Lucio Betto, Il Fisarmonicista, olio su tela |
"Se la gente sa, e la gente lo sa
che sai suonare, suonare ti tocca, per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare" * (Fabrizio De Andrè, "Il suonatore Jones") |
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La fisarmonica è uno strumento a tastiera, ha i suoi tasti bianchi e neri come il pianoforte.
Ma la fisarmonica assai più del pianoforte, è uno strumento sociale, conviviale. Se un gruppo di persone si trova a star bene insieme, con tempo bastante e buona temperie d'animo, e sa che uno di loro suona la fisarmonica, è facile che gli dica: vai a prenderla, suona, balliamo. Difficilmente potrebbe dirgli: vai a prendere il piano.
Le filastrocche son fisarmoniche, non pianoforti.
E non sono per questo più o meno musica, più o meno arte. Ci son pianisti di piano bar e c'è Astor Piazzolla.
In vent'anni e finora li ho messi in colonna per gioco puerile in un unico Doc di Word ho scritto più di mille componimenti in rima, nella stragrande maggioranza per bambini. E passo passo mi sono accorto che i bambini del "Poeta Per Bambini" sorridendo in punta di piedi si allontanavano, pur rimanendo ben presenti, come misteriosamente sanno fare. I bambini si allontanavano e pareva restare, anno per anno sempre più chiara, la locuzione tronca "Poeta Per".
Tronca, ma forse, chissà: come un tronco potato, perché dia frutti più Utili e Belli alla sua gente.
I Poeti Puri scrivono poesie per la poesia, o per gli altri poeti, a cui le leggono nelle pubbliche reciproche letture, che loro chiamano reading.
I Poeti Per scrivono poesie per qualcuno o per qualcosa di preciso.
In greco "per" si dice "epμ" (per, sopra). Cosμ se la gente greca sapeva che uno di loro sapeva suonare e cantare, cioè era poeta, e se voleva celebrare un matrimonio, una vittoria guerresca o sportiva, o un funerale, chiedeva al poeta-cantautore di scrivere e cantare una poesia per-nozze, in greco epi-talamio, per-vittoria, in greco epi-nicio, per-sepoltura, in greco epi-taffio. Io in Grecia sarei stato forse chiamato scrittore di epipèdi. Poesia epi-paides, per bambini.
Del mestiere dello "scriba", del prosatore o poeta d'occasione, ho imparato questo: se io scrivo esattamente ciò che il committente vuole, il risultato sarà pulito, appropriato, e inutile a entrambi. Se io scrivo solo ciò che a me pare degno in quel momento, il committente - se sa fare il suo mestiere - lo apprezzerà, e me lo spedirà indietro. Se io scrivo entrambe le cose in tale modo però che siano una, quel testo per incredibile alchimia parrà Utile e Bello non solo ai due, ma anche a tutti gli altri. E respirando andrà ballando per il mondo.
Liberamente tratto dall'articolo "FISARMONICHE FILASTROCCHE", scritto per la rivista "Hamelin", giugno 2011
Cinque piccole sceneggiature sull'energia
Scritte per un'iniziativa di informazione scientifica della SNAM nelle scuole, 1994.
Tre racconti sulla pubblicità
Scritti per una campagna autopromozionale dell'agenzia pubblicitaria di un amico, Cagliari, 1994.
GIULIA ORECCHIA
Un racconto sulle orecchie e sui suoni, scritto per due amici attori che facevano letture in biblioteca, 1996.
CIAO, ANASTASIA!
Un racconto sul Tempo e la Morte, scritto per una festa delle Banche del Tempo a Bologna, 1998.
Otto racconti sull'educazione stradale
STORIE DEL VIAVAI, otto racconti scritti per un kit distribuito da FIAT Scuola a oltre diecimila scuole, 1999.
IL CORNO PORTASFORTUNA
Un racconto sulla superstizione, scritto per il mensile per bambini "Ciao Amici", numero di giugno 2001.
CONCHIGLIE STEREO
Un racconto su bambini e tecnologia, scritto per l'inserto "Specchio" del quotidiano LA STAMPA del 10 novembre 2001.
LA PINETA DEI SOMBRERI
Un racconto sull'omologazione, scritto per il libro di AA.VV. "Diversi e uguali", I colori del mondo,
Provincia di Siena, 2002.
MADRE NOSTRA MARIA MINERALE
Un racconto (non per bambini) sulla vita dei minatori sardi, scritto per il libro di AA.VV. "Sonos 'e memoria", a cura di G.Cabiddu, marzo 2003 (il libro verrà edito nel 2009).
ALLE BAMBINE PIACCIONE LE BAMBOLE
Un racconto sui desideri dei meninos de rua di San Paolo del Brasile, scritto per il libro di AA.VV. "Io vorrei...", Edizioni Condè Nast, Milano, 2004.
COME FINISCONO LE STORIE MINORI
Un racconto sui libri dei piccoli editori, scritto per l'Associazione Librai Italiani, uscito sul quotidiano "La Nuova Sardegna", aprile 2004.
I SALVATORI DELLA MEZZANOTTE
Un racconto sul presepio, inedito, settembre 2004 (scritto per il mensile "Ciao amici" e non pubblicato).
LO ZIZIGOTE NERO
Una variante biotech della fiaba "Il brutto anatroccolo", scritto per una pubblicazione del Festival "UNA CITTÀ PER GIOCO", a cura della Coop. Tangram, Teatro Città Murata e Comune di Vimercate, aprile 2005.
ISMENE, LA SORELLA
Un racconto-monologo (non per bambini) su Maria e Giuliana Lai, scritto come "Capitolo" aggiuntivo dello spettacolo "TELAI" di Laura Curino, per la rappresentazione speciale tenuta al Festival Letterario "L'Isola delle Storie", Gavoi, luglio 2005.
IL VIAGGIO DI MIR
Un nano-racconto sul pecorino sardo, scritto per il progetto-kit per le scuole sugli alimenti tradizionali "Che gusto c'è", Giunti Progetti Educativi, settembre 2005.
MASKINGAME
Un racconto su un essere immaginario della tradizione sarda, scritto per il libro di AA.VV. "Adottamostri", edito dal Centro Servizi Bibliotecari della Provincia di Cagliari, a cura di Teresa Porcella, maggio 2006.
TRICOSHINE
Un racconto per ragazzi e giovani sull'amicizia, scritto per il libro di AA.VV. "Doppio misto", edito dal Centro Servizi Bibliotecari della Provincia di Cagliari, a cura di Teresa Porcella, ottobre 2007.
LE TRE MAMME DEI MONTI
Tre racconti su tre siti minerari di Sardegna, scritti per la guida turistica per ragazzi "In un regno lontano lontano...", edito dall'Assessorato al Turismo della Regione Sardegna e dalla Cooperativa Tuttestorie, Cagliari, luglio 2008.
MACCHIA MAMMA
Un racconto sulla cecità infantile, scritto per un libro collettaneo edito dalla Fondazione Poliambulanza di Brescia per una sua missione sanitaria in Burundi, giugno 2011.
I NONNI PROFONDI
Un racconto sul terremoto del 2012 in Emilia, scritto per il libro collettaneo RADICI, Franco Cosimo Panini Ragazzi, 2013. I ricavati del libro saranno devoluti integralmente ai bambini del terremoto dell'Emilia.
Furono i lettori bambini i primi a intuire la verità: "Sono sparite tutte le righe di quando parla il GGG" - "Nel Tornatràs che abbiamo comprato all'Iper non c'è più né Colomba, né Pulce, e neanche il nonno Victor Ugo" - "I miei libri dei Mumin sono quasi del tutto bianchi: forse è l'inverno artico, sono andati tutti in letargo" - "In quelli della serie Black Terror che compro io, invece, non manca neanche una riga" - "Mia mamma ha comprato un Pinocchio per il compleanno di Giuli: c'era il Gatto e la Volpe, il Giudice, i Carabinieri, ma dove parla o corre Pinocchio solo buchi bianchi"...
Insomma, la diagnosi fra i bambini era fatta: i personaggi toglievano le tende.
Migravano, se ne andavano di lì, e di loro sulle pagine non restava alcuna traccia.
Fu la solita Maria Mezzomondo che scoprì il perché. Col suo occhio sinistro che - se lei chiude il destro - vede la fiaba dentro la realtà, li vide benissimo, all'Iper, un giorno, uscire dalle pagine e volarsene via. E li sentì bestemmiare, o sospirare a seconda dell'indole, un discorso che riferì al suo amico Valentino più o meno così:
"Qui non ci vogliono bene, ce ne andiamo. Non c'è nessun venditore di libri che ci conosca, ci saluti, sappia di noi; che giri fra gli scaffali, giorno dopo giorno, riepilogandoci mentre spolvera; che ci rimetta in pila di malgarbo una mattina d'autunno, col naso che cola; che ci sfogli sorridendo trasognato un pomeriggio di maggio, nel vento fioraio. Ma soprattutto che parli di noi a quei tipi innamorati che entrano smarriti, e amano ma non sanno ancora chi: e allora quei librai, sornioni come vecchie maîtresse, li portano a braccetto da noi e dicono sorridendo: guardi qui..."
No, lì non c'era più niente di tutto questo.
Addetti di settore, con carrelli zannuti, li impilavano secondo il piano fornito dal reparto di progettazione merceologica, e poi chi s'è visto s'è visto. Venivano solo alla notte uomini e donne di paesi lontanissimi, coi visi scuri e assenti, a spolverare.
Questo non è un buon posto. Via di qui.
Ma via dove? Anche sui librai cominciarono a piovere i problemi. Un'altra peste degli inchiostri, simmetrica alla prima, colpì i loro libri: blocchi interi di testo s'ispessivano, parevano composti di righe sdoppiate, ribattute alla stampa due volte. I personaggi che fuggivano dalle Grandi Catene, evidentemente, cercavano di introdursi in quei libri, e sgomitavano facendosi largo accanto ai loro sosia titolari. Il meglio che potesse accadere a un lettore era sentire, mentre leggeva, un personaggio parlare e agire in una strana modalità corale, come se fosse due.
