che abbiamo trovato, e di cui fa largo uso "Dura Madre"
è tratto dal Genesi. Abramo non è mai stato uno stinco di
santo, ha rubato, ha razziato quello che gli serviva: perché si
ostina a volere comperare, e possedere legalmente, la caverna di Macpela,
la terra dove seppellirà i suoi discendenti? E perché il
Colonnello ha deciso di investire nella costruzione della tomba di famiglia
una parte dell'ambiguo patrimonio? In questa tomba c'è Benedetta,
fondatrice dell'alfabeto. Lei è morta, ma la stirpe ricomincia da
lei, ed è ben viva.
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"Il nostro in particolare non è mai stato un sangue troppo saturato, perché sempre negli spettacoli abbiamo cercato contatti. Sempre nei nostri spettacoli, a partire dalle 'Tavole di Mendeleev' ci sono stati collaboratori esterni al nucleo storico originario." Appunto: esterni.
In "Dura Madre" lo stesso nucleo creativo di Settimo, quello più intimo e stretto, si è aperto a "nuovo sangue". Ci sono stati grandi mutamenti, non indolori: Laura Curino, che ha sempre scritto nei modi teatrali, e sempre bene, ha costeggiato al largo il "gabinetto drammaturgico"; dove invece sedevamo Antonio ed io, che fino a ieri ero un egregio sconosciuto. Lucio Diana, che è ben più di uno scenografo, si è fatto vedere solo a metà Drena. Altri di Settimo non si son visti affatto. Certamente la cosa è rischiosa, ma si tratta in fin dei conti di scegliere tra due rischi: è meglio morire per scoppio d'identità, o morire di noia?
La cosa migliore sarebbe, possibilmente, non morire affatto. E infatti alcune sorprendenti auto-destrutturazioni di oggi, alcuni disarmi unilaterali, alcune apparenti rese (ecco ancora la resa) sono forse strategie di sopravvivenza. Portano il segno di quella profonda ragionevolezza, di quell'economia di grado superiore, imprevedibile per la normale razionalità, che l'istinto di sopravvivenza accende negli esseri in momenti cruciali. Questa sa immaginare strategie in che sembrano folli, e che forse sono invece lucidissime, per la custodia della vita nel mutamento.
Allora dunque: il gruppo non è morto. Si tratta soltanto di capire quali sono le sue trasformazioni, e quanto vicino al nucleo interno incideranno. "Per esempio, una possibilità è che per ogni esperienza, per ogni spettacolo esista un gruppo. Può essere un gruppo diverso, anzi in alcuni casi deve essere un gruppo diverso." Ma allora cos'è che cambia e cos'è che resta? Che cosa è che garantisce il nome?
Forse bisogna fidarsi. Ci sono tante parabole che dicono questo, molte circolano anche nel teatro. Una l'ho sentita nello spettacolo "Edipo" di Toni Cots, molti anni fa. Parla un fiume, giunto alle sponde del deserto, e chiede a un'entità che non ricordo (un dio dei fiumi?) come fare ad arrivare alla sua meta, al mare, senza perdersi e scomparire nel gran secco. Dovrà fidarsi, e al mare arriverà, in qualche modo. In qualche modo? Per esempio evaporando, perdendosi in gocce minuscole, piovendo altrove? Arriverà, sì, ma chi arriverà? Dovrà fidarsi.
Uscendo dalle metafore, ma restando in qualche modo nei deserti, ecco un discorso di Ferdinando Taviani, che restituisco con parole mie (2): un teatro d'istituzione è un sistema in cui i modelli delle relazioni tra gli individui che lo compongono sono preesistenti agli individui stessi. Gli artisti che entrano in un teatro stabile trovano modelli interattivi dati e fissati in "ruoli", e quando escono li lasciano tali e quali ai successori. In un gruppo invece le relazioni son modellate sulla irripetibile fisionomia artistica e umana dei componenti. Allora forse è questa l'invariante nel mutamento dei gruppi. E' ciò che resta in ciò che cambia. Un gruppo, cioè, è un organismo che si destruttura e si ristruttura sugli uomini che di volta in volta ne fanno parte. Con un termine brutto ma efficace, Edgard Morin definisce questo tipo di organismi "sistemi auto-eco-organizzatori". In tanti modi, non solo in "Dura Madre", Settimo oggi si avventura nei deserti. Dovrà fidarsi.
Come Demetra, che dovrà fidarsi, con tutti quei nuovi fratelli che arrivano dai continenti: ammesso che siano figli del Colonnello, cosa che dovranno dimostrare sul serio, chissà chi è la madre. Come pensa di costruire una stirpe destinata a immaginare il futuro, con questo materiale incontrollabile? E se Marziale si muove per entrare nel nucleo più interno della casa, se vuole comandare, lo accoglierà, o lo combatterà?
E noi, dando il diritto di cittadinanza, che gli spetta, a tutti questi
immigrati, e parlando di società multietnica, cosa ci figuriamo?
Stiamo preparando bene la forza per fidarci?
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4 . Mutamenti delle condizioni
C'è stata una fase intermedia, lo spettacolo "Nel tempo fra le guerre". Lì si è cominciato sul serio ad allargare, a mutare le relazioni. Ma non solo quelle: in un momento di crisi produttiva e distributiva del teatro, o di un teatro che non sia commerciale, Settimo fa uno spettacolo invendibile, con sedici attori. Subito dopo aver messo sù casa, aver costruito il Teatro Garybaldi, fa uno spettacolo che non potrà mai entrarci.
