Laboratorio Teatro Settimo
AB ORIGINE: LUOGHI PER DURA MADRE MEDITERRANEA
LA PASSIONE E LA PAZIENZA
Saggio e racconto sul laboratorio teatrale "DURA
MADRE MEDITERRANEA"
di Bruno Tognolini
Terza parte
MITOPOIESI
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della Prima Parte del SAGGIO
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della Seconda Parte del SAGGIO
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della Terza Parte del SAGGIO
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di Dura Madre Mediterranea
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"Io ho ereditato da mio padre il bizzarro destino di avere un
compito nella vita.
E da mia madre, la vita."
(Demetra, "Dura Madre Mediterranea",
Montalcino)
Nei discorsi di "Dura Madre" elencavamo le cose da portare con noi: non nell'altro millennio, come Calvino, ma in questo viaggio, nella nostra vigilia, che forse è su quella strada. Erano tre: la mitezza, la molteplicità e la nostalgia del dramma. Questo dramma che non sembra possibile ormai, né come accadimento, perché tutti dicono che non c'è più accadimento, né come condizione, perché la condizione di stallo è già stata cantata mille volte, da uomini che non si può sperare di emulare. E così non possiamo né andare né restare. Dove ci porta allora questa nostalgia?
Poi aggiungevamo: nostalgia del mito. Cosa c'entra il dramma col mito? Antonio Musco, chiamato Garybaldi, propone una paretimologia, una derivazione inventata e suggestiva, che conferma il suo soprannome intrepido: "mito-mitezza". Ma lo spunto giusto per trovare questa strada, dal dramma al mito, ce lo dà Gerardo Guccini, una mattina, in una conversazione nel gabinetto drammaturgico di Drena. Ci suggerisce come "Nel tempo tra le guerre" possa essere una forma contratta di una più vasta narrazione: come la trilogia di Eschilo è cristallizzazione del mito largo e diffuso degli Atridi, una delle tante forme in cui questo mito è stato narrato.
Allora si è aperto un orizzonte grande, che in questo capitolo
tenterò di rappresentare. Il dramma è una delle molte cristallizzazioni
possibili del mito, un modo di raccontarlo. Il mito è complesso,
indefinito, ubiquo, con elusive radici sacre, forse divine: il dramma è
una sua incarnazione tangibile, un'ipostasi. Se dal mito diffuso degli
Atridi discende la trilogia di Eschilo, allora qual è il mito che
precede il dramma del Colonnello e della sua stirpe? Dove e quando è
stato raccontato, nelle forme pervasive ed evasive che gli spettano? "Nel
tempo tra le guerre" è un dramma senza mito?
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"Siamo nella necessaria condizione di disincanto, e dobbiamo vivere in un mondo disincantato. Ma il mondo disincantato non è il mondo piatto e prosaico degli interessi egoistici: è il mondo liberato dalla stupidità delle soluzioni finali, del radioso avvenire, del progresso indefinito e infinito. (...) Questo necessario disincanto provoca spesso uno scoraggiamento, che comporta un ripiegamento cinico su se stessi oppure rimette in scena i vecchi miti già abbandonati; il disincanto può essere così una semplice pausa che precede una nuova sacralizzazione." (1).
E' vero. Basta spiare la nostalgia del mito, indirettamente, nello specchio di alcune tendenze del teatro. Orfeo canta, ma dobbiamo stare attenti: il nostro bisogno, la nostra nostalgia di archetipi e miti è una cosa concreta e dolorosa. I miti, sono molto più elusivi. E allora dobbiamo sapere se per bocca nostra cantano i miti, o se canta solo la nostra nostalgia. Cioè la loro assenza, e la nostra impotenza, cioè il crampo del novecento ammutolito. Probabilmente la battaglia non è persa in partenza, spesso si assiste a bei duelli di magia; se l'artista è maturo e potente talvolta è il mito che è costretto, come al richiamo di Aladino, ad apparire, e a fare ancora una volta il suo lavoro: riassumere la realtà nel paradiso. Per anni si sono viste apparizioni millenarie sulle scene della Valdoca. Ma la velocità di combustione di questi fuochi fatui è oramai sincronizzata coi tempi, ed il ricambio degli archetipi è fulmineo, son già quasi maniera appena nati. Perché i "nuovi archetipi" sono (letteralmente) ossimori, chimere, forme teratogene incompatibili con la vita, nate vecchie.
