Laboratorio Teatro Settimo
AB ORIGINE: LUOGHI PER DURA MADRE MEDITERRANEA
TESTI TEATRALI
I principali testi e materiali letterari elaborati nel corso
del laboratorio
a cura di Bruno Tognolini
QUARANTA, RADIO E VENTO
Primo
racconto: QUARANTA, RADIO E VENTO
Secondo
racconto: RADIO
Indice
dei TESTI
Indice
del SAGGIO
Indice di
Dura Madre Mediterranea
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Primo racconto di
Marco Baliani
Tra gli ospiti illustri del laboratorio, nel secondo "soggiorno"
di Drena, figuravano Marco Baliani e Maria Maglietta. A loro, che erano
arrivati per ultimi, abbiamo chiesto di narrarci la storia delle ultime
matrie. In questo primo e profuso racconto Marco Baliani ha ricostruito
la storia della matria di Quaranta, Radio e Vento. In un secondo
racconto, più breve, ha tracciato un ritratto di Radio.
Aveva cantato in un caffè chantal (lo pronunciava con due effe e due elle finali quasi triplicate, e quando si eccitava nel ricordo le effe e le elle erano un bombardamento). Forse non aveva cantato mai, era solo una ballerina di fila, perché aveva belle gambe; la voce no, era roca, intonata ma pesante come un raschio di fumo di sigaretta. A lei piaceva raccontare della sua carriera di cantante con accanimento e con dovizia di particolari, al punto che lei stessa se ne era convinta, come una storia lunga di successi e di canzoni.
Quando qualcuno metteva una musica le gambe però tradivano una memoria, allora diventava bellissima e il corpo scattava, impercettibile. Lì vedevi che da qualche parte aveva imparato dei passi, per via della precisione e per gli sguardi che i suoi occhi lanciavano come a cercare altre compagne di fila.
A suo modo sapeva cucire e costruirsi vestiti. Sì, erano costruzioni. L'ago in mano, quello lo aveva imparato dalla nonna, ma il resto era fantasia sua. Un mischiarsi di pezzi e materiali diversi, che solo alla fine poteva chiamarsi vestito. Erano edificazioni per innamoramenti: trovava una stoffa, una corda sfatta, un vetro colorato, un resto di rete, e andava con pazienza saldandoli tra di loro, come una mappa. Anni dopo, Quaranta avrebbe fatto lo stesso, ma con le parole delle canzoni rubate ascoltando in giro.
Quello che ne usciva era sempre appariscente e fuori luogo, però indosso a lei pareva perfetto, anzi indispensabile. Così camminando nel quartiere era impossibile non notarla, la luce le sbatteva riflettendosi e rimbalzando nei mille punti di materia del suo abito, e anche dopo che era passata restava la sua scia come un richiamo. Così per gioco fin da ragazza cominciarono a chiamarla "Trappola", e il nome finì per restarle addosso.
Amava il fruscio delle calze di nylon, quei gesti sensuali di togliersele o infilarsele a gamba distesa, mettendo in mostra la coscia lucida e tornita, questo le piaceva e anche questo sembrava averlo imparato; ad ogni cliente cambiava le calze, come una disciplina per permettersi il gioco dello sfilamento, con gesti via via più saggi e pertinenti. Solo quando le calze pendevano sulla spalliera era pronta a lavorare, il minimo indispensabile, senza sprecarsi troppo, come se tutto il suo impegno, la sua arte fosse stata già spesa nel gioco preliminare. Si era domandata a volte come mai non la pagavano già solo per quel rito.
Aveva sentito dire delle spogliarelliste; c'era un locale nel quartiere della sua adolescenza, e aveva visto i manifesti con le scritte rosse su fondo nero con i nomi dei numeri e delle donne. Ma ne era rimasta terrorizzata all'improvviso e senza motivo. Si era immaginata che quelle donne lasciassero giù dei pezzi di corpo, non spogliarsi ma spolparsi, e che gli uomini stessero lì come ad un banchetto di cannibali. Ne aveva sognato a lungo per mesi, il suo corpo sbranato o caduto a pezzi insieme a reggiseni e mutandine. Per questo spogliarsi era divenuta per lei una cosa di cautela, dove prendersi tempo, essere attenta che nulla del suo corpo restasse attaccato agli indumenti stessi. Così senza saperlo aveva sviluppato negli anni un numero di alto spogliarellismo.