Ma perché darsi questi ostacoli, queste scomodità? Cosa vogliamo dimostrare? Un gruppo teatrale è un sistema, che vive dentro un altro sistema: il sistema produttivo e distributivo del teatro. Ho detto come un sistema può ritenere opportuna, in alcuni momenti, un'auto-destrutturazione. Ma si tratta appunto di "auto": un sistema cioè non può pensare di destrutturare il sistema di grado superiore, anche se lo ritiene opportuno. Può, però, cimentarlo, sfidarlo.
"Dura Madre" fa molti passi avanti nella sfida che "Nel tempo tra le guerre" aveva già cominciato: per esempio, con la dilatazione del tempo e dello spazio. I tempi dilatati sono due: tempi di produzione, e tempo quotidiano del teatro. I tempi di produzione non sono contati in mesi, ma in anni. Diverse opere potranno uscire allo scoperto, con o senza la qualifica di studi, con molti titoli, durante la vigilia: ed alla fine, si aspetta un'opera che porterà il titolo intero. E il tempo poi si estende anche al passato, a comprendere "Istinto occidentale" tra le fonti. Ma fonti e foci sono convenzionali: l'acqua è una.
Il tempo quotidiano del teatro, poi, si espande ad abbracciare la giornata, non distingue fra prove e spettacolo, lavoro e riposo, scena, cucina e letti. Persone e personaggi alternano i nomi senza regola fissa. E il pubblico viene ammesso qualche sera, non come nelle dimostrazioni di lavoro, ma come un amico per la cui visita non cambiamo le nostre abitudini, non smettiamo le nostre faccende. Queste faccende erano, insomma, un lungo spettacolo solo ininterrotto, un tempo di teatro in atto, non in germe: un lungo atto di auto-rappresentazione, dove talvolta c'erano altri spettatori.
Lo stesso respiro moltiplica lo spazio. "Dura Madre" è una storia cresciuta in molti luoghi: quando arriva si sistema nel paesaggio, accende i dettagli piccoli con le storie, proietta le storie sulle vedute grandi. Poi cambia paesaggio e anche le storie cambieranno.
Si vede bene come già tutto questo abbia poco a che fare con i sessanta giorni di gestazione, divisi in ore di prova e libertà, collocati dentro un solo spazio chiuso, che oggi il teatro concede alle sue opere.
E qui non racconterò una misteriosa fase attuale della vigilia, dove si porta la sfida alle norme del sistema ancor più avanti. Posso dire che pochi personaggi, quattro soli, viaggiano in quaranta città, entrano nei salotti e nelle sale, dove avranno raccolto alcuni amici, e parlano e chiedono loro dei fratelli. Qui hanno passato ogni barriera del mercato, stanno girando nella terra di nessuno, "ubi sunt leones". O dove, libere dai guinzagli del sistema, girano le storie e le relazioni del teatro.
Ecco infatti: noi non lo sapevamo cosa facessero lungo i primi anni
le tre sorelle nella casa, sole, senza nessuno cui rivolgere i racconti,
aspettando l'arrivo dei fratelli dai continenti. Pensavamo a una vita scura
d'attesa, un buco vuoto. E invece è chiaro, ecco che si riempie:
le notizie dei fratelli non passano per le case serrate, bisogna andarsele
a cercare per il mondo.
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Queste strategie possono essere più o meno estreme, possono spingersi più o meno in fondo, pericolosamente vicino al nucleo interno del gruppo, dove è custodito il nome: e i nomi sono importanti, come dicono Fosca, Demetra, Gaia, l'intera "Dura Madre", e le cronache politiche di oggi. Ma grazie a queste strategie della sopravvivenza, i gruppi non sono morti.
Alcuni gruppi sì, alcuni uomini sì, alcuni artisti possono morire come artisti, se mai erano nati. Basta che facciano una scelta sfortunata: che si trasformino in un sistema chiuso, per preservare il proprio nucleo più interno. E si lascino così morir di noia, e della peggior forma della noia: la noia di se stessi, delle proprie opere. Anche Settimo ha corso questo rischio: "Abbiamo fatto uno spettacolo, quest'inverno, che è stato quello che abbiamo meno amato nella nostra storia - al di là poi del risultato, del riscontro dello spettacolo stesso. Perché in sostanza abbiamo ricreato situazioni precedenti, cioè abbiamo prodotto uno spettacolo nelle stesse condizioni in cui ne avevamo prodotti altri".
Certo, "perché si è imparato a servirsi bene delle parole / solo per quello che non si ha più da dire, o nel modo in cui / non si è più disposti a dirlo", dice Eliot. Teatro Settimo ha uno stile ben preciso, sa usare le sue parole molto bene. Secondo alcuni, fin troppo. E l'auto-manierismo è magari meno deprecabile del manierismo tout-court, ma altrettanto letale. Occorre vedere con grande onestà se le proprie parole sono ancora buone per quello che di nuovo si ha da dire, se si ha da dire. Occorre talvolta fare tabula rasa, sgombrare il campo dal noto, per accogliere l'ignoto.
Con "Dura Madre" Teatro Settimo tenta questa strada. Le parole, le forme stilistiche mature sono spesso ingombranti, opache, e possono schermare la vista. Ed ecco allora una strategia che si può chiamare "sospensione dello stile": tenere basso il grado di formalizzazione scenica dei materiali realizzati nel processo, evitare il ricorso all'immagine (Lucio Diana, il bravissimo scenografo e pittore, è stato tenuto lontano da tutta la prima fase del lavoro, fino a Drena), evitare gli effetti. Era buffo vedere gli sforzi che questa sospensione (io la chiamavo "ritenzione") dello stile costava a tutti: e il sollievo con cui, nella Rocca di Montalcino, mostrando al pubblico le deposizioni, gli ultimi giorni, hanno dato via libera, con quattro fari radenti un altissimo muro, alla pittura teatrale dello spazio. Ma questa ritenzione della bellezza, forse, in certi momenti, è salutare.