La situazione era arrivata più o meno a questo punto, quando un giorno...
(...)
Be'? Quando un giorno cosa?
Questa pagina è stata creata molto molto tempo fa, e aggiornata l'ultima volta il 10 maggio 2013
ARRIVEDERCI
Purtroppo, forse, non lo saprete mai. Non è una provocazione, giuro, è solo un esempio.
Questo è un racconto che ho cominciato a scrivere per pubblicarlo su un giornale. Poi però diventava lungo e ho dovuto interromperlo. Lo finirò di certo, prima o poi, e lo pubblicherò. Ma difficilmente voi saprete come va a finire, perché le storie che scrivo io vanno a finire su libri che negli Ipermercati difficilmente si trovano. E forse, quando fra qualche anno lo pubblicherò, i libri si potranno trovare solo, o soprattutto, negli Ipermercati.
Non era chissà che, questo racconto, solo una storia minore, ma poteva valere la pena finire di leggerla. E così altre storie minori, che abitano libri piccoli di statura ma ben fatti, come sono tanti sardi: può valere la pena di trovarli ancora in giro.
Ma il mondo cambia. Con l'avvento delle multisale si può scegliere fra trenta schermi, e otto film, in tutta la città. Poteva valere la pena di vedere il nono, qualche sera, o il quindicesimo nella classifica del Box Office.
Accadrà lo stesso ai libri?
È comprensibile che per qualcuno la vita si semplifichi, se tutti leggiamo e vediamo le stesse cose.
Meno comprensibile è che noi stessi collaboriamo a semplificare la vita - e i guadagni e il consenso e il controllo - a costui o a costoro.
Non è vero che non possiamo farci niente: possiamo scegliere se, cosa e dove comprare.
Allora scegliamo dove comprare un libro.
P.S.: quella storia finirà bene, perché qualcuno deve pur assumersi il compito di dire che il futuro sarà salvo; e se non lo fanno gli scrittori per bambini...
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I salvatori della mezzanotte
Scritto in origine nel settembre 2004 per il mensile "CIAO AMICI" (Messaggero di Sant'antonio), non pubblicato in quell'occasione, in seguito pubblicato (con varianti) dalla casa editrice Interlinea, col titolo Salvataggio a mezzanotte, e con le illustrazionie di Pia Valentinis.
Era ormai notte alta, nella casa.
Jana si affacciò guardinga dalla cucina. La luce colorata e fantastica di quell'albero acceso trasformava la solita sala, a lei così nota, in uno strano mondo nuovo. In quel mondo c'era un piccolo regno, ancora più strano e più nuovo, che si estendeva su un tavolo basso ampliato da assi e cartoni, lì, sotto la finestra, al posto del ficus. Era dentro e sembrava fuori, con prati e monti e strade; era casa e sembrava mondo, con bestie e gente in viaggio. Per tutto il pomeriggio Carlotta l'aveva minacciata con gesti e con voce, che si tenesse alla larga da lì. Ma adesso dormivano tutti ed era il momento di dare una buona occhiata.
Annusò, attese, scrutò, annusò ancora. E infine vi saltò sopra, leggerissima. I polpastrelli premettero quella strana erba secca, cedevole ma salda. Sostò, guardando ogni cosa: i piccoli umani in cammino, ma fermi, la prateria secca, le minuscole case, i monti lontani e vicini. Poi tentò un passo cautissimo. Due, tre. Tutti gli umani erano volti nella stessa direzione, e lì anche lei guardò. C'era una specie di grotta, con dentro un uomo, una donna, un asino, un bue. Di fronte alla grotta altri umani in piedi e in ginocchio, che guardavano fissamente l'interno. Decise di studiare uno di questi, che parevano in qualche modo più accessibili.
Si avvicinò cauta, col suo migliore passo di caccia. Superò altri piccoli umani, un paio di cespugli polverosi, un ponte su un ruscello di immobile argento, un gregge di quattro pecore col pastore. Le figure davanti alla grotta erano sei: due donne con canestri di cibi, un vecchio con un bambino per mano, un giovane che suonava il flauto e un uomo cupo, chiuso in un mantello, accovacciato. Si diresse verso quest'ultima figura, che era la più isolata. La fissò, l'annusò: sapeva di terra, di straniero, di pericolo. La toccò con la zampa, la figura cadde su un fianco. A quel punto la cautela si sciolse nell'azione fulminea: Jana prese fra i denti la testa della statuina, in due balzi saltò giù dal Presepio e corse via con la sua preda in bocca.
Era ormai notte alta, in Palestina.
Il blu cupo dell'oltrecielo più profondo, tempestato di stelle diamantine, copriva la volta del mondo. I pastori e i contadini di Betlehem, come in tutti i villaggi di Canaan, avevano ammucchiato nei bivi, sui confini dei campi, presso i pozzi, le fascine per i fuochi dell'ultima notte di festa per il solstizio d'inverno. Ora uomini, donne e bambini, sugli asini decorati di palme, cantando e suonando, partivano dalle case con le torce rifulgenti nella notte.
Ma quell'anno pareva che fosse una festa speciale. C'era nell'aria qualcosa di nuovo e straordinario: i profeti e i maghi l'avevano detto da un pezzo, e lo diceva adesso quella stella, più eloquente di mille profezie, sfolgorante e bassa nel cielo a indicare un luogo: quella grotta poco fuori del paese, nota a tutti come ovile di fortuna. La folla sulla pista polverosa presto divenne un fiume: pastori e contadini, giovani e vecchi, artigiani e mendicanti, ambulanti e contabili, e frotte strepitanti di bambini, tutti in marcia verso quella grotta.
Davanti alla grotta Zahel Onagro sedeva muto, accanto a un vecchio rabbi col nipotino per mano, a due donne con cesti ricolmi di datteri e fichi, e a un giovane suonatore di kinnor. Zahel sospirò e si sfregò gli occhi. Quel lavoro si era rivelato diverso dal solito. Una giovane donna incinta da eliminare, per conto di Erode, prima che mettesse al mondo il suo marmocchio, che il Tetrarca per qualche motivo pareva temere: un gioco da ragazzi, sulla carta. Ma mille intralci s'erano frapposti, incidenti d'ogni tipo, strane peripezie, che parevano non avere niente di casuale; e che gli misero in testa l'idea che quella donna, e il suo prezioso fardello, fossero protetti da potenze ben maggiori di Erode. Ma lui era un sicario, fra i più noti e i meglio pagati della zona: non poteva lasciarsi fermare dalle superstizioni.
Così pensava, chiedendosi quando la gente avrebbe cominciato a stufarsi e togliersi dai piedi, per lasciargli finire il lavoro, quando a un tratto...
Dapprincipio non volle crederci e distolse lo sguardo. Un leopardo, o un ghepardo gigantesco, alto come sette cammelli uno sull'altro, camminava lento nel piano guardando lui. Chiuse gli occhi, pensando che la stanchezza e quelle superstizioni imbecilli da donnine alla fonte gli stessero giocando un brutto tiro. Li riaprì: il Demonio in forma di Gatto era lì accanto lui, e si chinava ad annusarlo. Si irrigidì, guardò avanti e non si mosse, stringendo il manico dell'inutile pugnale. Poi sentì un urto morbido e possente, la zampata di una zampa smisurata, cadde su un fianco, vide che il mostro si chinava, avvertì il fiato fetido delle sue fauci aperte, vide offuscarsi la luce all'improvviso, poi non vide più nulla.
Era ormai notte alta in Paradiso.
- Un gatto? Dici che è valido? - chiese San Pietro - Non è mai stato un gatto! Anzi, non è mai stato nessun animale!
- Errore! - trionfò sorridente l'Arcangelo - cinquecentosettanta anni fa è stato un cervo.
- Un cervo? Be'... il cervo è già un bel simbolo regale: ma un gatto!
- Ora non venir fuori con quelle storie che i gatti sono diabolici, eh? Scommetto che a te piacciono i cani.
- Esatto.
- Dài, Pietro, ragiona: a questo punto abbiamo solo lui. E poi non è un gatto qualunque: è il gatto del bambino Gabriele, che l'ha salvato due anni fa.
- Ah, ecco. Una specie di impresa di famiglia. Mah! Tu che ne dici?
- Valido. Non abbiamo altri salvatori. E ormai deve nascere.
- E va bene. Valido. Diamo il segnale?
- Ci penso io, come sempre.
L'Arcangelo partì per la Giudea. Suonò, volò, cantò, e il Bimbo nacque.
La mattina dopo, a casa di Lele, Carlotta trovò sotto il solito mobile la statuina che Jana aveva rubato per giocare, la restaurò un po' coi pennarelli, e la rimise sul Presepio.
Ma ormai era tardi per il lavoro del sicario. Anche quell'anno gli era andata male.
Chissà il prossimo anno chi lo fermerà.
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Lo zizigote nero
Scritto nell'aprile 2005 per un'iniziativa editoriale del XIV Festival per Ragazzi "UNA CITTA' PER GIOCO", in occasione del bicentenario della nascita di Hans Christian Andersen, a cura della Cooperativa Tangram, Teatro Città Murata e Comune di Vimercate.
Proprio così: nero come un corvo.
- Corvo torvo! Corvo torvo! - lo prendevano in giro i fratellini candidi, quando cominciarono a sgambettare in quello strano mondo di vetro e metallo dove non veniva mai notte.
Però i giorni passavano lo stesso, pieni di giochi e scherzi, di bei sonni e buona pappa, che cadeva da sola in una tazza non appena avevano un po' di languorino.
Ogni tanto un Angelo Bianco si sporgeva dal cielo, calava due ali strane senza piume, afferrava un fratellino, lo sollevava e lo portava via. Nessuna paura, però: tutti sapevano che sarebbe tornato di lì a poco, e a chi gli chiedeva cosa gli avessero fatto gli Angeli Bianchi, avrebbe risposto sempre allo stesso modo:
- Mi hanno guardato, pesato, misurato, dato da mangiare piccole pappe di molti colori, tolto due piumette e punto con un pungiglione, che però non mi ha fatto niente.