Qui sì che il teatro si aggancia alla realtà, e il fenomeno teatrale ripete il fenomeno sociale del buddhismo, dello yoga, dello zen, della macrobiotica, del nuovo rigore salutista o avventuroso, e insomma dei riti corti bruciati dalle mode. Per poi tornare, terminato il giro, a sposarsi in chiesa: magari solo perché in fondo quel "bel" rito, vista l'età sua e nostra, offre maggiori garanzie.
Così, dopo anni di kathakali, kabuki, orissi (2), eccoci tornati nel bacino: ma non si è fatto in tempo a sentire la voce omerica del cuntu siciliano, che già risuonano in scena i misteri delle voci bulgare, o - come è capitato di sentire a me sardo - sarde. Questo è un momento importante: non possiamo stare a sfogliare i trattati di etnologia, per far teatro.
E invece miti ed archetipi, nell'autunno della nostra nostalgia, invadono
la materia (Medee, Antigoni, Troiane) e le forme (scialletti bulgari) del
teatro più vivo. Eccoci a un altro pendolo coatto, a un'altra guerra
tra muscoli antagonisti, a un altro crampo: se "il disincanto può
essere così una semplice pausa che precede una nuova sacralizzazione",
noi siamo qui, a mezz'aria tra disincanto, ri-sacralizzazione e disincanto:
e si tratta soltanto di alternare scoperta di miti esotici a riscoperta
di miti nostri, il gamelàn ai maggi, la pratica buddista al matrimonio
in chiesa. Sono davvero queste le sole strade che ci restano? Questa smitizzazione
ricorsiva, è necessaria? Se decidiamo di eliminare tutti i miti,
perché poi allora non sappiamo vivere in un reale nudo e crudo?
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"Il problema, allora non è quello di vivere in un reale nudo e crudo, che abbia eliminato tutti i miti: questo reale, semplicemente, verrebbe meno. Il problema è di riconoscere e di chiarire la realtà dell'immaginario e del mito, di vivere con una nuova generazione di miti, i miti riconosciuti come miti, di creare con i nostri miti una comunicazione non più folle e non più cruenta, di possedere i miti nella stessa misura in cui essi ci posseggono" (Edgard Morin, op.cit., pag.89.).
Ecco Scilla e Cariddi, ed ecco una rotta possibile per passare lo stretto. Una "comunicazione cruenta" coi nostri miti è quella che si rivolge loro solo per possederli: il che significa, nel novecento, analizzarli scientificamente, ridurli alla somma delle loro funzioni sociologiche, antropologiche, e quindi "demitizzarli", cioè sopprimerli in quanto miti. Ma se da un lato il disincanto smantella i deliri, e ci restituisce "un mondo liberato dalla stupidità delle soluzioni finali", dall'altro questo mondo è un "reale nudo e crudo", dove la vita, semplicemente, viene meno.
All'altro estremo del crampo una comunicazione non più cruenta, ma ancora folle, coi nostri miti: quella che, deprecando l'ansia riduzionista della scienza, trovandosi sola in un reale nudo e crudo, vuole restaurare i miti nelle loro definizioni primitive, di rivelazioni, di exempla risolutori della realtà. Questa ri-sacralizzazione si riconsegna senza memoria ai miti, ne viene completamente posseduta. Ed ecco i "nuovi archetipi", i mostri dai brevissimi destini.
Una comunicazione "non più folle e non più cruenta", invece, conosce i miti, li riconosce come miti, ed a loro tuttavia rivolge la parola non per distruggerli, o per restaurarli, ma solo per raccontarli ancora, e ancora. E' di nuovo una questione di "resa": se la chiamata è a schierarsi fra mito e storia, fra illusione e disincanto, fra sonno nei cieli dei racconti millenari o veglia nella terra desolata dell'informazione, si può tentare di sgusciare all'aporia, e scegliere la terza via: la veglia dei racconti. Il mito riconosciuto come mythos, cioè racconto poetico. E a dispetto delle analisi riduzionistiche o dei deliri sacralizzanti, il mito non ha mai smesso di essere racconto raccontato nei millenni. Nostro compito di teatranti non è né negare né affermare, ma raccontare questo racconto, perché altri non hanno mai smesso di farlo al posto nostro, e siamo rimasti indietro di parecchio.