Perché la bellezza è comune, dice Borges, anche se non è vero. E proprio perché non è vero sono tanto più fortunati quegli artisti che sono colti dall'insoddisfazione nella bellezza, e quindi della bellezza. Non c'è gran merito a cambiare strada quando ogni cosa dimostra che si è sulla strada sbagliata. Darsi invece a un repentaglio quando il consenso "di critica e pubblico" chiederebbero altre prove del medesimo stile, è segno di ricchezza. Non di eroismo, di ricchezza: infatti, solo chi ha un patrimonio può amministrarlo, anche con investimenti azzardati.
Insomma, Settimo non si deve preoccupare: rischia, ma di un rischio,
se non calcolato, ragionevole. Il patrimonio di stili formali di cui dispone
non è disperso, è solo congelato. Si tratta solo di mettere
da parte per poco ciò che si sa già fare, per studiare su
un campo più terso ciò che si ignora. Resterà sempre
la bella abilità, resterà il "tocco", e tornerà
anzi utilissimo al suo momento giusto: quando si tratterà di dare
concreta forma di scena alla materia accumulata nel repentaglio. Male che
vada, potrà sempre rifare altri "Elementi": ma
non sarà così.
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Così c'è un tedio, un sentimento di insoddisfazione, di inadeguatezza del teatro. Chi fa teatro allora ha due possibili scelte. O divide la sua posizione di spettatore insoddisfatto da quella di autore, si assenta dal suo stesso campo visivo e parla degli altri, cioè di "crisi del teatro" nei termini astratti ed innocui che ci son familiari; o guarda dalla sua prospettiva la sua prospettiva, e si siede nel centro del problema, col suo teatro che sta dentro il teatro. In questo caso ha subito sottomano una materia ben concreta da studiare, per vedere cosa c'è che non va: il suo lavoro. E può cominciare a smontarla.
Può cominciare a scomporre e ricomporre il sistema di relazioni artistiche ed umane che governano il gruppo, per vedere se il guasto è lì. Può proseguire tentando alcune provocazioni, alcune trasformazioni "unilaterali" (le uniche in questo caso consentite) del sistema delle condizioni produttive, per vedere se il guasto è lì. Può infine mettere mano alle sue stesse forme espressive, sperimentandone sospensioni, contaminazioni, mutamenti. E siccome queste tre partizioni sono convenzionali, e relazioni, condizioni e forme del teatro sono fattori in stretta interdipendenza, potrebbe scoprire che il tedio, l'insoddisfazione, l'inadeguatezza, sono nascosti in tutti e tre.
Ma anche altrove.
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B . Il cimitero
dell'altro millennio
1 . Il cimitero dell'altro millennio
Dopo aver fatto tutta questa strada, ritorniamo all'inizio, in quel giardino vicino a Drena dove parliamo dell'insoddisfazione del teatro, e di come cercare rimedio. Dicevamo che sembrava sempre "come se il teatro appartenesse al passato". Ma dicevamo di più: che spesso andare a teatro era come "andare a fare una visita al cimitero dell'altro millennio". Un'altra metafora funebre. Questa volta viene dal testo di "Nel tempo tra le guerre": come spiegherò meglio, quel libro sacro conteneva insieme il testo, i problemi del processo che lo contiene, e i problemi del teatro che contiene il processo, senza parlare di nessuno dei tre esplicitamente. Qui diceva Demetra: "Questo è il cimitero dell'altro millennio. Adesso non ci veniamo quasi più. (...) Una volta ci invitavano i fuochi fatui, e ci facevano sentire l'opera, e poi si faceva un po' di conversazione. Sanno parlare di tutto i fuochi fatui, la scienza, l'economia, la politica. Dove va l'arte, dove va il pensiero, cosa sarà di noi domani... Ma poi concludevano sempre che non c'è niente da dire". "E allora perché parlano?", chiudeva Fosca (dal copione di "Nel tempo tra le guerre", pag.31).
Un anno prima quel distico fulminante, "Non c'è più niente da dire" - "E allora perché parlano?", vedendo lo spettacolo, mi aveva colpito all'improvviso come fanno soltanto le parole vere, intorno a cui giravamo da tanto, e che erano così semplici. Veramente, non sarà questa tutta la nostra noia del teatro? Essere solo stufi di sentire chi parla ancora per dire che non c'è più niente da dire? E perché parla?
Ancora mesi dopo, scrissi questi pensieri in un articolo, che in una rete di affetto collegò me, Gianni Celati, "il manifesto", e Teatro Settimo, cui lo mandai senza averli mai conosciuti. Ora son qui che racconto "Dura Madre", e tutto questo mio racconto, e "Dura Madre", per me è mettere in scena quell'articolo, che era solo una messa in scena di quell'unica frase.
Così qui, ora, lo trascriverò.
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. La tremenda responsabilità della mitezza (3)
"Perché spesso, leggendo o scrivendo, avevo esperito la verità del narrare come luminosità nella quale una frase ne produceva pacatamente un'altra, e il vero - la conoscenza che precede - lo si poteva cogliere solo nei passaggi delle frasi come qualcosa di mite".
Peter Handke, "Nei colori del giorno"
Gli anni ottanta vanno a finire. E non solo loro: vanno a finire anche
i novecento. Senza spingerci al millenarismo (che comunque tra poco non
mancherà di dar fiato alle trombe), senza andare a profetizzare
sul nuovo millennio, possiamo ben dire però che il vecchio secolo
è stato convulso, contratto. Forse erano contrazioni di parto, necessarie
a generare il nuovo; forse erano contratture e crampi, risposte malate
ad offese diverse, dolorose ed inutili a ogni effetto.