Le prime volte il Colonnello ne era rimasto impietrito. La sua smania di animale in corsa, il desiderio che lo aveva assalito al secondo piano del bordello, la voglia, tante volte con altre soddisfatta, di strapparle di dosso gli indumenti, tutto si era dovuto arrestare di fronte ai gesti lunghi e sapienti della donna. Lì non c'era nulla da fare, doveva attendere e frenarsi, senza riuscire a staccare gli occhi da lei; non era più lui a condurre, doveva aspettare le calze sulla spalliera.
Già allora in quel primo approccio la donna lo aveva spaventato, e ancora più dopo aver fatto l'amore. Lei se l'era preso di scatto, non come faceva sempre, con distanza, no, se l'era odorato e tenuto e aveva sudato davvero senza fingere. Forse lui se n'era accorto, era andato via di furia, traversando la feritoia della porta come fosse inseguito e giurando sul marciapiede, lì fuori, che mai più, che andavano cancellati i bordelli che ospitavano pazze simili, e che lui si stava rincoglionendo se veniva fino a lì per numeri simili, mai più.
Ma ci tornò, più e più volte, con sempre maggior desiderio e spavento.
Il Colonnello arrivava al quartiere all'ora del tramonto e lei era pronta come un sesto senso. Se la prendeva senza una parola, pesandole sopra, gemendo come un bambino. Lei se lo risucchiava dentro masticando una canzone, sussultando il corpo liscio che anche invecchiando non raggrinziva mai (non erano le creme e gli unguenti; Quaranta lo aveva imparato, era nel modo di lisciarsi pelle e muscoli dopo aver fatto l'amore, "la migliore medicina, bimba mia").
Il Colonnello era come il vento di mezzo autunno che entra fischiando nei quartieri e nelle case basse, e fa sbattere le persiane e gridare i cani, e poi subito è finito; è un vento triste che non lascia memoria di polvere, rompe a volte una bottiglia in bilico sulla finestra, un vento che è fastidio, senza rinforzi.
Per il Colonnello lei restava un mistero, sentiva solo il suo corpo di maschio che se ne scivolava via nel grembo di lei, prosciugandosi in una felicità intensa che già non c'era più. E restava poi la rabbia, una specie di impotenza dolce e invincibile. Lei non chiedeva nulla, mai, sorrideva solo a lungo mentre lui si rivestiva in fretta, cercando di non incrociarle gli occhi. Si sentiva come uno sorpreso a rubare prugne e che tutti lo vedessero e sapessero ogni cosa di lui: era così che lei lo guardava. Per questo dopo si strofinava le mani sulla giacca, e i gomiti sulla bocca, per cancellare le tracce del furto di prugne: ma a vederlo era triste, era spaventato.
"Chi è stupido ha bisogno di sentir rabbia per chi non lo è - diceva mia madre a Quaranta quando lei piangeva da piccola per gli insulti ricevuti per strada dopo un'esibizione - Hanno paura che quella cosa lì gli si attacchi e li renda deboli".
Lei aveva iniziato a battere presto, come una cosa naturale; nel suo quartiere c'erano più casini che case, bastava infilare una porta e avevi un lavoro sicuro, ti davano un nome e una stanza, e col tempo un vestito e un campanello, e se ci sapevi fare in pochi anni ti ritrovavi al bordello di lusso, con le targhette sulle porte e le prenotazioni.
Così l'amore era per lei diventato un lavoro d'artigiani, come saper fare un vaso o comporre i fiori per i morti, e lavorando d'amore non aveva mai conosciuto l'innamoramento. Fino a che aveva incontrato il Colonnello. Era autunno e lei aveva cominciato a vestirsi pesante, il freddo arrivava dalle piazze dei giardini pubblici dove vedeva i bambini portati via dalle madri di corsa all'alzarsi del vento, e questo la rendeva triste e allora doveva riprendere le sue canzoni e cantarle come fosse nel suo "caffffè", e andare al lavoro costringendosi a ballare un po' nelle gambe, anche camminando.