E allora daccapo, ab origine. Riproviamo a raccontare, per vedere
se ne siamo ancora capaci. Se siamo capaci di vivere (e per quanto ci riguarda,
lavorare) con "una nuova generazione di miti":
miti sostenibili, maneggiabili, non più arroventati dalla polarizzazione
tra sacro e scienza. "Miti riconosciuti come miti", cui
appartenere, sì, ma che ci appartengano. Da servire con dedizione
millenaria, ma che ci servano, per vivere e lavorare, qui e oggi.
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Son miti allora le storie della stirpe che va ricostruendo "Dura Madre"? No. Un mito si può raccontare, ma mito non è il racconto, è il raccontare. Il mito è "la conoscenza che precede" di Peter Handke, non la storia che segue. E non parlo di un ente trascendente, di un motore immobile, ma solo di buone disposizioni al fare, di buona volontà degli artisti. Forse questa conoscenza che precede è solo un saper fare, o un voler fare. Niente di più immanente: una prassi.
E quale prassi? Un mito è tendenzialmente ubiquo, immenso, un corpo pervasivo ed evasivo: possiamo immaginare miriadi di "versioni" che molti uomini ("i molti greci che noi chiamiamo Omero", dice Borges) hanno dato nei secoli di una "visione" originaria, ormai perduta nel buio delle fonti. E le opere persistenti dei letterati, dei pittori, dei musicisti, non sono che ancora una parte del processo: dobbiamo aggiungere le forme labili dei canti popolari, dei proverbi, dei nomi propri di gente qualsiasi, delle metafore, delle inerzie verbali condivise da ogni parlante di una cultura. Le narrazioni che compongono un mito appartengono più ai modi della "diceria" che a quelli del testo. Un mito deve essere parlato, vociferato da molte persone in molti luoghi per molto tempo: deve generare e poi attraversare una rete di relazioni fra gli uomini. Vive soltanto in una diceria.
Ed è per questo, forse, che comprensibilmente disperando di poter mai colmare questo vuoto di millenni, gli artisti si accodano ai miti già parlati, senza osare parlarne di nuovi. Ma il problema, ancora, non è "il nuovo" o "il già detto", non è il mito classico, odierno, o rivisitato. Non è nemmeno il mito: è la sua diceria. La diceria di un mito, quella sì, deve essere nuova ogni volta: va rinnovata, tenuta in vita, non è data una volta per tutte. Non si può delegare al passato la diceria, il ruolo del coro, dell'eco, e riservarsi il compito della voce solista: così facendo ci si assume solo la metà del lavoro. E' necessario contribuire, per quanto possiamo, alla diceria, sia che si azzardino narrazioni nuove, sia che si parlino narrazioni già narrate.
Questo può esser fatto in un tempo umano, nel tempo di un'opera, non ci si deve confrontare coi millenni. La filogenesi rispecchia l'ontogenesi, le liturgie riassumono in un'ora gli eventi di un'era, e siamo nell'era delle simulazioni: ogni volta si può e si deve "ricominciare da capo", come dice Eliot, e riprodurre in scala, in un processo breve, il gradus di processi millenari. Così si può cominciare da testi sacri, d'origini divine, o classiche, che è lo stesso per gli artisti: ma poi si dovrà intessere intorno ad essi un fitto chiacchiericcio ermeneutico, un talmud di narrazioni parallele, glosse, versioni apocrife, proverbi.
Questo può esser fatto da un uomo solo, da pochi, o da tanti.
Se di fronte alle grandi opere letterarie, dice Pasternak, "non
si può non incorrere alla fine, come in un'eresia, / in un'incredibile
semplicità", ciò non vuol dire che non siano anch'esse
l'ipostasi, la forma cristallizzata di una innumerabile diceria, che lo
scrittore con se stesso, col suo popolo interiore, apparecchia. Ma il teatro
è creazione collettiva, e tanto più sarà terreno adatto
al germogliare della diceria. Allora le narrazioni, le glosse, le versioni
apocrife, i proverbi, assieme ai sentimenti, gelosi, o generosi, correranno
in una rete forte che moltiplica il racconto: una rete di umane relazioni.