Per esempio nella letteratura, e nel teatro. E' stato il secolo dell'ammutolimento. Da Rimbaud fino a Joyce gli scrittori ripetono, e perfezionano, la loro dolorosa testimonianza: "non si può raccontare più niente". Da Pirandello a Beckett a Müller seguono il loro esempio i drammaturghi. Riescono a sfuggire il crampo solo coloro che sono stati capaci di rifarsi una fedina culturale pulita altrove, di sconfinare in terre giovani: in America, o nel cinema (o in America nel cinema), o in Europa nella Rivoluzione Bolscevica, ma con meno fortuna. La letteratura e il teatro e l'arte, nell'epoca della riproducibilità tecnica, hanno sancito offese: "non si può raccontare, rappresentare, raffigurare più niente".
E mentre loro tacevano, o mormoravano nel sogno questo canto del no, alta e forte si levava la canzone delle opere della riproducibilità tecnica: a raccontare, rappresentare, raffigurare mille storie. Perché la gente non può stare senza storie, di qua o di là bisogna che le prenda: dal momento che non se ne trovano a teatro, va al cinema, ed ha tutte le ragioni.
Ma attenzione, anche il teatro non può stare senza storie, e certamente non può stare molto a lungo senza gente. Come una campagna sotto la siccità, può resistere più o meno, ma prima o poi diventa arido, fermo, cattivo. Perché le storie sono come l'acqua: primordiali verità dello scorrere, del flusso. Il "vero" di Peter Handke, "la conoscenza che precede", che si può cogliere "solo nei passaggi delle frasi, come qualcosa di mite".
Da quasi un secolo invece il flusso, lo stream dell'accadere scenico è programmaticamente, fin dalle schede di sala, frantumato, molecolare, frazionario. Perché è stata smantellata, negata, "la conoscenza che precede", quella forza invisibile che spinge da dietro, che nella circolazione sanguigna si chiama appunto "vis a tergo" ed è il cuore, il cui racconto sistole-diastole è semplice, mite, ed è meglio non tenti di essere originale.
L'aritmia cardiaca dei flussi narrativi del novecento è cosa seria, tutt'altro che immotivata. Vivendo nei tempi bui, e volendo cantare ancora in essi, come diceva Brecht, gli uomini hanno cantato dei tempi bui: e i loro canti sono stati spesso altissimi. Ma per esempio si potrebbe chiedere: in questo che cosa c'entrano i bambini? I bambini sono maestri a cogliere quanto vi sia di mite nei passaggi delle frasi, molto più di quanto non si preoccupino dei significati delle frasi. Il blaterare delle mamme e delle nonne coi neonati, la "lallazione" (le donne sono bravissime in questo), non è altro che un flusso di passaggi infinito perché assolutamente e felicemente insensato. E mite, perché invece il suo senso è ben fermo, un racconto cardiaco, necessario, che dice così: "il mondo esiste, il tempo esiste, tu esisti".
Questo bisogno di flusso e mitezza dei passaggi diventa poi forse bisogno di storie. Le cose cambiano, si complicano, i significati non sono più variante libera, diventano importanti, e le storie non sono più tutte uguali. Ma hanno in comune qualcosa, mantengono forse un legame di fondo con quella "lallazione": qualcosa che sfugge alle analisi strutturali, alla retorica, alla narratologia, ed appartiene piuttosto al tono della voce, alla pulsazione delle frasi, alla singolare mitezza dei passaggi. Nella storia che si snoda successiva, fluida, c'è una misteriosa ripetizione di quel racconto primordiale, una riconferma della "conoscenza che precede", motore nascosto da cui una frase genera pacatamente un'altra, continuando così a garantire della vita.
Chiunque di noi ogni tanto legga gialli o "Urania", o veda "Capitol" alla televisione, e trovi queste cose rilassanti, conosce la funzione di rassicurazione primordiale delle storie. Ma allora perché, se la vita e il mestiere lo portano ad esser lui a raccontare, ammutolisce? Perché "nel novecento non si può raccontare più niente"? Ancora? E allora perché parla? Se uscisse da questo crampo e si guardasse intorno, vedrebbe delle cose interessanti.
Vedrebbe per esempio molte migliaia di bambini portati a teatro coi bus, che assistono, con la desolata pazienza dei bambini, a centinaia di spettacoli bruttissimi, e come nella canzone di Gaber "non sanno se ridere o piangere, e batton le mani". Gli adulti che preparano per loro queste storie vengono quasi tutti dalla generazione del rifiuto. Ora da questo rifiuto sono usciti, a quanto pare, per quanto riguarda le strategie d'azienda (pochi lo sanno, ma il teatro per ragazzi ha quote di crescita e di tenuta aziendale fra le più sane del settore); ma sono ancora fino al collo dentro il crampo per quanto riguarda il racconto delle storie: storie sghembe, poverelle, che camminano male, figlie del novecento ammutolito. Peccato però raccontarle ai bambini.
Perché fra l'altro, continuando a guardarci intorno, vedremmo gli stessi bambini e ben più svegli, di pomeriggio, davanti alle televisioni, farsi raccontare da qualcun altro che non ha certi problemi dosi massicce di storie veloci ed imbecilli, che camminano benissimo ma non vanno in nessun posto, che sono pura lallazione, ma meccanica, sono mamme-robot, spazzatura. Peccato avere lasciato a costoro tutto il campo.