Gli Angeli portavano tutti in cielo, una volta al giorno, tranne il papero nero: lui mai.
- Perché loro sono bianchi come noi, mentre tu sei nero buio, e corvo torvo! - gli dicevano i fratellini.
E così infatti andò. Quelli che ai paperetti sembravano Angeli Bianchi erano medici ricercatori, che studiavano la trasmissione di una brutta malattia legata al colore di peli e capelli e piume; e per questa ricerca dovevano usare esemplari omozigoti, tutti bianchi. I paperetti bianchi non sapevano di chiamarsi "omozigoti", e sapendolo magari quel nome gli sarebbe piaciuto. Avrebbero chiesto come si chiamava il fratello nero, e sapendo che si chiamava "eterozigote", gli avrebbero detto:
- Hai visto? Anche il tuo nome è diverso dal nostro!
- Certo! In inglese vorrà dire nero.
- Zizigote nero! Zizigote nero!
Ma non era così. Eterozigote voleva dire che, per motivi che in una fiaba sarebbe fuori posto spiegare, quell'anatroccolo tutto nero non serviva per i loro esperimenti. E quando l'inserviente lo chiese in dono per la sua bambina, quei medici, che non erano certo cattivi ma solo scienziati, glielo diedero volentieri.
L'inserviente lo portò alla figlioletta, che lo portò nella sua scuola, dove tutti lo coccolarono e vezzeggiarono, con tante voci che dicevano "che carino!", "che dolce!", "che forte!", e nessuna che diceva "corvo torvo". Nei giorni che seguirono, non potendolo tenere a casa perché sporcava, la bambina lo diede a una compagna che aveva una zia in campagna.
L'anatroccolo nero scoprì il mondo.
E così fu. L'anatroccolo nero visse a lungo in quell'aia in campagna, forse non cigno nel vento, ma felice e contento.
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Ismene, la sorella
Un racconto-monologo (non per bambini) sulla scultrice Maria Lai e sulla sorella Giuliana, scritto come "Capitolo" aggiuntivo dello spettacolo "TELAI" di Laura Curino, per la sua rappresentazione speciale tenuta al Festival Letterario "L'Isola delle Storie", Gavoi, luglio 2005.
Una camera con le pareti bianche.
Tutto comincia lì, e ci faceva così invidia a noi.
Una camera dei giochi tutta per lei, tutta vuota e con le pareti bianche.
Perché Maria, la mia sorellina grande, era fragile, di poca salute, e quando gli zii senza figli l'hanno chiesta i miei gliel'hanno affidata, perché la curassero bene.
L'hanno curata, eccome: è cresciuta da sola con quei due zii silenziosi, nella casa sulla collina che guarda il nuraghe, in faccia al mare.
È diventata una bambina perfetta, educata, pensosa, sempre un po' triste.
Noi fratelli eravamo gelosi che fosse così perfetta, la preferita di babbo e mamma che non finivano mai di fare lodi: Maròla qui, Maròla lì
E poi ci faceva invidia quella camera tutta per lei, vuota, con le pareti bianche.
È lì che ha cominciato a disegnare.
Tracciava sui muri coi carboni del camino le forme, le creature, le piante, le cose del mondo. Quando pian piano le pareti si riempivano, lo zio ridava una mano di bianco e tutto poteva ricominciare. Una specie di Zio Dio, mi dico adesso.
Allora mi faceva solo invidia, adesso sorrido perché penso che Dio sia così: non uno che crea, ma uno che cancella. Che svuota, che sbarazza come dopo una bella cena, fa spazio, perché la vita possa venire e riempire di forme. Vere o dipinte che siano.
Anche lei, Maròla, è brava a fare bianco nelle sue opere, così poi, come una farfalla su una tovaglia, arriva l'arte. Arriva sempre, come fa? Non manca mai.
Io no, io le riempio le mie opere cucite, intrecciate di sete velluti damaschi e trame d'oro: di bianco non ne lascio neanche un po', non son capace.
In questo forse sta la differenza: io faccio cose che servono ai giorni, tappeti, borse, astucci, bamboline. Faccio figli e nipoti, tanti, una processione.
Gliel'ho anche detto un giorno a mia sorella: non fare figli, li faccio io per te.
Perché lei è Maria, è
diversa da noi.
Quando è morta la sorellina piccola, noi piangevamo senza capire più niente: lei dipingeva fiordalisi lilla sul cuscinetto di seta della bara.
E quando nostro padre ha chiesto allo scultore Ciusa un ritratto in marmo bianco della bambina morta, Maròla, che le assomigliava, ha posato per lui. È stata in quello studio un paio di giorni, e guardava tutto, annusava, toccava la creta.
Quando il ritratto fu finito, Maria chiese di continuare a andarci.
E via: si era aperta la strada.
Non quella degli zingari, quando si era nascosta nel carrozzone e aveva provato e scappare nei circhi del mondo, e quelli invece ce l'hanno riportata il giorno dopo: no, la strada dell'Arte, quella che aprono i Grandi Maestri.
Gli uomini aratri, come diceva il primo dei tre, il Professore:
"Il poeta è un aratro che scava i solchi perché i semi germoglino; la terra ha bisogno di essere violentata, sconvolta per diventare fertile"
Alle medie in paese Maria se ne stava zitta, assente, negli ultimi banchi, a scarabocchiare. Il Professor Salvatore Cambosu, che andava a sbirciare i disegni, fu il primo a capire che non può essere una quasi-minorata una bambina che fa quelle cose.
Allora bene, era terra da arare. E che strada le apriamo?
La fiaba di Maria Pietra, più brava a fare creature con le parole proibite, a fare e disfare bambini di pane impastati col pianto, che figli di carne.
Sei donna? Partorirai nel dolore. Sei donna artista? Partorirai figure.
Il secondo Maestro niente, neanche quelle! Sei donna artista? "No ti xe bona de far niente!"
Arturo Martini, grande scultore all'Accademia di Venezia.
"La linea orizzontale è la terra diceva a lezione è l'elemento femminile, la materia. La linea verticale, che cade perpendicolarmente (era proprio una fissazione!) è l'elemento maschile, lo spirito, l'unico che produce arte"
E Maria era l'unica femmina, fra i suoi allievi.
Un problema curioso per lui. E lui per lei un bell'aratro vigoroso, che ha aperto una strada lunghissima: tutta una vita intera, per smentirlo.
E poi il terzo Maestro, il più dolce. Giuseppe Dessì, dirimpettaio nella casa di Roma, che la guarda lavorare alla finestra, ormai donna e artista, e le scrive addosso la fiaba.
È un Dio Distratto, si dice in questa fiaba, quello che fa le donne artiste.
Un po' Zio Dio anche lui. O perlomeno non un aratro che va giù perpendicolare.
È un dio annoiato che non vuol più essere Dio e fa l'apicoltore. Ma nel cacciar via un'ape gli scappa dal dito una scintilla di potenza divina, che trasforma lo sciame in fate industriose: le Janas. Quelle che insegneranno alle donne sarde l'arte della bellezza nei tappeti, nei ricami, nel pane, mentre gli uomini, dopo i nuraghi, non hanno fatto più niente di bello.
Lei invece sì che ha fatto cose belle, in quella sua strada, che gliel'abbiano aperta gli uomini maestri con l'aratro, o gli uomini gentili e distratti, o le Janas.
O magari le sue stesse mani, che in fondo è ciò che viene da pensare, vedendola lavorare.
E così gli anni son passati.
Anni, opere, gloria, amici artisti, mostre in città dall'altra parte della terra.
E io qua figli e nipoti, pasque e natali, che sono opere anche quelle.
Gli anni sono passati, quello devono fare. E alla fine è tornata qui, a stare con noi.
Qui, nella casa sulla collina che guarda il nuraghe, la stessa di quella antica camera bianca, noi stiamo bene. Io, Maròla, Luigi, e tanti altri cari volti che vengono a vanno.
Ieri siamo rientrati con Gianni che era notte. Ci hanno accolto Luigi e Lola col fuoco nel camino e una bistecca da cuocere in graticola.
Eravamo tutti felici e hanno ascoltato i miei racconti fino a tardi.
Nei prossimi giorni Lola dovrà ricevere altri amici.
Mi fa un po' ridere questa processione, sembra un presepio: studenti per la tesi, giornalisti per l'intervista, artisti, critici, curiosi
Lola accoglie tutti con quel suo sorriso, ma io lo so che dopo un po' si stufa. Allora arrivo io, li chiamo nella mia stanza del lavoro, gli faccio il caffè, e gli mostro le mie, di opere: tappeti, borse, cesti, portafogli, cuciti di tele preziose e trame d'oro, tessuti sui telaietti delle Janas. E loro comprano, se vogliono.
"Tu sei Ismene, la sorella" mi ha detto un giorno un visitatore colto.
Io non lo so chi è Ismene: io sono Giuliana Lai, sorella di Maria, tanto quanto Maria Lai è sorella mia. Questa è una sorellanza.
Io le ho tenuta pronta questa casa, per quando lei era pronta.
Le ho imbiancato le pareti, l'ho fatto io stavolta, nell'attesa. E lei è tornata, per godere quest'opera mia, la casa bianca piena di cari volti, che proteggono.
E su quelle pareti, su quella tovaglia bianca, lei ha messo l'opera sua.
Le figure del mondo.
Non è vero che donne che fanno forme non fanno figli e donne che fanno figli non fanno forme. Sono cose che dicono i maschi, col loro aratro.
Noi che abbiamo il telaio, che non taglia ma lega, diciamo il contrario: donne sorelle intrecciano i fili dei destini una con l'altra, si mischiano le vite, in un tappeto solo.
Noi siamo state brave, brave artiste.
Qui siamo stati bravi, tutti quanti.