Poi aveva visto il Colonnello. Ma per tutta l'enorme lunghezza della breve visita non era mai riuscita a metterlo a fuoco. Era rimasta colpita dalla sua voce, così identica a quella ascoltata nei comunicati alla radio, tanto simile da confermare i colori e le forme che lei si era immaginata ascoltandolo. Una voce fonda e senza scosse, che vibrava nell'aria risuonando come se fosse in chiesa, e non sembrava venire dalle sue labbra, ma da più dentro, come un suono di viscere che formavano una rete, e già una parola uscendo si adagiava sull'eco dell'altra, e tutte restavano sospese intrecciandosi, e lei si perdeva in rincorse impossibili.
Mentre eseguiva il suo numero delle calze si accorse di stare tremando e che si bagnava sotto e che doveva rallentare ancora di più per non sciupare niente. Dopo rotolandosi con lui sul pavimento aprì i sensi come mai aveva fatto, come scoperchiare un recipiente tenuto coperto per anni, e l'olfatto il naso il tatto catturò l'odore di lui e se ne impossessò.
Alcuni mesi dopo, quando le visite del Colonnello divennero appuntamenti d'amore aspettati con ansia, preparati con cura ma senza mai mostrare, con la paura reciproca di nominare ciò che stava accadendo, rimase incinta. Le piaceva pensare che questo era accaduto il primo giorno, e non sapendo nulla di mesi e gestazioni, rimase convinta alla fine che era andata proprio così: la pentola tenuta chiusa per anni si era aperta e aveva catturato quel primo giorno, luce d'autunno e di vento un po' triste. E quella tristezza restò sempre presente, anche dopo, quando lui cominciò a parlarle a luce spenta, prima con parole isolate e ripetute da lei, mandate a memoria senza capire, poi più tardi con discorsi lenti e intrecciati.
L'amore no, quello restò sempre un fatto di furia e di fretta. Le sarebbe piaciuto col tempo che gli assalti di lui divenissero assedi lunghi e in altro modo sfibranti. Furono le parole a divenire ciò che l'amore non sarebbe mai stato: un lago calmo di acque fonde dove era bello perdersi.
Così lei imparò a mettere insieme nomi di paesi e di guerre, date, calendari: anche lì non faceva altro che aprirsi e lasciare che lui depositasse quelle briciole di memoria senza filo. Lei, in silenzio, filava, ricuciva, andava componendo un arazzo mentale, collocava città e campagne e spedizioni e lontananze. E in mezzo all'arazzo un filo più grosso e resistente, dove si inceppavano a grana larga le parole nella bocca del Colonnello, ma un filo chiaro che lei vedeva sempre più ingigantirsi: un alfabeto di nomi dispersi per il mondo, che a legarli insieme come la grana di un rosario, veniva fuori la parola magica che il Colonnello andava ripetendo come una giaculatoria: la stirpe.
Poi le sue mani cominciarono a muoversi come in sogno: e nel tempo vuoto della gestazione, mentre vedeva il suo addome diventare promontorio, tra una visita e l'altra del Colonnello, maturò una forma di vestito dove cuciva insieme le confidenze notturne, le memorie disperse del Colonnello. Un vestito da donna sarebbe stato (questo le sembrava più adatto, e poi sapeva fare solo quelli), che ad ogni piega in ogni punto fosse tappa di un percorso intricato, confuso ma non indecifrabile, un mistero che però si poteva leggere, a patto di possederne la segreta traccia. E in mezzo, come attraversato, i granelli duri del rosario di legno, i nomi della stirpe.