Forse verrà riconquistato. I segni paiono esserci, il novecento sta finendo. Cinema e letteratura, nelle ultimissime frontiere, anche in Italia, stanno uscendo dal crampo: si sono finalmente annoiati di ripetere che non si può raccontare più niente, hanno ripreso pacatamente la parola. La mitezza di cui scrivono gli speechwriters di Bush (che si è presentato, nel suo discorso d'incoronazione, rifondatore di un'America "kind and gentle") e quella con cui parlano Handke, Wenders, Celati, sono probabilmente ben diverse; ma potrebbero essere segnalazioni, da diverse postazioni di vedetta, del medesimo fenomeno in avvicinamento.
Speriamo che il teatro in questi mutamenti sia pronto a fare la sua
parte, come altre volte è stato. E la sua parte, il suo dovere,
è quello di acconsentire di nuovo alla mitezza dei passaggi, al
flusso, al movimento: sciolga il crampo e si metta a camminare. Assuma
su di sé la tremenda responsabilità della mitezza, racconti
storie, che sono il lavoro suo.
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Ora torniamo al nostro discorso del giardino, che un po', si sarà visto, è la mia guida. Ragionavamo sul dramma come accadimento, dove la situazione degli elementi in gioco si modifica nel corso dell'azione; e poi sul dramma come condizione, passando per Cechov, per Pirandello, e fino ad Estragone e Vladimiro, cui non succede più niente, tranne il niente.
Ecco, dal crampo endemico di ogni voce che racconta nel novecento, siamo scesi nel crampo epidemico del teatro: il dramma come condizione. Va tutto bene, ma a quanto pare ripercorrere questa strada attraverso la storia del teatro ci serve a poco, ci lascia nel crampo. Perché? "Probabilmente perché c'è un'ostinarsi a considerare delle separazioni, a considerare alternative delle situazioni, o l'una o l'altra: a pensare sempre in modo contrapposto, dicotomico. Perché l'attore al servizio del testo oppure il testo a servizio dell'attore?"
Ecco: adesso sì che ci stiamo avvicinando. Un crampo, o più propriamente una contrazione tetanica (che del crampo è cugina) è lo spasmo di due muscoli antagonisti, il flessore e l'estensore, che invece di collaborare alternandosi armonicamente si contraggono insieme, paralizzando l'arto, e non producono più lavoro, ma dolore. Così un bambino, o qualsiasi essere umano, sottoposto a richieste forti e contrarie (il "doppio legame"), non potendo far nulla si ferma nel dolore, nella schizofrenia, o in altre forme malate dell'assenza.
La storia, la cultura, la vita, hanno sempre teso queste trappole velenose
delle scelte, degli schieramenti, delle decisioni. E non se ne esce mai
senza dolore, se "decidere" ha la stessa radice di "uccidere",
e vuol dire "tagliare". La volpe si taglia coi denti l'arto imprigionato
nella tagliola. Ulisse, prototipo dell'homo sapiens occidentale,
solo a costo di pena passa lo stretto tra Scilla e Cariddi, che è
archetipo di istanze contrapposte. Allora, quali sono le Scille e Cariddi
del teatro? Come fare a passare questi stretti?
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Dal mio diario di Montalcino trascrivo la sera del 14 luglio. Gerardo Guccini è nostro ospite da giorni, e stasera ha veduto le quattro "deposizioni" nella Rocca. "Dopo il buffet tutti in cerchio ascoltiamo una dissertazione di Gerardo sulla drammaturgia applicata: una breve analisi del testo di 'Nel tempo tra le guerre', e una serie di opinioni a caldo sul lavoro di questa sera, in relazione al testo stesso. La lezione è chiarissima ed efficace: Gerardo ci mette in guardia contro pericolosi 'anticorpi antidrammaturgici' che si scatenerebbero dall'abuso di materiali o di approcci letterari, pur eccellenti (parla di 'geniali apocrifi' di Marquez). Tratta ed esemplifica questa tesi con riferimenti letterari e teatrali: Ovidio, Alfieri, Verdi. Ammonisce: un quadro così articolato di ingegneria narrativa e filosofica, che diventa chiaramente allegoria di un millennio, rischia di soffocare i personaggi. L'invadenza della forma 'racconto' non è compatibile con una piena drammaturgia del personaggio, il cui fine non è il 'racconto', ma la 'presenza'. Alcuni attori concordano su questo."
L'ultima notazione è maliziosa. In realtà tra i vari conflitti innescati nel processo, che ho raccontato, era sempre latente il conflitto tra attori e drammaturghi, le cui istanze sembravano opprimersi a vicenda: e i vivacissimi cenni di consenso al discorso di Gerardo, da parte di alcuni attori, erano un segno di facile lettura.
Ma dunque è questo? Occorre veramente de-cidere tra "racconto"
e "presenza"? Tra vita del testo e vita dell'attore?
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Per rappresentare questa guerra fra racconto e presenza ne racconterò un'altra, che le assomiglia. La guerra delle storie contro le immagini nei film. Parla Wim Wenders, a Livorno, ospite di un bellissimo seminario di drammaturgia, nell'82 (4). Wenders ha esordito come pittore ("painter of landscapes and cities"), poi si è accorto che alle sue immagini mancava qualcosa: il tempo. Ha girato i primi film, è diventato "un pittore di spazi in cerca di tempo": ed è allora che si è scontrato con le storie, con la loro invadenza. Il regista prende il gesso e traccia su una lavagna una drastica riga verticale. Scrive i titoli delle sue opere, in due liste, da una parte e dall'altra della riga: a sinistra tutti i film in bianco e nero, a bassissimo costo, senza una sceneggiatura scritta; a destra tutti quelli a colori, con produzioni più solide, e con sceneggiatura. Cronologicamente, le due liste non andavano lette in verticale, ma a zig-zag. Ci spiega che ogni volta che faceva un film di quelli "a sinistra", seguiva il fluire delle inquadrature, delle immagini così come naturalmente sembravano presentarsi allo sguardo "nelle città", e dei nessi casuali che si creavano tra loro: a questa assoluta libertà, leggerezza, indeterminatezza, che ripeteva la vita, si accompagnava però un sentimento di alea, di ansia, di caos. Allora il film successivo andava nella parte destra dello schema, sotto una più poderosa produzione, a colori, e con tanto di sceneggiatura scritta e fissata: in cui Wenders si sentiva immediatamente prigioniero. Per cui il film successivo tornava nella zona sinistra, e così via.