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"Dura Madre" è una diceria. E' un atto di mitopoiesi teatrale, un lavorio per restituire a un'opera il mito che le manca. Per ogni parola dell'opera un milione di parole alle spalle, tra ogni riga del testo un libro non scritto. In modo che ciò che compare in scena alla fine sia pesante, e il vento del disincanto, dell'insoddisfazione del teatro, che dice "non si può raccontare più niente", non lo porti via più.
Un giorno a Drena, scherzando, prendevamo alla lettera il discorso: se "Dura Madre" deve ricostruire il mito mancante di "Nel tempo tra le guerre", dopo questa meticolosa ricostruzione l'opera finale sarà ancora "Nel tempo tra le guerre", tale e quale. Il paradosso borgesiano del critico Menard, chiosatore tautologo del Chisciotte, ci raggiunge ogni volta di sorpresa: forse è una soglia, o un buco nero, o solo un paralogismo della nostra cultura, che ci canzona. Bene, anche se fosse, noi non avremmo lavorato invano, perché sarebbe un'opera diversa, è già ora diversa. Ma non sarà così.
E comunque non c'è da preoccuparsi: occorre pazienza, questo
ora non è un nostro problema. Noi sappiamo da dove partiamo, e abbiamo
capito come si cammina. Poi vedremo dove si arriverà. Non sappiamo
se "Nel tempo tra le guerre" è fermo davanti a
noi come una meta paradossale: ma di sicuro è alle nostre spalle,
fermo, come è fermo un libro sacro.
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6 . Caratteri di un libro sacro
Finalmente cercherò di raccontare quest'immagine, di cui ormai ho parlato tante volte. Elencherò alcuni caratteri del libro sacro, non quelli che dovrebbe possedere in astratto, ma quelli che noi lungo la nostra esperienza scoprivamo.
Oscurità. Un libro sacro è oscuro, perché viene da fonti oscure: è stato scritto da entità misteriose, o da uomini guidati da forze non chiarite. "Nel tempo tra le guerre" è stato composto in un mese, con un solo gesto creatore incosciente, l'esatto contrario di questa diceria. Nei nostri discorsi del giardino Gabriele a un certo punto ha detto: "Abbiamo scritto e abbiamo fatto delle cose, non sappiamo perché le abbiamo fatte, sappiamo però che rispondono a regole di funzionalità teatrale, di rispondenza, e quindi ora le stiamo interpretando."
Indecifrabilità. Un libro sacro è oscuro perché è indecifrabile, virtualmente non può essere chiarito. "Nel tempo tra le guerre" viene da una triade di generatori, tre fonti della fonte: il testo "Cent'anni di solitudine", di Garcia Marquez; un gruppo di uomini e donne, modelli su cui i personaggi sono stati "copiati"; e Teatro Settimo "facitore", in greco "poeta", o semplice applicatore delle "regole di funzionalità teatrale". Questi tre elementi sono già per conto loro "sistemi frattali", dai profili estremamente frastagliati. Come sarà inestricabile il profilo del sistema madre che li combina?
Ambivalenza. Essendo così frastagliato e minuzioso, un libro sacro è per forza sibillino, ambivalente, contiene spesso possibilità contrarie. Entro certi limiti, possiamo leggerci quello che vogliamo, o che dobbiamo in quel momento del processo, come spesso abbiam fatto. E' simile in questo alle regole dei giochi dei bambini, che loro possono cambiare in campo, entro certi limiti. Questi limiti, che sono a loro volta misteriosi, disegnano l'identità profonda di libro e gioco.
Appartenenza. Un libro sacro ci deve appartenere. "Possiamo trattarlo come un libro sacro, perché in effetti questo testo è stato creato dai suoi stessi lettori." Come i miti sostenibili, di cui parla Morin, il libro sacro ci deve appartenere nella stessa misura in cui noi gli apparteniamo. Così, nell'affrontare la sua oscurità e indecifrabilità, ci assicuriamo le condizioni di massima somiglianza.