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Il viaggio di Mir
Un nano-racconto sul pecorino sardo, scritto per il progetto-kit per le scuole sugli alimenti tradizionali "Che gusto c'è", Giunti PRogetti Educativi, settembre 2005.
Mir aveva dodici anni e doveva partire. La madre gli mise nella bisaccia il pane di carta e il pecorino antico. Scopo del viaggio, si diceva, era trovare sette pecore rubate; ma tutti sapevano che quelle pecore le avevano fatte nascondere gli Anziani nei crepacci della montagna, chissà dove. Scopo del viaggio era diventare uomo. Mir partì. Giunto al fiume, capì che se faceva un altro passo non sarebbe stato mai così lontano da casa. Fece quel passo nell'acqua e guadò il fiume. Dall'altra parte, la terra gli parve diversa da quella che conosceva. Camminò verso la montagna.
Quando fu l'imbrunire, cercò un rifugio per la notte, e mangiò. Il pecorino era ben stagionato, bruno e roccioso. Sapeva che non c'era altro cibo che desse tanta forza prendendo così poco spazio e conservandosi per tanto tempo; era il pane di via dei pastori, ma solo allora capì il vero perché. Non era solo al corpo che dava energia: il sapore che sentì, così forte e familiare in quelle terre sconosciute, svegliò antenati che dormivano nel sangue, lo fece sentire a casa all'improvviso, lo fece sentire in tanti. Con quel sapore in bocca, quegli avi invisibili intorno, e quella forza in pancia, Mir posò il capo sulla bisaccia e dormì, pronto per il cammino di domani.
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Maskingame
Scritto nell'aprile 2006 per il libro di AA.VV. "Adottamostri", edito dal Centro di Documentazione Biblioteche per Ragazzi della Provincia di Cagliari, a cura di Teresa Porcella, Cagliari, maggio 2006.
Michelino girava e rigirava fra le mani il nuovo transformer regalato per il compleanno, mentre ascoltava i discorsi della mamma e del papà giù in cucina.
La situazione cominciava a essere grave. Anche quel giorno papà era tornato a mezza mattina, e aveva perso un altro giorno di lavoro. Non voleva parlar chiaro, bofonchiava mezze frasi intorno a certi brutti incontri che faceva, a cose che vedeva in campagna spaventose e impossibili, da non poterne parlare con nessuno. Ma stavolta la mamma ha insistito e alla fine, occhi stretti e spalle curve come chi aspetta colpi, lui ha parlato.
Nel costeggiare il bosco di Pinnia, quasi sempre un bambino, qualche volta un maialino o un puledro, gli si faceva incontro. La prima volta lui s'era fermato, aveva chiesto da dove venisse, come mai fosse lì. Quello gli si sfregava sulle gambe come chiedendo aiuto, ma quando lui si era chinato per prenderlo, aveva cominciato a trasformarsi: cresceva, si espandeva, si gonfiava prima il collo poi le guance, gli occhi sporgevano come due rospi pazzi, le orecchie sbandieravano come finestre, le braccia si allungavano, si piegavano in punti sbagliati, le dita si sfilavano come stecche d'ombrelli, roteavano intorno, la bocca si apriva grande, buia, esagerata, e ne esplodeva una risata orribile, fatta solo di fiato senza voce, e poi una lingua di fiamma che gli leccava il viso senza bruciarlo e infine avvolgeva nel fuoco l'intera radura.
Allora lui si voltava e tornava alla macchina, sforzandosi di non correre.
La mamma aveva ascoltato questo racconto in perfetto silenzio.
E in silenzio aveva ascoltato Michelino, dietro la porta socchiusa di camera sua.
"Non preoccuparti, vedrai, passerà" aveva detto infine la mamma, con un sospiro. "Sarai stanco, prendi tre giorni di riposo"
Tre giorni dopo il papà era tornato al lavoro, ma niente da fare: eccolo di nuovo a casa già alle nove, bianco e freddo e madido come ricotta.
La mamma ne ha parlato con la nonna, che ne ha parlato con la vecchia zia Consola, che ha detto: "Un fuoco che non brucia? È Maskinganna, dimonio maladitto! Io lo sapevo che tornava fuori. Per cinquant'anni anni se n'è stato nascosto nel cuore nero di quel bosco, che il fuoco lo bruci!"
Maskinganna, diceva Zia Consola: l'antico diavolo illusionista maligno e burlone.
Allucinazioni da stress, diceva il dottore. Vino cattivo, diceva il vicinato. E Michelino?
Michelino ne parlò coi suoi amici: Giaime, Peppetto, Luisi, Damiano e Bobòi.
Ripeté la descrizione che suo padre aveva fatto di questo bambino: si gonfia il collo, poi le guance, poi sporgono gli occhi e gli orecchi, le braccia si allungano e si piegano in punti sbagliati, le dita si sfilano come stecche d'ombrelli e ruotano intorno...
Si guardarono tutti: è un transformer! Sì, un Tankor! No, un Grimlock! Un Battle Squad, un Black Beast, un Megatron, un Devastator!
Presero le scatole e cominciarono a giocare.
Ma quel pomeriggio giocarono in un modo che non s'era visto mai prima, e non avrebbero visto mai più. Stratagemmi, posizioni, sequenze, scelte di armi, gridi, versi, tutto riusciva bene, potente e perfetto. Magico, avrebbero detto.
Alla fine della sera, quando vennero le mamme a prenderli, si salutarono con sguardi nuovi e segreti: a domani.
L'indomani nella classe quarta C mancavano in sei: Michelino, Giaime, Peppetto, Luisi, Damiano e Bobòi.
Mentre la maestra segnava le assenze, scuotendo la testa, Giovanni Monni, padre di Michelino, camminava nel sole del mattino, con gli occhi a terra e il cuore sottoterra, costeggiando il boschetto di Pinnìa. Sapeva bene che non era verità, che era soltanto un'allucinazione, che era vergogna che un uomo grande come lui cadesse in queste mattane, e che ora sarebbe passato proprio in quel posto, avrebbe alzato gli occhi, e stavolta nessun bambino maledetto...
Mentre lui alzava gi occhi, sei mountain bike frenavano schizzando pietrine nella piazzola accanto alla sua auto, e sei bambini correvano giù nella scarpata con gli zainetti tintinnanti di giocattoli.
Nessun bambino? E invece eccolo lì. Giovanni Monni si fermò a distanza, crollò le spalle, lo guardò rassegnato e atterrito al tempo stesso. Quello sorrise di un ghigno malvagio e contento, che pareva dire: sorpresa! Vieni, amico, facciamo il solito gioco?
L'uomo chinò il capo e chiuse gli occhi, appannati di umiliazione.
Fu allora che sentì lo scampanio degli zainetti e i passi di corsa. Riaprì gli occhi e per un istante non capì: sei bambini, suo figlio e i suoi amici, irrompevano fra lui e il mostro, si disponevano a semicerchio, posavano gli zaini, li aprivano, ne estraevano ognuno il suo trasformer, lo puntavano contro il piccolo demonio gridando:
"Energon!", "Dinobot!", "Clench!", "Megaplex!", "Blaster!", "Blurr!"
Il bambino demonio li guardò, dai suoi occhi il ghigno scomparve, apparve sorpresa, dubbio, paura, dispetto, furore. Si trasformò in cinghiale gigantesco. Le auto, i camion, i jet nelle mani di Michele e dei suoi amici si trasformarono a loro volta: ali e parafanghi, portiere e fusoliere, tettucci e timoni si aprivano e diventavano gambe possenti, toraci corazzati, piccole teste luccicanti, braccia armate. Il cinghiale divenne un cavallo, poi un bue nero, poi un'immensa ragazza di fuoco. Il padre di Michele finalmente si scosse, si guardò intorno disperato, strinse i pugni in preda a una folle incertezza, poi corse accanto al figlio, frugò frenetico nel suo zainetto, tirò fuori un transformer, lo protese contro il mostro e gridò: "Defensor!"
Michelino si voltò verso di lui. Si sorrisero.
La ragazza di fuoco scomparve. I bambini e l'uomo restarono in posizione, annusando un odore di fango, di ferro, di sogni. Poi respirarono a fondo, misero via i loro amuleti, si avviarono verso l'auto e le bici.
"Chi era, papà?" chiese Michele.
"Un diavolo antico, molto pericoloso: Maskinganna"
Michele e gli amici si guardarono e ripeterono contenti: Maskingame.
Ma lo abbiamo battuto, se dio vuole. Non si farà vivo per altri cinquant'anni.
"Grazie, bambini".
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Tricoshine
Scritto nel giugno 2007 per il libro di AA.VV., destinato ad adolescenti e giovani adulti, "Doppio misto", edito dal Centro di Documentazione Biblioteche per Ragazzi della Provincia di Cagliari, a cura di Teresa Porcella, Cagliari, ottobre 2007.
Da:
Intelligence and Trend Consulting Company
A:
Consiglio d'Amministrazione del
Consorzio Global Fashion & Cosmetics
URGENTE E CONFIDENZIALE
Roma, London, Paris, Madrid, Berlin, etc. 21 settembre 2010
Egregi Signori,
esporremo il problema con la chiarezza che esigono le circostanze. I rapporti ricevuti nelle ultime quarantott'ore dai nostri Trend Hunters, purtroppo, non lasciano spazio a dubbi: il fenomeno del "Tricoshine" (marchio registrato) si sta estinguendo prima che sia stato possibile accertare su che processi biochimici poggiasse, e come poterli riprodurre nella cosmesi industriale. Preferiamo essere drastici, benché ciò nuoccia al nostro incarico di intelligence: i capelli dei ragazzi si stanno spegnendo.
Riassumiamo brevemente il caso per i membri del Consiglio che non ne fossero compiutamente a conoscenza.