A quel punto diceva così: "Questo stage è intitolato 'Le pratiche del narrare'. Se voi siete scrittori vi sembra logico che il narrare conduca alle storie. Non sembra esserci bisogno di forzare le parole ad entrare in una frase, e una frase ad entrare in una storia. Per me, invece, le immagini non conducono a nient'altro che a se stesse, vogliono dire solo se stesse. Vogliono piuttosto sfuggire alla storia, bisogna forzarle perché si comportino come le parole, manipolarle. Queste manipolazioni sono pericolose: la storia toglie energia alle immagini. Le immagini sono sensibili, come lumache ritirano le corna quando le tocchi, e non vogliono trasportare nulla: niente messaggi, niente significati, niente morale, come pretendono le storie. Le storie sono vampiri.
Ma d'altra parte le storie sono forti, potenti, sembrano portare alla gente qualcosa di più che humour, thrilling o che altro. Pare che non sia possibile eluderle. Creare storie significa creare un contesto, la sensazione per il pubblico che ci sia un disegno, un ordine nel caos che abbiamo intorno. Ma io credo che le situazioni non siano ordinate, non siano collegate tra loro. Io non so cosa capiti a voi, a me sono capitate situazioni, sempre solo situazioni, mai storie. Le storie esistono solo nelle storie...". E c'è stato un grande applauso, a questo punto.
Dopo questo discorso, ho sempre spiato le opere successive di Wenders
con una speciale, personale attenzione, e con una confusa speranza: come
si osserva un amico che combatte una fase ulteriore della nostra stessa
guerra. Messa come l'aveva messa quella sera, sembrava un vicolo cieco,
che non lasciava altre uscite se non quel pendolo coatto nello schema.
Ma c'era già da allora una nota nuovissima nella sua testimonianza,
che la rendeva così accorata, e che alludeva qualcosa che anni dopo
ho cominciato a capire. Il fatto è questo: era raro sentire qualcuno
che non fosse alfiere terribile dell'una o dell'altra parte dello schema,
ammutolito Krapp del novecento, o stentoreo Radames dell'ottocento. Era
difficile sentire qualche artista che portasse, magari sotto forma di travaglio,
di stimmate bilaterali, i presagi della complessità.
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C'è un'altro stretto di Scilla e Cariddi in agguato sulle rotte del teatro: lo stretto tra processo e prodotto. "Dura Madre Mediterranea" è un processo. L'abbiamo chiamato "vigilia di un'opera": altre volte Teatro Settimo ha usato la parola "accostamento".
Ma cosa vuol dire accostamento? "Noi, per i nostri spettacoli, abbiamo sempre scritto 'da': da 'Le affinità elettive' di Goethe, da 'Tenera è la notte' di Fitzgerald, da 'Riso amaro' di De Sanctis. In realtà avremmo sempre dovuto scrivere 'a'. Tutti gli spettacoli che noi abbiamo fatto in qualche modo sono 'a': sono 'a' Mendeleev, 'a' Goethe, 'a' Fitzgerald. 'A' come nozione di transito: verso quell'autore, verso la comprensione di quell'autore."
"Percorso di identificazione di una donna", il film di Antonioni, è un forte esempio: "Antonioni ha messo in scena il processo attraverso cui si capisce perché si fa un film su qualche cosa." Non si tratta dunque solo di capire un autore, o un testo, ma anche i propri perché, i propri motivi e la propria posizione "verso" quel testo: devono essere ben presenti, cioè, i due estremi del movimento. "Da" Teatro Settimo "a" Fitzgerald si tende lo spettacolo "Istinto occidentale". Questo spettacolo non è il risultato di un'avvenuta comprensione, ma un percorso di comprensione. Non è puntiforme, è lineare. Così "Dura Madre" è un processo di accostamento ad un'opera teatrale, ma che intende come opera teatrale lo stesso accostamento.
Questa antinomia tra processo e prodotto, e la rivalutazione del primo sul secondo, non è invenzione di Teatro Settimo, né del teatro di ricerca, né di questo secolo. Era già in corso ai tempi di Lucio Anneo Seneca che, parlando dell'eccellenza del processo (in questo caso della pittura) sul prodotto, diceva: "non gode allo stesso modo chi toglie mano dall'opera finita: oramai ha a che fare col frutto della sua arte; mentre dipingeva, aveva a che fare con l'arte". Nei discorsi di "Dura Madre" del resto, i nomi che abbiamo trovato per chiamare questo problema del processo, sono classici più che novecenteschi: parliamo di "otium" latino, o di "scholè" greca. Questi nomi, che nella nostra lingua vestiranno un curioso contrasto, volevano dire in realtà la stessa cosa: il tempo dedicato all'operosa e meditata costruzione del senso degli atti, che poi il "negotium" materialmente eseguirà.