Frontalità. Un libro sacro ha struttura frontale, non centripeta. "Nel tempo tra le guerre" è stato costruito secondo un piano ben preciso: l'esclusione del dramma. I fratelli si presentano uno a fianco all'altro, e tutti di fronte al pubblico: è il quadro della loro camminata, come un fronte d'offerta, o un'onda d'urto. Questa frontalità non è la molteplicità d'accumulo e ridondanza, metonimica e postmoderna (3): è piuttosto frontalità "sacra", paragonabile semmai a quella dell'iconografia (sacra) paleocristiana, quando l'agiografia narrativa non è ancora sopraggiunta a scomporre il fronte schierato dei santi, e a ricomporlo nello spazio in scene, quadretti, architetture delle umane relazioni. Queste verranno, sono il compito nostro.
Prima ho parlato contro l'illusione, la disperata risacralizzazione, mossa soltanto dalla nostra nostalgia: ed ora parlo di libri sacri, oscuri, infiniti. Ma per fortuna non c'è contraddizione, perché il nostro sacro è "sostenibile" a sua volta: consapevole, possibile oggi, riconosciuto ad occhi aperti come sacro. Con la stessa fortuna ed abbondanza, del resto, prendiamo le nostre figure dai fronti più avanzati della scienza, che col sacro a loro volta non combattono più da lontano, ma sono arrivati alle sue porte, e lì esitano, come gli angeli di Bateson, di Capra, di Laing.
Il sacro o la scienza non devono farci impressione, e non devono farci
difetto. Ci serve ciò che non varia nei due approcci, ci servono
quelle soglie che entrambi alla fine sono costretti a indicare, che sono
umane: la complessità, l'inesauribilità, l'abbondanza. Non
sono sacro e scienza le vere antinomie, le vere scelte: sono piuttosto
ricchezza o povertà, sacre o frattali che siano.
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7 . Il libro delle somiglianze
Ma un libro sacro possiede un'altra proprietà, forse la più importante: contiene simultaneamente la storia e la decifrazione della storia, gli enigmi e la loro chiave, la descrizione della realtà e la prescrizione degli atti necessari a compierla. Parlando di drammaturgia tradizionale, potrei dire che in un testo teatrale vivo le didascalie sono incarnate nelle battute; qui posso dire che la storia dei personaggi è anche storia delle persone, addirittura di quelle persone: è descrizione cifrata del processo che quelle persone debbono compiere per realizzare la storia di quei personaggi.
Potrei fare di questo tanti esempi. Alcuni li ho già detti: ho già detto come forse la chiave più profonda del processo sia nascosta in una battutina secondaria del libro sacro. E' il rifiuto del crampo, dell'auto-ammutolimento degli artisti, espresso nella secca risposta ai fuochi fatui dell'altro millennio: "e allora perché parlano?". Da qui discende l'assunzione della responsabilità terribile, e mite, del narrare: la prima matria è la matria dei racconti, e la sua primogenita, Demetra, è custode e mediatrice delle storie che giustificano e rifondano la stirpe.
E da qui in poi le somiglianze scorrono con abbondanza. I nomi segreti che Benedetta vuole per i figli: e i doppi nomi dei personaggi e degli attori. I piani per il futuro della stirpe, cifrati nell'ordine alfabetico: e i piani del processo, cifrati nel libro sacro. L'arrivo dei nuovi fratelli nella casa: e l'arrivo dei nuovi attori nei soggiorni. Il rischio dell'invasione per il nucleo più interno di Teatro Settimo: e il rischio di Demetra, Fosca e Gaia, la cui stirpe non può esistere senza i nuovi venuti, ed è messa in grave pericolo da loro. E poi le iniziali dei fratelli, che finiscono sempre nel caos, e che Scolastica periodicamente ricompone, scrivendo con esse: non fanno così anche i drammaturghi? E se i gruppi non sono morti, come mai i fratelli costruiscono un nuovo cimitero? In quello dell'altro millennio chi c'è? Chi c'è nei nostri? E la progenitrice, Donna Anna, che è ancora viva, dove l'abbiamo messa? E come mai Zoe, ultima dell'alfabeto, indugia tanto a nascere da Gaia? E' lei la "Dura Madre", una neonata? E' lei il nostro spettacolo finale? E allora chi è il padre?