Nel costruire il vestito si sentì madre e pensò ad un dono: sentiva che sarebbe nata femmina, e giurò che quel vestito era per lei, quando fosse stata con un corpo giusto per indossarlo. Trappola aveva fantasticato a lungo sul nome della figlia attesa, non osando pronunciare ciò che le danzava tra le dita e il ditale. Ma quando aveva visto rotolare tra le cosce un maschio e una femmina, insieme, le sembrò un segnale di conferma. E li battezzò all'istante sul tappeto rosso della sua unica stanza nel bordello, nominò le altre due lettere mancanti alla processione seminale del Colonnello, e se le cucì come un segreto sulla fila interrotta che percorreva il vestito. E quando, anni più tardi, venne al mondo il terzo, questa volta non disse nulla al Colonnello, che era ormai tanto spaventato da apparire un uomo stanco che la veniva a trovare, senza dirlo, per l'ultima volta.
Ma ancora pronunciò l'ultimo nome, Vento, e aggiunse l'ultimo grano legnoso alla trama.
Ora lei sapeva che i tanti spaventi letti in volto al Colonnello adesso possedevano un motivo, fondavano una ragione. Le sue cosce avevano dato un finale che solo lei avrebbe conosciuto. Fu percorsa da un brivido, insaputo, e che altri avrebbero potuto chiamare il soffio del potere.
Molti anni dopo Quaranta, rispettando la promessa
al suo diciassettesimo anno, indossando il vestito tenuto in serbo in grani
di naftalina e pacchetti di lavanda, provò la stessa sensazione,
senza nulla sapere della mappa vitale incisa sul suo abito.
Primo
racconto: QUARANTA, RADIO E VENTO
Secondo racconto: RADIO
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Secondo racconto
di Marco Baliani
Dopo aver ricostruito nei dettagli la peripezia dell'intera matria
di Quaranta, Radio e Vento, Marco Baliani ha voluto aggiungere questo magistrale
ritratto di Radio.
La radio fu l'unico regalo che il Colonnello fece a mia madre. Lei
raccontava così: che una volta lui era rimasto con una canzone di
lei intrappolata nelle orecchie, una delle sue nenie di mezzo amore, e
gli martellò per giorni e giorni da uscirsene pazzo, e così
era dovuto tornare e tornare per riascoltarla e togliersela "come
un dente marcito, ti prego!", l'aveva pregato! Fino a che lei tirò
fuori la storia della radio, una specie di baratto: lei gli scioglieva
la canzone in acqua, senza memoria, e in cambio lui le doveva regalare
una scatola acchiappa suoni.
Così ho imparato ad addormentarmi fin da bambino dopo la sigla finale del giornale radio, cinque suoni lunghi come di uccellini intrappolati, e poi il sonno. Anni dopo la stessa sigla ha avuto un'espansione, e la usavano anche per i giornali radio del mattino e del pomeriggio. Mi addormentavo all'istante in qualsiasi posto. Bastava la finestra aperta di una casa e l'ora giusta e magari in piena esibizione, mentre Quaranta attaccava il ritornello, io precipitavo a terra come un sacco. Epilessia radiofonica - la chiamò un dottore che era un dentista e che girò intorno a mia sorella un'intera stagione.
Un giorno Vento mi ha detto: "Non lo sai che questa trasmissione non la fanno più? L'hanno tolta anni fa". "E allora perché io la sento, eh?, rispondimi". Vento ha alzato le spalle e basta.
Io la sento, giro la manopola e la sento tale e quale. Non è perché le pile sono scariche: sono anni che non ci sono più pile dentro, lo so dal peso leggero che la radio fa quando me la porto per le strade; la tengo legata sul fagotto alto, vicino alla testa e alle orecchie, per orientarmi. E non è neppure come il gioco con Quaranta, che io accendevo la manopola e lei cantava la canzone, sempre quella che a me faceva venire i sogni sulle nuvole in trasformazione, animali soprattutto, di quelli del libro con la copertina dura, molto grandi i disegni, che potevo riconoscere gli artigli dei leoni passandoci sopra le dita. No, questa è una cosa diversa, sto studiando il problema. La radio del Colonnello deve aver intrappolato qualcosa dentro, una trappola per suoni, che rimangono: non è possibile?
Vento queste cose non le capisce.
Primo
racconto: QUARANTA, RADIO E VENTO
Secondo racconto: RADIO
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Questa pagina è stata aggiornata il 6 maggio 1997.