Circa nove mesi fa, in diverse città d'Europa, fra individui maschi e femmine dagli 11 ai 18 anni cominciò a verificarsi un fenomeno finora sconosciuto: i capelli acquistavano una luminescenza cromatica via via crescente per un arco di quattro-sei ore, per poi tornare al normale stato "spento". Il fenomeno si presentava solo dopo il calar del sole, solo quando i ragazzi si incontravano in numero maggiore di tre per vagare assieme nelle città, e a quanto pare solo se mostravano un rapporto di reciproca amicizia. I loro capelli, liberi o acconciati, lunghi o corti, chiari o scuri, prendevano a emanare una bioluminescenza simile a quella delle lucciole o degli organismi marini, ma assai più intensa e soprattutto di colori e sfumature variabili. Colori e sfumature che parevano differenziarsi per appartenenze scolastiche, sportive, musicali, politiche, territoriali, e altre a noi meno chiare. I ragazzi dei licei, per esempio, avevano i capelli accesi nelle sfumature dell'arancio e dell'oro, quelli degli istituti professionali variavano sui toni di viola e indaco, i cultori della musica oldest brillavano in tutte le tonalità del verde, quelli di sinistra nelle sfumature fra il vermiglio e lo scarlatto, quelli di destra fra il celeste e il blu, e così via. I ragazzi parevano non fare alcun caso al fenomeno, non innescarlo né interromperlo volontariamente, quasi non esserne nemmeno consapevoli. Semplicemente, quando più di tre individui fra gli 11 e i 18 anni, maschi e femmine e amici fra loro si incontravano, i loro capelli cominciavano gradualmente a splendere nella notte in armoniose variazioni dello stesso colore.
Abbiamo inviato sul caso i nostri migliori Trend Hunters, gli stessi che hanno tracciato fra i gruppi giovanili e consegnato alle industrie della moda le tendenze leader degli ultimi anni: i tatuaggi transpersonali, lo zoopiercing con insetti, i pantaloni trasparenti e i gioielli vegetali infestanti. Sfortunatamente, stavolta il processo di infiltrazione è stato ben più complesso. I nostri agenti non venivano accolti nei gruppi amicali perché i loro capelli semplicemente non si accendevano. Ci son voluti sei mesi per approntare squadre di Trend Hunters semi-inconsapevoli, ipnotizzati o sotto psicodroghe, che potessero entrare a far parte "veramente" di uno sciame amicale, e brillare nella notte con esso.
Cominciavano ad affluire i primi dati, e soprattutto i primi campioni di capelli in stato di luminescenza. I nostri laboratori cominciavano a rilevare la presenza di proteine ed enzimi bioluminescenti tipici delle lucciole e dei molluschi abissali; i nostri biosociologi stavano evidenziando processi di eccitazione empatica simili a quello degli sciami di api, che facevano pensare a una nascente capacità da parte di individui umani di modificare temporaneamente i loro corpi per renderli capaci di emettere nuovi e inauditi "segnali somatici" collegati all'amicizia.
Ma a quel punto il fenomeno, così com'è sorto, ha cominciato a calare rapidamente, ed è purtroppo ormai quasi estinto.
È quindi con grande rammarico che dichiariamo al Consorzio che a tutt'oggi non esistono le basi di conoscenza biochimica necessarie per progettare una linea globale di cosmetici, shampoo, lozioni e induttori genici del marchio sperimentale TricoshineÒ.
Rosso si stiracchiò pigro, staccandosi dal muro della pizzeria.
"Peccato. Era un sogno andare in giro con quei capelli luminosi nella notte. Tutti i toni dell'oro, bronzo e topazio della nostra Grande Famiglia!"
"Vero, era una meraviglia. Però ci stavano marcando. Mai visti tanti Vampiri in giro come in quei mesi"
"Già, i loro Cacciatori di Tendenze. Io non capisco come facciano: sono ragazzi come noi"
"Non come noi. Nessuno è come noi. Nemmeno noi"
"Non cominciare con le tue bollicine, adesso. Voglio solo vedere cosa faranno col nostro prossimo stile"
"Sì, e chi si stancherà prima"
"Andiamo, Rabbit. Kia e Marti ci aspettano in Piazza"
Il ragazzo e la ragazza si incamminarono.
Le loro suole lasciavano impronte bagnate, benché - notò la ragazza che li aveva osservati di nascosto bevendo una birra - non avessero calpestato alcun liquido: un trasudato dei loro piedi? La ragazza uscì a sua volta, li seguì.
Dopo trenta passi da quelle impronte cominciava a nascere una muffa azzurra, profumata, fumante. Altre impronte simili si univano e si incrociavano alle loro per le vie del centro.
Le ragazza attese che i due fossero lontani, si inginocchiò, passò un indice sull'unto di un'impronta e lo portò al naso, aspirando con stordita voluttà.
Ecco il prossimo stile. Era magnifico.
Poi urlò.
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Le tre Mamme dei Monti
Tre racconti su tre siti minerari di Sardegna, scritti per la guida turistica per ragazzi "In un regno lontano lontano...", edito dall'Assessorato al Turismo della Regione Sardegna e dalla Cooperativa Tuttestorie, a cura di Claudia Urgu, Cagliari, luglio 2008.
1 . La Mamma Nera di Monte Arci
Si narra che molti millenni fa, all'inizio dei tempi, nell'isola di Sardegna i minerali spuntassero sulla faccia della terra come fiori o sorgenti, così che non c'era bisogno di scavare miniere.
Questo fulgido raccolto di tesori, si dice, cominciò su una Montagna Sacra alta e boscosa, che nella sua infanzia era stata vulcano: il Monte Arci. Questa storia racconta come ciò accadde.
In certe grotte abitate da uomini sulle pendici del Monte Arci vivevano due bambini, un maschio di nome Oxi e una femmina di nome Dian. Un brutto giorno d'un colpo solo i due avevano perduto padre e madre, e come imponeva l'orda, che aveva più figli da sfamare che cibo per sfamarli, furono abbandonati nella foresta. Gli uomini erano certi che sarebbero morti di fame e stenti in pochi giorni, e quindi molto si stupirono, e anche si spaventarono, quando li videro sgattaiolare fra le felci durante una battuta di caccia ben due mesi dopo. Quella notte nel cerchio del fuoco discussero a lungo, e conclusero che i due piccoli dovevano aver trovato una nuova mamma: forse la stessa Mamài Neranotte. E infatti così era accaduto.
Mamài Neranotte, a detta degli uomini, che molto temevano il buio, era un mostro sanguinario che viveva nelle selve della notte, cibandosi di buio e di rocce, di bestie e di uomini, o almeno di quelli che osavano allontanarsi dai fuochi nottetempo. In realtà Mamai era un essere buono e paziente, calmo e potente, per metà donna e per metà buio, con viso e spalle e mani nere e grandi, morbide nelle carezze, e schiena e piedi sconfinati, che si perdevano nel buio dietro di lei. Mamai Neranotte adottò i due bambini, li curò e li nutrì, insegnò loro a muoversi al buio per cacciare e sfamarsi, e a nascondersi all'alba in grotte profonde per salvarsi. Così i due bambini vissero per molti mesi.
Ma la paura rendeva inquieti i maschi dell'orda, e dopo un lungo consulto decisero di fare una caccia notturna, uomini e donne insieme, armati di lance e mazze, per uccidere quei due orfani stregati e la Mamai buia che li cresceva, e così liberarsi per sempre dalla paura. Facendosi coraggio con urla e canti partirono la notte stessa, con cento torce illuminarono la selva, e tanto la batterono e frugarono che infine trovarono le tracce dei bambini, e con esse la grotta in cui dormivano.
Ma la grande Mamai Neranotte giunse prima di loro, svegliò i due orfani, con parole misteriose annunciò che era giunto il suo tempo, che doveva morire per liberare gli uomini dalle paure e renderli più confidenti nel loro mondo, sotto il sole come sotto le stelle. Ma avrebbe fatto in modo di lasciare ai suoi diletti un tesoro prezioso: buio di notte che diventa roccia.
Dette queste parole li condusse fuori della grotta, dove gli uomini esaltati e impauriti li attendevano per ucciderli. E lì Mamai Neranotte apparve immensa, nera, paurosa al cospetto degli uomini, e lì urlò, danzò, cantò, levò le braccia e con un immenso ultimo grido cadde al suolo, spargendosi e spalmandosi e sparendo, come se fosse entrata nella terra, inzuppandola di buio.
Il più feroce degli uomini, non appena si riprese dallo spavento, urlò indicando i due orfani, che erano rimasti allibiti al pari di loro: "Pagherete per gli incantesimi di vostra madre!"
Nel gridare queste parole scagliò con forza la sua mazza contro Oxi, che si scostò con un guizzo. La pesante arma urtò la roccia dietro di lui. Era una roccia strana, nera e lucida, che nessuno aveva mai visto prima di allora, e sotto l'urto della mazza si spaccò, spargendo intorno schegge nere come il buio e lucide come l'acqua di un lago notturno. Il bambino, d'istinto, afferrò una di queste schegge e come l'uomo gli si avvicinò levando l'ascia la passò veloce sulla sua gamba nuda. Sbalordito, l'uomo vide aprirsi un taglio lungo e netto, da cui già stillava il sangue. Come aveva mai fatto, quel bambino? Non aveva sentito buco di freccia che punge o strazio di mazza che pesta le carni, ma solo un soffio che taglia
Gli uomini distrassero la loro furia, si chinarono e raccolsero quelle schegge, maneggiandole con stupore. Non avevano mai visto niente di così affilato: neanche battendo e scheggiando per giorni una pietra si sarebbe mai potuto ottenere un raschiatoio così. Ma non era un raschiatoio, quello, era una cosa nuova, era
una lama.
Le madri dell'orda, da un pezzo ormai stanche di quella cieca e spossante furia, approfittarono della perplessità degli uomini per prendere i due bambini sotto le loro pellicce, intendendo con questo che volevano salvarli e nutrirli. L'orda tornò alle grotte, portando con sé una decina di quelle incredibili schegge di roccia nera, senza stancarsi di osservarle e commentare.