E perché io poi trovo un brano poetico di Eliot, che sembra un promemoria di quesiti e intenzioni scritto da noi intorno al lavoro nostro, e nel suo primo verso questo brano parla di "tempo entre deux guerres"?
E poi perché le madri sono sette? Molte serie del sette che troviamo sono in realtà sei più uno. Come le sette direzioni dello spazio sono sei che ruotano intorno: avanti, dietro, destra, sinistra, sopra, sotto. Più uno: qui. Ma allora: chi è il Settimo? Noi siamo qui?
E di qui verso le ultime domande: perché "Dura Madre"?
Perché "Mediterranea"? Che storia è questa?
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Cinque minuti fa ho incontrato per strada Gianni Celati, non lo vedevo da più di un anno, è stato via. E' segno che devo concludere questo racconto.
Vorrei scrivere ancora tante cose, quante cose può contenere un saggio come questo? In fondo, io lo so già da ora, che cosa vuole raccontare "Dura Madre". Cosa io voglio raccontare in lei. Ci sono momenti, rari, in cui all'improvviso lo sappiamo benissimo, di che cosa si tratta, in generale. Ma si vede che i giorni ignoranti vanno fatti, uno dopo l'altro. Si vede che esiste il tempo, come ci insegnavano le nostre pie madri, con i loro racconti di lallazione, senza senso.
So benissimo qual'è la materia del racconto. E' materia pregiata: l'appartenenza del teatro al mondo, come di ogni cosa ad ogni altra. La matria in cui, dalla patria, noi dobbiamo tornare. Noi dobbiamo venir via dal teatro, nostra patria, se questo diventa una terra desolata, separata, schiacciata contro il cielo. Noi non possiamo pronunciare in scena le parole che ci vediamo girare intorno nella vita: è vietato dire Cagliari, Licio Gelli, brigate rossoblù, televisione. E siamo condannati a dire Tebe, o tutt'al più Praga, Macbeth, o tutt'al più Stalin, barbari, soldati, puttane, le parole del teatro non bastano già da un pezzo alla realtà. Questa leggerezza è una galera come un'altra, ecco perché il teatro è noiosissimo, prima di tutto a chi lo fa.
Da questa patria noi siamo già partiti (4), ma il viaggio è lungo. I giorni occorre farseli tutti, anche se chiunque viaggi possiede già in sé la meta. Ma è un possesso che qui non posso raccontare. E' già un problema raccontare i giorni, il cammino fatto fin qui, e l'incertezza. Per questo occorre pazienza.
La pazienza è mitezza applicata, è acconsentire nel tempo, e quindi al tempo, ed alla sua incertezza. E' affetto, ed esattezza nell'affetto. E un processo teatrale non è altro che pazienza. Partire, e confrontare ogni giorno il libro col paesaggio. Così eccoci in viaggio, verso una matria che per ora si chiama "Dura Madre". Non si può dire tutto, alcune cose sopra le altre vanno fatte, e non dette. Anzi, se le dirò fuggiranno, per non tornare più.
E allora chiudo questa lunga diceria. Ho cominciato con un tono della voce che quasi subito poi ho perso per strada. Ho confuso i desideri con i fatti, e così ora sia i fatti sia i desideri son confusi. Ho parlato a lungo di cose che non c'entrano, che non sono mai state dette nel lavoro, ho giocato coi paradossi. Ma non sono preoccupato. Mi è stato chiesto di raccontare "Dura Madre": eccola qui, nascosta in questa trappola confusa, come nei giorni la vigilia nostra. Occorrerà pazienza anche a chi legge.
Dice alla fine Gianni Celati in un suo libro, e dice Nano alla fine della storia: "Se adesso cominciasse a piovere ti bagneresti, se questa notte farà freddo la tua gola ne soffrirà, se torni indietro a piedi nel buio dovrai farti coraggio, se continui a vagare sarai sempre più sfatto. Ogni fenomeno è in sé sereno. Chiama le cose perché restino con te fino all'ultimo."
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Questa pagina è stata aggiornata il 6 maggio 1997.