Bene: anche questo stretto, tra processo e prodotto, può diventare
una morsa. La prepotente legge dei prodotti, normalizzando il teatro ad
ogni altro "consumo", esige lanci di nuovi titoli sul mercato
con una frequenza che esclude, non dico un accostamento meditato e biologico
all'opera, ma fin l'accuratezza della sua confezione. Relega poi i processi
corti di questi prodotti in un (meritato) retrobottega o retroscena, il
cui accesso è "riservato al personale", come le cucine
sporche dei ristoranti dietro le sale tirate a lustro. La giusta rivendicazione
del processo, dal canto suo, ha portato a reazioni spastiche contrarie:
al prodotto è negata ogni funzione, spettacoli radi e sciatti vengono
proposti ad un pubblico ignaro come fasi eternamente provvisorie di non
meglio noti processi in corso perpetuo. Le opere, rifiutate come prodotti
e degradate a sottoprodotti, non hanno più legittimità, necessità,
bellezza, perché non la nascondono più al loro interno, affinché
il loro pubblico la scopra, ma spediscono questo pubblico a cercarla in
un impreciso altrove: un processo, una tendenza, o il mero proverbio assolutorio
che "il teatro è oltre lo spettacolo".
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La lista di questi duelli può continuare, di grado in grado, per tutto il sistema delle opere dell'arte. Se Wenders aveva detto che le immagini sono oppresse dalle storie, Vincenzo Cerami, abile e consapevole sceneggiatore italiano, solo pochi giorni prima, nello stesso seminario, aveva detto che le storie sono oppresse dalle idee: che le sceneggiature "a tema" non camminano, che un'idea filosofica, politica, morale, posta in cima o in fondo a un film, ne accorcia drasticamente lo sviluppo, lo dà per visto, lo appiattisce; e così via. Ecco dunque srotolarsi, davanti ai nostri occhi, una tristissima catena di conflitti, abiure, veti, una catena guerriera in cui ciascun anello combatte ed opprime il successivo. Le idee sul mondo divengono tesi dottrinarie e costringono i liberi flussi delle storie; le storie soffocano nella loro algebra il maturare organico di personaggi vivi; i personaggi imprigionano le persone degli attori, che sono costretti a "calarvisi" come in angusti pozzi. E con un ultimo salto di protervia, il sistema produttivo del teatro, dall'alto, distribuisce equamente oppressione a tutti quanti.
A queste trombe di guerra in genere si risponde entrando in campo. Scegliendo l'uno o l'altro degli anelli oppressi, e aprendo guerre di liberazione: che ben difficilmente non conducono a ribaltamenti, bene che vada, e quindi a oppressione degli anelli oppressori spodestati. Ecco dunque i ribaltoni della storia, i proclami che annunciano di volta in volta la fine dell'errore, e la restaurazione dell'"elemento centrale del teatro": l'altro ieri il testo, ieri il regista, oggi l'attore.
Ma ecco invece, per noi, la seduzione della "resa". Questa parola importantissima per "Dura Madre", che qui alla fine spiego: la decisione di rispondere alle trombe di guerra con un "no grazie" unilaterale. E non per codardia, o per incapacità a reggere il conflitto: per noia. Perché per fortuna a un certo punto ci si stufa, interviene una salutare noia di antitesi che si ripropongono identiche, pendolari, simmetriche, nel tempo. Una dialettica bloccata, morta o malviva, che esala ancora figure del discorso, fuochi fatui. Come quelli che parlavano di tutto, alla fine di "Nel tempo tra le guerre", per concludere sempre che "comunque, non c'è più niente da dire".
Ancora? E per quanto, ancora? Per quanto ancora per esempio, io mi chiedo,
la drammaturgia dovrà scontar l'esilio che si è ben meritata
per quel secolo di colpe che è noiosissimo sentirsi ancora ricordare?
Un secolo d'esilio non basta? Sono questioni vecchie: non le si può
risolvere, non "in quei termini", altrimenti sarebbero state
risolte, in tanti anni, col pensiero e l'opera di tanti uomini, di noi
maggiori. Vanno sepolte, così come sono, irrisolte "in quei
termini", nel cimitero dell'altro millennio, con tutti gli onori.
E vanno affrontate in termini diversi.
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"La semplificazione comincia nel momento in cui la distinzione elimina la relazione fra l'oggetto e il suo ambiente, nel momento in cui l'oggettivazione elimina l'attività costruttiva del soggetto nella formazione degli oggetti, nel momento in cui la distinzione diventa disgiunzione che separa e che isola le entità senza farle comunicare, nel momento in cui l'oggettivazione diventa oggettivismo (illusione di credere che la nostra mente rifletta, e non traduca, la realtà esterna), nel momento in cui l'analisi diventa riduzione del complesso al semplice, del globale all'elementare, nel momento in cui la disambiguazione del reale diventa visione unilaterale, nel momento in cui l'eliminazione di taluni caratteri o aspetti dell'oggetto o del fenomeno li trasforma in oggetti o fenomeni a una dimensione, tentando così una riduzione ad un unico carattere o aspetto." (Edgard Morin, op.cit., pag.114.).
Si tratta quindi di questo: di sostituire agli aut-aut gli et-et. Di negare le distinzioni, ma solo quando si presentano in veste di disgiunzioni, di eludere le de-cisioni solo quando si presentano come mutilazioni. Si tratta in fondo di legami tra le cose, cioè di religio, di relazioni tra gli enti, cioè di affetto. E non bisogna fare confusione: "Dobbiamo evitare la Cariddi della disgiunzione/riduzione e la Scilla della confusione". Senza distinzioni tra le cose, e nella confusione, non si vive: se non fossero distinte le due gambe che fanno il passo, i due toni del cuore, i due momenti del respiro, non si andrebbe da nessuna parte. Ma nessuno si sogna di chiedere a nessuno di decidere con quale gamba vuole camminare, se vuole vivere con sistole o diastole, mediante inspirazioni o espirazioni. Ed è solo una finissima collaborazione fra elementi distinti e antagonisti, fra muscoletti flessori ed estensori, che permette alle dieci dita di un pianista di lavorare come cento.