Nei mesi successivi scoprirono che quella pietra vetrosa e notturna affiorava a tratti per tutto il Monte Arci; impararono a spaccarla, scheggiarla, foggiarla, ne fecero arnesi nuovissimi e imbattibili, raschiatoi, grattatoi, lame e punte, monili, addirittura specchi. La fama di quella pietra giunse ad altre orde dell'isola, che vennero a barattare, e ad altri popoli d'oltremare, che approdarono con le navi a commerciare. L'orda divenne ricca e fiorente, si dedicò all'arte della pietra nera, che in onore dei due orfani, Oxi e Dian, chiamò Oxidiàna.
I due bambini, per conto loro, sapevano chi ringraziare per quel dono. Quella roccia prodigiosa era buio indurito, cielo notturno impietrito, era la carne stessa di Mamai Neranotte che si era fusa e mescolata nella roccia per il bene loro, che furono salvi, e della loro gente, che non ebbe più paura della notte. E sotto il sole, nelle officine industriose e risonanti di colpi di pietra e schizzare di schegge, quella gente per millenni prosperò.
2 . La Mamma Bianca di Monte Gonare
Ma ancora molto tempo doveva passare prima che gli uomini, oltre a raccogliere l'Ossidiana che affiorava in superficie, imparassero a scavare la terra per cercare nelle sue profondità gli altri tesori. Ed ecco quando e come iniziarono a farlo.
Narra un'antica leggenda che sulle pendici di un'altra Montagna Sacra di Sardegna, il monte Gonare, tre millenni dopo i fatti di Mamai Neranotte, vivesse una donna bellissima, alta e forte e di pelle candida come la luna, che per questo era chiamata Lunalatte. Come le altre donne, Lunalatte portava ogni giorno l'acqua dalla sorgente al villaggio, in grandi e pesanti brocche che lei e le compagne caricavano su un fianco, reggendole con la mano. Un bel giorno Lunalatte provò a caricare la sua brocca sulla testa, ponendo di mezzo una pelle attorcigliata a ciambella, e così scoprì di poter reggere con minor fatica pesi molto maggiori. E non solo: le movenze per equilibrare la brocca sul capo le davano un'andatura elegante e maestosa, che la rese ancora più bella e attirò ancora di più gli sguardi degli uomini.
Soprattutto si invaghì di lei il giovane figlio del capo del villaggio, che si accingeva a sposare la figlia del capo del villaggio vicino. Molto si spiacquero e si irritarono i due capi, quando seppero che la bellezza di Lunalatte rischiava di mandare a monte quelle nozze; e la loro irritazione divenne furia quando le donne, invidiose e bugiarde, riferirono che Lunalatte si era vantata di poter reggere sul capo ogni cosa, compreso il capo del villaggio. Fu sfidata a portare al villaggio un'enorme pietra. Passo passo, con viso altero e andatura ferma, lo fece. Fu sfidata a portare sul capo tre donne l'una abbracciata all'altra: con grande fatica ma senza dar segni di pena, lo fece. Come terza prova fu sfidata a portare sul capo fino al villaggio, in una notte di plenilunio, la luna.
E Lunalatte lo fece.
Camminò e camminò, con la luna in equilibrio sulla testa, senza fermarsi mai. Ma quando fu nella piazza e si fermò, il peso enorme che premeva la sua testa prese a ficcare pian piano nella terra i suoi piedi, e poi le gambe, e poi i fianchi, e le braccia e le spalle. Il giovane figlio del capo con l'angoscia nel cuore innamorato, e le donne del villaggio col trionfo nel cuore invidioso, videro Lunalatte sprofondare inesorabilmente come un chiodo, come una lancia, come una radice, nella dura terra.
Quando fu del tutto scomparsa, la luna spiccò il volo e tornò nel suo cielo, e in quella terra nessuna donna partorì più figlio o figlia per sette lunghissimi anni. L'ottavo anno i saggi del villaggio, avviliti e pentiti, comprendendo che quel brutto gesto era stata la causa della lunga carestia di bambini, ordinarono che si scavasse nel punto in cui s'era inabissata Lunalatte, per riportarla alla luce, renderle onore, implorarne il perdono.
Scavarono e scavarono gli uomini, per sette lunghi giorni, ma solo dura e sterile roccia incontravano le loro zappe di ossidiana. Finché a un tratto l'ottavo giorno, a grande profondità, quelle zappe cominciarono a tagliare una pietra bianca, pastosa, grassa, che pareva fatta di roccia di luna macinata e impastata con latte. Tutti ne furono certi: era il grande corpo bianco di Lunalatte che sottoterra era cresciuto, ingigantito, ramificato, gettando vene nelle cinque direzioni, spandendo nelle viscere del monte quel minerale nuovo e dolce e stupendo.
Gli uomini scavarono ancora, allargarono il fosso, lo trasformarono in gallerie e cunicoli per portare alla luce grandi blocchi di quella pietra bianca, che poteva esser tagliata e levigata con facilità in vasellami eleganti e resistenti alla fiamma più di ogni altra pietra. Ma il taglio che divenne più noto fu quello di una statuina, che riproduceva la donna Lunalatte non così com'era stata, alta e slanciata, ma come la tribù sognava che fossero le sue proprie donne, grassa e pregna, florida e incinta, ricca di seni e di vita, di figli, di luna e di latte.
Fu resa dea e chiamata Mamma di tutti, Mamma del Monte, Mèter Orèie, Mamai.
La maledizione pian piano si placò; con una statuina di Mamai Lunalatte nella nicchia di ogni capanna, le donne del villaggio ricominciarono a fare figli e figlie. Per rendere omaggio all'antica compagna e placarne lo spirito, le donne presero a portare le brocche d'acqua sopra il capo. Per molti e molti millenni lo fecero, e qualcuna ancora lo fa. La pietra bianca e tenera, figlia della sua bella e bianca carne, fu ancora scavata dalle miniere del Monte Gonare per molti millenni, col nome greco di Steatite, che vuol dire "pietra grassa".
Molti millenni dopo, un santuario alla Signora di Gonare fu eretto sulla sommità del monte. Onora una Donna Divina assunta in cielo, e forse ricorda una sua lontana nonna assunta in terra.
3 . La Mamma Colorata di Monte Albo
Altri millenni passarono. Gli uomini continuavano a scheggiare ossidiana nera e tagliare steatite bianca, ma ignoravano che cento altri metalli di cento altri colori, buoni a usi che fanno crescere le genti, attendevano nella pancia della terra. Questa storia racconta come accadde che lo scoprissero.
Il Monte Albo era un bastione roccioso lungo trenta chilometri, che si ergeva sulle terre lì intorno come una lunga onda bianca di spuma pietrificata poco prima di abbattersi. Ma non si abbatteva e al contrario proteggeva la grande pianura dai venti freddi, facendone una terra ricca di messi, di fiori e di frutti. Gli spiriti mostruosi e oscuri come Mamai Neranotte erano scomparsi da tempo immemorabile, e ora dee e deìne luminose governavano in pace le terre sarde. Una di esse, chiamata Tanìt dai sardi, Cèrere dai romani, e con altri nomi più segreti dalle donne, regnava sui raccolti, donava ai villaggi il grano, si compiaceva dei fiori di cento colori e dei frutti sugosi.
Si compiaceva anche di una figlia, una deìna bellissima adolescente, chiamata Broculìna dai sardi e Prosèrpina dai romani, nomi che nelle due lingue significano la stessa cosa: "colei che fa spuntare dalla terra". Infatti, quando solo Broculìna lo voleva, dietro i suoi passi spuntavano a vista d'occhio fiordalisi, peonie, gigli azzurri, e maturavano all'istante fichi, ciliegie, pere, prugne e ogni frutto.
Un giorno la deìna giocava con le compagne presso un piccolo lago alle pendici del Monte Albo, quando dalle acque d'un tratto, con un pauroso muggito e grandi schiume, emerse un dio straniero, nero ed enorme. Era il dio Ade dei reami sotterranei, chiamato Plouton, il Ricco, che ogni tanto risaliva dai suoi abissi erompendo dai laghi e dalle fonti in cerca di amori.
Per Broculìna, che lo guardava con occhi sbarrati, non ci fu speranza. La breve fuga fu vana: bianca e flessuosa com'era pareva minuscola, mentre si dibatteva sotto il braccio nero, grosso come una quercia, del dio latino che la portava via. In pochi istanti il dio scomparve nel laghetto e l'acqua lentamente si quietò.
Piansero le compagne della deìna, pianse Tanìt con loro, la dea madre, e strillò e inveì al cospetto del Padre di tutti gli dei. Ma non ci fu niente da fare: Plouton era un dio molto potente e neanche il Padre degli dei poteva togliergli ciò che ormai si era preso. Broculìna avrebbe vissuto per sempre laggiù, sotto cieli di pietra, senza mai più vedere il sole e sentire il vento.
Passarono alcuni mesi. Venne il tempo delle fioriture, e nulla fiorì.
I campi e i declivi dei colli si coprirono di strani sterpi, oscuri cespugli mai visti, merlettati di mille rametti molli e fini, ma nudi e sterili, senza una foglia, senza un fiore e senza un frutto.
I contadini, pur non credendo ai loro occhi, li riconobbero e infine dovettero ammettere: quegli strani cespugli mai visti erano radici. Radici all'aria, che crescevano all'insù, spingendosi verso il cielo anziché all'ingiù dentro la terra.
Le compagne della deìna confermarono ciò che tutti oramai avevano compreso: le piante stavano crescendo all'incontrario. Broculìna, Prosèrpina, "colei che fa spuntare dalla terra", era sottoterra: e piante e fiori spuntavano dal cielo per protendersi verso di lei. Uomini e donne tremavano di fronte a quella terribile cosa, contraria alle leggi del mondo, rabbrividivano al pensiero di steli delicati e di petali dolci che si facevano strada al buio nella terra pietrosa. Come era possibile?
La carestia infuriò per mesi e mesi, il bestiame moriva, i bambini si ammalavano, interi villaggi rischiavano di scomparire. Il Padre di tutti gli dei si allarmò, porse orecchio infine alle suppliche di Tanìt e impose al nero Ade, dio sotto le montagne, di lasciar libera la deìna che aveva rapito.
Ade Plouton dovette obbedire, ma nel farlo fece mangiare alla sua giovane amante i semi rossi del melograno, che in quei tempi remoti erano il segno del legame coniugale: Broculìna poteva partire, ma ormai era sua moglie e prima o poi doveva tornare da lui. Così si accordarono, Tanìt e Ade, che la deìna vivesse con la madre per tre mesi, i mesi delle fioriture, sotto i cieli, e con lo sposo dentro la buia terra per il resto dell'anno. Così accadde, per millenni e millenni, e così accade ancora: quando torna ogni anno Primavera, Broculìna Prosèrpina torna nel mondo di sopra, e ogni pianta può spuntare come natura comanda, dalla terra verso il cielo.
Ma alcuni giovani del villaggio di Lula, alle pendici del Monte Albo, svegli di mente e curiosi del mondo, ragionarono con le compagne della deìna e si domandarono: cos'è fiorito, però, sottoterra? Avevano visto coi loro occhi il prodigio di radici che ondeggiavano gambe all'aria, ma sottoterra? Che steli, che alberi, che frutti saranno spuntati? Presero zappe e picconi e scavarono il suolo.
Trovarono ciò che cercavano. I frutti degli alberi cresciuti al contrario, pietrificati, erano diventati sottoterra i ricchi frutti minerali della roccia. I fichi neri e teneri e pesanti furono il piombo, che gli uomini sanno squagliare con poco fuoco. Le ciliegie rosse e dolci furono il rame, tenero e bello per i gioielli e per le leghe. Le prugne azzurre furono lo zinco, che con il rame si fonde e fa amicizia nella più antica delle leghe inventate dall'uomo, il giallo ottone. E le bianche pere lucenti furono argento, tenero, chiaro e lucido metallo delle monete, dei monili, degli specchi.
Vicino al villaggio di Lula si scavò la prima vera miniera di Sardegna. I romani pochi decenni dopo se ne impadronirono, la ampliarono, la arricchirono di macchinari, vi portarono schiavi e prigionieri condannati "ad metalla", cioè a scavare e cavare quei frutti duri e colorati da sotto la terra.
Fra questi schiavi vi fu un gruppo di ebrei, deportati dalla terra di Giuda. Questi parlarono ai sardi e ai romani del loro Dio, che era un Dio strano e diverso. Era un Dio severo e solenne, che non perdeva il suo tempo a rincorrere le ragazze per i monti, e che in breve volgere di secoli sconfisse e cancellò quegli dei antichi, buffi e terribili, fatui e crudeli, che avevano regnato sul mondo.
Ma i loro doni rimasero agli uomini, sopra e sotto la terra.
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Macchia Mamma
Questo racconto mi è stato chiesto nel giugno 2011 per un libro collettaneo, edito dalla Fondazione Poliambulanza di Brescia per una sua missione sanitaria in Burundi.
Antefatto. Un libro di racconti per Kiremba
Dai materiali informativi della Fondazione Poliambulanza
Poliambulanza - Kiremba, andata e ritorno
Kiremba è un nome che a Brescia non ha bisogno di presentazioni. Su quella collina, nella diocesi di Ngozi, negli anni '60 è sorta una missione tutta bresciana, con una parrocchia, le scuole ed un ospedale giudicato fra i migliori di tutto il Paese. Qui operano sacerdoti bresciani, le Suore Ancelle della Carità, medici, volontari ed un'associazione, l'ASCOM di Legnago, che ne segue l'organizzazione.
POLIAMBULANZA CHARITATIS OPERA partecipa al funzionamento dell'ospedale con l'invio di apparecchiature, farmaci, contributi economici, ed è in procinto di varare un progetto di formazione del personale sanitario locale, mediante l'invio di medici, infermieri e tecnici.
Lotta alla cecità
Nel mondo vi sono quasi 40 milioni di ciechi assoluti e oltre 100 milioni di persone ipovedenti con gravi minorazioni visive. In Africa pochissime sono le strutture dotate di apparecchiature per fare una corretta diagnosi ed intervenire chirurgicamente ove necessario. Chi ha problemi di vista può immaginare cosa significhi passare la propria esistenza senza poter vedere correttamente. Nelle realtà rurali, dove la relazione con l'ambiente e le persone sono fondamentali, non disporre del bene della vista spesso significa povertà, insicurezza, emarginazione.
L'alternanza a Kiremba (Burundi) di diverse equipe oculistiche coordinate dal Responsabile della nostra Unità ha già consentito l'effettuazione di centinaia di visite, selezionando un cospicuo numero di pazienti che sono poi stati sottoposti ad intervento chirurgico. È una piccola risposta a questo grande bisogno. L'invio di apparecchiature, l'addestramento del personale, la distribuzione di occhiali fanno parte degli obiettivi di questo ambizioso progetto.
I medici ci hanno raccontato che quando arriva l'equipe per operare di cataratte i bambini, già all'alba aprendo le porte del centro vi sono centinaia e centinaia di piccoli pazienti in attesa con i loro famigliari, bambini e donne che - a piedi - sono arrivati anche da 200 km di distanza perché di villaggio in villaggio era corsa la voce che dei medici italiani operavano...
MACCHIA MAMMA
Racconto di BRUNO TOGNOLINI
per la Fondazione Polimabulanza di Brescia
Qui la versione illustrata da Antongionata Ferrari, tratta dall'impaginato del libro
"Ciascuno cresce solo se sognato"
Danilo Dolci
Mondo Chiaro era già cominciato. Kito lo vide dal suo lettino nella Macchia Finestra.
Macchia Mamma preparava il cibo del mattino, parlando forte per svegliarlo piano.
"Tutti dicono che sono stupida, ma non è vero. Stupidi sono loro. Kito, sveglia! Io ci credo a quel viaggiatore che ha raccontato. Ci sono stranieri wazungu, lontano lontano, che hanno gioielli per gli occhi. Gioielli piccoli, tondi, scintillanti come acqua dura, che rubano e conservano la luce".
Macchia Mamma venne a prenderlo dal lettino. Era ora di alzarsi e partire.
"Noi andremo a cercare quei wazungu e i loro gioielli. Dovessimo camminare per dieci anni"
Dopo avere mangiato partirono. Mondo Chiaro era già pieno e forte. Si avviarono verso la foresta. Kito sapeva camminare ormai, anche se, poverino, in mezzo a tutte quelle macchie che era il mondo a volte sbandava. Macchia Mamma decise che per un po' lo avrebbe portato sulla schiena, e poi avrebbe camminato solo.
Kito girava intorno i suoi grandi occhi opachi, ballonzolando al ritmo del passo della sua forte e profumata Macchia Mamma. Ecco, pensò, ci stiamo avvicinando a Mondo Verde. Passava infatti grande sulla sua testa un Macchia Albero. Poi un altro. Poi due o tre Macchie Albero unite. E poi c'erano dentro: Mondo Verde.
Dopo due ore di cammino, Macchia Mamma lo mise giù. Ora doveva camminare. Le macchie grandi Kito le vedeva, quelle piccole no. Le sentiva coi piedi, qualche volta quand'era troppo tardi e allora cadeva. O le sentiva con le spalle, col petto, col naso, quando lo accarezzavano, lo toccavano, e quando a volte lo picchiavano, un ramo, una roccia: quelle erano macchie cattive che facevano male. Perciò Macchia Mamma aveva imparato a condurlo, tenendolo per mano. Bastava una tiratina da una parte e Kito scansava una pietra, una tiratina in giù e si chinava per evitare un ramo.
E così, cammina cammina, venne ora di mangiare al mezzogiorno. E poi di riposare, e ripartire.
Kito sentiva intorno a sé il canto della foresta: voci belle e cantanti di uccelli, voci agre e insolenti di scimmie, voci lontane di altre bestie sconosciute. Macchie strane, che Kito non aveva visto mai. Anche perché, dispettose, si vestivano col colore delle foglie, si mescolavano con le macchie della luce, con le strie delle cortecce. Non le vedevano nemmeno i grandi, figurarsi lui.
Macchia Mamma parlava, parlava, per farsi coraggio, perché ormai stava arrivano Mondo Scuro.
"Quel viaggiatore l'aveva vista bene, la donna mzungu, che metteva dentro gli occhi i suoi gioielli. Tutti dicevano che li teneva lì perché era ricca, perché erano gioielli preziosi, per non perderli e custodirli durante il giorno. Ma io non credo che sia così"
Parla parla era venuto Mondo Scuro, e Macchia Mamma aveva acceso Macchia Fuoco.
Come faceva ogni volta, Kito fissò i suoi occhi nuvolosi in quella macchia strega, diversa dalle altre, che giocava e cambiava e scaldava e rideva contenta. E anche Kito guardando rideva.
Rise un po', poi smise e si accucciò fra le ginocchia e i gomiti di Macchia Mamma, col naso nella sua pancia, e si addormentò.
Strisciate, serpenti, nel buio. Spiate, occhi severi delle belve. Gridate lontanissimi, uccelli della notte. Kito dorme, dentro il suo Mondo Notte, e nessuno saprà mai che perfette figure minuziose, che affreschi esatti ben tracciati e tersi sanno vedere gli acuti occhi del sonno.
Poi quel sonno finì. Kito si svegliò, cercò Macchia Finestra ma non c'era.
C'era però l'odore buono del pane di manioca, che Macchia Mamma aveva preparato sulle pietre caldissime del fuoco. I due viaggiatori mangiarono e parlarono un poco. Kito chiese se erano già arrivati dove non erano arrivati mai. Certo, rispose Macchia Mamma, mezza giornata di cammino oltre. E quante altre restavano da fare? Questo non lo sapeva Macchia Mamma. E chi lo sapeva allora? Lo sapeva la Foresta, rispose la donna tirando un sospiro.
Kito si guardò intorno: Mondo Verde frusciava e odorava intorno a loro. Mondo Verde, disse il bambino, ma solo fra sé: Mondo Verde, mi raccomando.