Non confondiamoci, quindi: nessuno sta proponendo pilatesche equivalenze
di ogni cosa, marmellate di relativismo, paralizzanti quanto i crampi.
Le distinte componenti di ogni atto devono prevalere una sull'altra, ma
lo scopo deve essere l'atto, non il prevalere. I muscoletti del pianista
collaborano, quando l'uno si contrae l'antagonista si rilascia, ma questo
cedere non è rinuncia: è esso stesso lavoro. Ed è
riposo, perché subito è il suo turno, e infine la somma sarà
un solo concerto per entrambi.
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Così è possibile lavorare nel teatro. Le opinioni sul mondo, i sistemi di idee possono sostenere la delicatezza delle storie, se si arrendono un attimo prima di irrigidirsi in dottrine, e soffocarle. Le storie, le meticolose drammaturgie del racconto, sono il solo paesaggio dove possono vivere appieno le delicate drammaturgie dei personaggi, se non diventano paesaggismi di maniera. I personaggi sono per gli attori l'antichissima dimora della persona, se il gioco tra i due sa essere l'armonico invadere e ritirarsi che il teatro conosce. Ed infine i processi devono essere vigilie, accostamenti, cammini di conoscenza personale per chi li compie, da rispettare in quanto tali: ma chi li compie deve rispettare i cammini di conoscenza degli spettatori che vengono a vederne i prodotti, chiamati da lui, se li chiama.
Tutti questi anelli di conflitto o di concordia si assomigliano moltissimo l'un l'altro. Come i successivi profili di una costa, osservati su scale decrescenti, che mostrano penisole e golfi, poi promontori e baie, poi scogli ed anfratti, poi rughe e singole crepe della roccia, e giù fino agli atomi: e di scala in scala presentano agli occhi e al metro sempre lo stesso profilo frastagliato. La nuova fisica chiama "frattali" questi oggetti "di forma estremamente irregolare o estremamente interrotta e frammentata, e che rimane tale qualunque sia la scala a cui li si esamina" (5). Nei nostri due soggiorni, il profilo frastagliato del sistema narrante (formato da attori, registi e drammaturghi) si ripresenta simile nel sistema narrato (figure di relazioni tra i fratelli), e simile nel profilo frastagliato del "libro sacro" che ne è guida, e nel profilo del paesaggio intorno, e del mondo ancora più grande intorno a lui.
Per questo non serve combattere un profilo con l'altro, come non avrebbe senso sostenere che il profilo dell'Italia è solo uno, misurabile e certo. Per questo non crediamo ad un teatro monodimensionale, ridotto ad un solo profilo dominante, che azzera la trina della sua complessità.
La complessità, la caoticità dei sistemi, la ricorsività,
la frattalità, l'interdipendenza, tutti questi oggi si chiamano
"nuovi paradigmi": ma il teatro, che è antico, non dovrebbe
trovarli nuovi veramente. Essi sono sempre stati il suo paesaggio.
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Quanto a noi, non sono il nuovo o il già detto i paradigmi su cui "Dura Madre" misura il suo cammino. Perché essi stessi sono comunque cose già dette, loquele di fuochi fatui nei cimiteri dell'altro millennio. Qui il gioco è assai più serio, assai più duro, perché veramente, "there is no competition". Purtroppo non c'è più nessuna gara, su cui indugiare: il compito non è più contraddire le tendenze o gli uomini del teatro prima di noi. Purtroppo ormai sappiamo che "quanto c'è da conquistare / con forza e sottomissione, è già stato scoperto / una volta o due, o tante, da uomini che non si può sperare / di emulare - ma non c'è nessuna gara...".
Non ci sono più padri da emulare, ma solo perché è il nostro turno di essere padri. Allora c'è solo da tentare di fare un teatro che sia vivo, come è stato per tanti. "C'è solo la lotta per ritrovare ciò che si è perduto / e ritrovato e perduto ancora e ancora: ed ora, in circostanze / che sembrano poco propizie...". Perché "la conoscenza che precede" di Peter Handke, la forza antica e biologica del dire, che da inestricabili sistemi di conflitti scende e si scioglie nella mitezza dei passaggi, pare perduta, bloccata in crampo, ed è da ritrovare. E l'unico modo di sciogliere un crampo è questa mitezza, questa resa. E' nel suo fondo mite, anche se pare guerriera è nel suo fondo una resa, la vera strategia di "Dura Madre": sottrarsi ai richiami di guerra, alle logomachie dell'altro millennio. Rimboccarsi le maniche, e alzare le mani al cielo. Nessun punto esclamativo, nessun proclama di palingenesi teatrale: fare spettacoli uno dopo quell'altro, e trovare le strade migliori per preparare il successivo, non è altro che il dovere di ogni artista, che si può fare meglio o peggio, come si è sempre fatto.
Ma così, mani al cielo, dire realisticamente: "noi vogliamo tutto". Vogliamo nelle nostre opere la testimonianza delle idee e l'intrusione del mondo, la larga articolazione della storia e la piena maturità dei personaggi, la vivissima presenza degli attori e la delicata autarchia dell'immagine; e tutto insieme lungo processi che siano veri cammini di conoscenza personale per chi li compie, e fabbriche di belle opere per gli altri. Vogliamo che queste cose cessino di combattere tra di loro e con noi: che semplicemente collaborino nella complessità, come i muscoli antagonisti nelle dita di un pianista, fluidissimi nei passaggi. E' volere troppo? Si rischia di perdere tutto? O caso segretamente più nefasto, di guadagnare tutto? Forse sì.
"Ma forse non c'è guadagno né perdita. / Per noi, non c'è che tentare. Il resto non ci riguarda."
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Questa pagina è stata aggiornata il 6 maggio 1997