La terza notte incontrarono un vecchio.
Aveva acceso il suo Macchia Fuoco e cucinava la carne odorosa di qualche bestiola che aveva cacciato. Il profumo del buon arrosto, dopo tre giorni di erbe crude e pane malcotto, dette il coraggio a Macchia Mamma di avvicinarsi. Dopo aver spiato dai cespugli, si convinse, o la fame la convinse, che quello straniero era un buon nonno, e si presentò. Ebbe fortuna: il vecchio era un buon nonno viaggiatore, li invitò a sedere al suo fuoco, divise la carne con loro e li interrogò.
Volle guardare gli occhi del bambino. Kito non potè vederlo, ma lo capì: vide solo un Macchia Uomo schermare Macchia Fuoco, sentì un odore di vecchio, e allora aperse bene gli occhi opachi, com'era abituato a fare, offrendoli a chi voleva guardare il loro albume.
Il vecchio volle sapere dove andavano. Macchia Mamma raccontò della straniera mzungu, la donna bianca che teneva i gioielli negli occhi. Gioielli piccoli, tondi, che brillavano come acqua dura.
"E tu cosa pensi di quei gioielli?" chiese il vecchio. "Perché li cerchi?"
"Io penso che catturano la luce. La rubano al cielo, la conservano, e la ridanno indietro dove serve. E penso che quella straniera li teneva negli occhi non per custodirli, ma perché lanciano la luce dentro i suoi occhi"
"E allora? Li cerchi per questo?"
"Sì. Se lanciano la luce negli occhi di quella mzungu, possono farlo anche negli occhi del mio bambino. Però ora non dirmi anche tu che sono stupida, che sogno e credo ai sogni. Sono stufa di sentirmelo dire"
Il vecchio sorrise coi pochi denti solitari che gli eran rimasti.
"No, donna che viaggi, non sei stupida. Se sogni, stai solo facendo bene il lavoro di mamma. Con pane e sogno si crescono i bambini. Io non lo so se esistano questi gioielli per gli occhi, ma mi hanno detto che i wazungu hanno aperto una nuova Casa Ospitale, in un posto chiamato Kiremba. Ti insegno come arrivarci. Tu domani parti da qui, vai fino al limite della foresta, e poi..."
I medici ci hanno raccontato che quando arriva l'équipe per operare di cataratta i bambini, già all'alba aprendo le porte del centro, vi sono centinaia e centinaia di piccoli pazienti in attesa con i loro famigliari: bambini e donne che sono arrivati a piedi anche da 200 km di distanza...
Uno sguardo alle fonti d'ispirazione
The Ugly One with the Jewels
By LAURIE ANDERSON
The Ugly One with the Jewels (full title: The Ugly One with the Jewels and Other Stories: A Reading from Stories From the Nerve Bible) is the title of a primarily spoken-word album released by Laurie Anderson on Warner Bros. Records in 1995, the last of her 7-album deal that she signed in the early 1980s.
In 1974, I went to Mexico to visit my brother who was working as an anthropologist with Tsutsil Indians, the last surviving Mayan tribe. And the Tsutsil speak a lovely birdlike language and are quite tiny physically; I towered over them. Mostly, I spent my days following the women around since my brother wasn't really allowed to do this. We got up at 3am and began to separate the corn into three colors. And we boiled it, ran to the mill and back, and finally started to make the tortillas. Now all the other women's tortillas were 360°, perfectly toasted, perfectly round; and after a lot of practice mine were still lobe-sided and charred. And when they thought I wasn't looking they threw them to the dogs.
After breakfast we spent the rest of the day down at the river watching the goats and braiding and unbraiding each other's hair. So usually there wasn't that much to report. One day the women decided to braid my hair Tsutsil-style. After they did this I saw my reflection in a puddle. I looked ridiculous but they said, "Before we did this you were ugly, but now maybe you will find a husband."
I lived within in a yurt, a thatched structure shaped like a cob cake. And there's a central fireplace ringed by sleeping shelves sort of like a dry beaver down. Now my Tsutsil name was Lausha, which loosely translated means "the ugly one with the jewels". Now ugly, OK, I was awfully tall by local standards. But what did they mean by the jewels? I didn't find out what this meant until one night, when I was taking my contact lenses out, and since I'd lost the case I was carefully placing them on the sleeping shelf; suddenly I noticed that everyone was staring at me and I realized that none of the Tsutsil had ever seen glasses, much less contacts, and that these were the jewels, the transparent, perfectly round, jewels that I carefully hid on the shelf at night and then put for safekeeping into my eyes every morning.
So I may have been ugly but so what? I had the jewels.
Full fathom five thy father lies
Of his bones are coral made
Those are pearls that were his eyes
Nothing of him that does fade
But doth suffer a sea-change
Into something rich and strange.
(Canto di Ariel da "La Tempesta", di W. Shakespeare, recitato in coda al brano di Laurie Anderson)
A cinque tese sott'acqua tuo padre riposa
Dalle sue ossa è fatto corallo
Sono perle, ciò che erano i suoi occhi
Niente di lui scompare
Ma patisce un mutamento marino
In qualcosa di ricco e di strano
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I Nonni Profondi
Testo: BRUNO TOGNOLINI
Illustrazione: ANDREA ALEMANNO
Voce recitante nel CD allegato al libro: GIORGIO SCARAMUZZINO
Un racconto scritto per il libro collettaneo RADICI, Franco Cosimo Panini Ragazzi, 2013.
Il libro è stato realizzato col contributo volontario e gratuito di novanta autori e illustratori, a sostegno del progetto "Il cantiere della Fantasia", attivato a seguito del terremoto del maggio 2012 per organizzare attivitΰ dedicate ai bambini.
"Quei nani hanno scavato troppo a fondo, e con troppa avidità. Hanno svegliato cose che era meglio lasciare dormire"
"Di che parli, Gandolfi?"
"Hanno bucato un'altra volta la montagna, una ferita di spiedo lunghissima, da Firenze a Bologna"
"E allora? Il calcio la terra lo ha dato lontano, a cinquanta chilometri da lì"
"Be' appunto! Se a te quand'eri vivo ti davano un ceffone, il calcio lo tiravi col piede, mica con la faccia!"
I Nonni Profondi, corpi di pietra nella pietra, seduti in cerchio dieci chilometri sotto la terra, discutevano con voci senza suono. Il più vecchio di tutti, tanto antico che ormai non aveva più nome, levò la mano per sedare il battibecco.
"Non hanno colpa quei buchi, nonno, son punture di spillo"
"E allora cosa? Perchι la terra ha sgroppato così?"
L'Antico guardò nel fuoco di lava per un lungo istante, poi riprese con voce più stanca.
"La Montagna Sepolta è in cammino. Striscia lenta sotto la pianura da milioni di anni. Va a nord. è un cammino durissimo, badate. Deve spingere con tutta la sua forza"
"Che non è poca..."
"No, non è poca: lo sanno le nostre braccia. Ma fa fatica, una fatica immensa. E come un uomo che spinge un carico troppo pesante, ogni tanto si ferma e si scrolla: tutto qui"
Era così. L'Appennino, in milioni di anni, era pian piano sprofondato sotto terra. Il fiume l'aveva sepolto coi suoi fanghi. Aveva generato la pianura. Ma i monti continuavano a torcersi, sotto di essa, a strisciare lentissimi a nord.
Poi erano giunti gli umani, a popolare la piana. Generazioni di contadini senza numero l'avevano raspata e coltivata. Le vigne, il grano, il mais, i peschi e i ciliegi affondavano le radici nella terra, la tenevano ferma. I contadini nascevano, zappavano, morivano, e finivano anche loro nella terra. Strato su strato, nonni su padri su figli, sempre più in fondo. E laggiù continuavano per sempre a coltivare campi inimmaginabili di roccia, costellando la Montagna Sepolta di frutta smaglianti: le mele dell'argento, le arance dell'oro, le ciliegie del rame. E nel farlo, con braccia di pietra rese forti dai millenni, dai ricordi, dalla compassione, tenevano ferma la terra profonda per tutti.
"Ci è scappata di mano!" disse Gandolfi, accigliato.
"È così" confermò l'Antico. Ci fu un silenzio.
"Cosa dobbiamo fare?"
Il Senza Nome li guardò uno per uno, vuotò la pipa nel fuoco, e di nuovo parlò.
"Non dipende solo da noi. I viventi sono le foglie, sotto il cielo. Noi siamo le loro radici giù nella terra. Se la radice soffre, la foglia muore. Ma anche se la foglia soffre, se perde coraggio e impeto di vita, la radice si guasta. I viventi lassù, sotto il cielo, hanno bisogno della nostra forza. E noi della loro. Stiamo a vedere: se dopo il colpo leveranno il capo, come hanno sempre fatto le nostre genti, anche noi, gli Antenati quaggiù, troveremo il vigore. Stiamo a vedere. Abbiamo sempre fatto insieme. Ora andate, riprendete i vostri posti. Ci aspetta molto lavoro"
"Ma quei nani che stan scavando le gallerie..."
"Piantala, Gandolfi, e andiamo a lavorare. Ci penseranno i Nonni Profondi di lì"
Qui la lettura di GIORGIO SCARAMUZZINO nel CD allegato al libro
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* Che sintesi perfette riesce a fare la poesia: "suonare ti tocca", "ti piace lasciarti ascoltare". Ti tocca e ti piace. È la versione più potente che si possa dare del destino del musicista "popolare".
Il suo gruppo, la sua famiglia, il suo paese, la sua cricca d'amici: la sua comunità (la sua "community", si direbbe oggi?) sa che lui sa suonare. E quando è il momento, quando occorre, gli chiede di farlo. Ha accettato e accolto, a volte a costi di noie e sopportazioni, di avere in seno un estroso, un artista, un musicista: ha il diritto di chiedergli di suonare. E lui ha il diritto ("ti piace") e il dovere ("ti tocca") di farlo. Lo fa "per loro". Suona per loro.
Suona Per.